Sull’affollata via di Damasco

Giuseppe Celi, Dario Guarascio e Annamaria Simonazzi intervengono nel dibattitto sulla riforma delle regole fiscali europee esaminando alcune delle principali proposte recentemente formulate al riguardo. Celli, Guarascio e Simonazzi si chiedono in particolare in che misura tali proposte rappresentino una reale discontinuità rispetto all’impianto di politica economica sino ad oggi dominante nella EuroZona e sottolineano l’importanza che hanno in molti casi alcuni dettagli che restano ancora non precisati.

Vi ricordate l’austerità espansiva, i limiti alla crescita causati da debiti pubblici elevati (si veda Heimberger in questo numero del Menabò), la necessità di separare la politica monetaria dalla politica fiscale, di ridurre deficit e debito a numeri magici ben definiti, e la necessità di punire i trasgressori per evitare che diano il cattivo esempio (l’azzardo morale), costi quel che costi? Contrordine compagni, forse ci siamo sbagliati.

La pandemia sembra aver finalmente convinto anche gli economisti più riottosi dell’insostenibilità della politica economica dell’EuroZona (EZ). Un’insostenibilità resa evidente già dalla crisi finanziaria del 2008. Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), e gli ulteriori vincoli fiscali introdotti in seguito, hanno contribuito al perdurare della crisi delle economie meridionali, accentuando la divergenza tra centro e periferia, e al complessivo indebolimento dell’economia europea rispetto ai suoi principali concorrenti, Stati Uniti e Cina. Sul fronte monetario, il vincolo statutario che vietava alla Banca Centrale Europea (BCE) di intervenire sul mercato dei titoli ha aumentato i rischi di insolvenza, esponendo l’EZ a un grado di instabilità sconosciuto nelle altre economie sviluppate.

La pandemia sembra aver mutato lo scenario della politica economica favorendo, allo stesso tempo, una conversione ‘sulla via di Damasco’ per molti tra coloro che si sono in precedenza distinti per una difesa strenua dell’austerità di bilancio e delle sue virtù espansive. La nuova impostazione parte dal riconoscimento di un “trilemma” che avrebbe contraddistinto il regime pre-pandemia: l’esistenza di regole fiscali asimmetriche (costrittive solo per i paesi in deficit), una politica monetaria inefficace soprattutto in presenza di tassi di interesse nulli, l’assenza di un bilancio europeo.

Non è chiaro, tuttavia, in che misura tale conversione rappresenti realmente una svolta. Se “è quasi un’ovvietà concludere che a mutate circostanze economiche, strumenti e regole vadano rivisti”, come ha di recente affermato Lucrezia Reichlin, è necessario comprendere se questa revisione implichi una effettiva messa in discussione della teoria che ha ispirato l’impianto di politica economica dell’EZ. O se rappresenti, al contrario, una deviazione transitoria in attesa di tornare appena possibile allo status quo precedente. Considerate le dimensioni raggiunte dai debiti pubblici della EZ, la sospensione dei vincoli fiscali e la sterilizzazione di parte degli stessi debiti sono passaggi ineludibili per evitare la deflagrazione di diverse economie dell’area, in particolare di quelle meridionali. Ma una sospensione transitoria dei vincoli o una loro sostituzione con regole/principi diversi da quelli attuali così come la definizione di soluzioni volte a ridurre esogenamente la dimensione del debito pubblico europeo non costituiscono, in quanto tali, garanzia di un nuovo assetto strutturale realmente sostenibile e non più foriero di divergenza e diseguaglianze.

Rispetto alla fase pre-pandemica, va sottolineato, anche gli interventi di politica economica posti in essere dalle istituzioni comunitarie hanno mostrato importanti discontinuità: consistente intervento dal lato della domanda con il Next Generation EU (NGEU) parallelamente alla già menzionata sospensione temporanea dei vincoli fiscali; avvio del ‘Pandemic Emergency Purchase Programme’ (PEPP), attraverso cui la BCE ha ampliato le misure di intervento rimuovendo di fatto ogni vincolo agli acquisti di titoli. Si tratta però, anche in questo caso, di misure transitorie giustificate dalla straordinarietà della situazione pandemica. Non vi è alcuna garanzia che il NGEU si trasformi nel preludio di un bilancio comune o di una forma stabile di redistribuzione fiscale tra gli stati. Così come non è assolutamente detto che il PEPP apra la strada ad un nuovo rapporto tra politica fiscale e monetaria nell’EZ. Allo stesso tempo, tuttavia, la perdurante incertezza e le preoccupazioni circa le prospettive economiche globali hanno posto al centro del dibattito di politica economica (e dato loro forza politica) alcune proposte, più o meno radicali, di riforma del PSC e di gestione dei debiti pubblici accumulati nel corso della pandemia. In quel che segue, proponiamo una lettura ragionata delle proposte di riforma in campo. Possiamo distinguere tre elementi chiave:

1. Quale politica economica? A questo proposito, la novità più importante è la riabilitazione della politica fiscale, in particolare degli investimenti pubblici, a livello nazionale ed europeo, e la riaffermazione della necessità di un coordinamento fra politica fiscale e monetaria. Questa impostazione accomuna le proposte, tra gli altri, di Buti e Messori; e di Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller.

2. Evitare tuttavia che la riacquistata libertà fiscale significhi un “liberi tutti”, soprattutto per i prodighi paesi del sud (l’onnipresente azzardo morale) e dunque fissare i paletti della politica fiscale, ridefinendo le norme del patto di stabilità. Questo è ciò che preoccupa in modo particolare chi si è esercitato sulla riforma (o sulla integrale sostituzione) del PSC, come nel caso delle proposte avanzate, ormai qualche mese fa, da Blanchard, Leandro e Zettlemeyer; e poi da Martin, Pisani-Ferry e Ragot.

3. Come gestire l’enorme debito pubblico lasciato in eredità dalla gestione della crisi del 2008 e della pandemia, soprattutto in vista di una politica monetaria che non potrà rimanere per sempre ultra-permissiva? Questo punto è affrontato in modo esplicito da Giavazzi e colleghi mentre è in parte negletto nelle altre proposte.

Sul primo punto il consenso degli economisti ha ricevuto un importante avallo politico dall’articolo sul Financial Times co-firmato da Emmanuel Macron e Mario Draghi: la politica fiscale è fondamentale “per proteggere le nostre persone e trasformare le nostre economie”; il NGEU “è stato un successo” e “offre un utile modello per il futuro”; soprattutto, le regole europee vanno cambiate, il debito va ridotto, ma non aumentando le tasse o tagliando la spesa.

Per quanto riguarda la riforma delle regole fiscali, la Commissione Europea  aveva già avviato un processo di consultazione nel febbraio 2020, poche settimane prima che le economie dell’UE entrassero in quarantena, riconoscendo che il patto di stabilità aveva portato a politiche di bilancio pro-cicliche durante la crisi del debito sovrano. Le proposte di riforma sul tappeto – quella di Blanchard e colleghi e quella del gruppo di economisti francesi capitanati da Pisani-Ferry – condividono il convincimento che i valori di riferimento numerici applicati in modo uniforme non riflettono adeguatamente le diverse situazioni di sostenibilità del debito e che sarebbe preferibile una maggiore differenziazione nella governance di bilancio. Entrambe le proposte, mirano alla sostituzione delle attuali regole fiscali rigide con standard più flessibili che lascino maggior spazio di manovra ai governi nella valutazione della sostenibilità del proprio debito pubblico e, quindi, nell’uso della politica fiscale, ma mentre la prima rinuncia del tutto alle regole fiscali numeriche, la seconda mantiene dei valori di riferimento differenziati in base alle condizioni del paese. Una terza proposta più ‘interna’ alle istituzioni comunitarie, avanzata nell’autunno 2020 dallo European Fiscal Board, pone l’accento su una maggiore flessibilità lungo il percorso di convergenza verso obiettivi di sostenibilità.

Rappresentano queste proposte una vera discontinuità rispetto al passato e una risposta coerente con la necessità di un ribilanciamento delle divergenze centro-periferia in Europa?  Ci pare che, pur superando le rigidità dei criteri di Maastricht, esse rimangano all’interno del paradigma macroeconomico che ha cercato di depoliticizzare la gestione dell’economia (in questo caso le decisioni di bilancio), sottomettendola all’automatismo di regole affidate al controllo tecnocratico. Secondo Blanchard e colleghi, il passaggio dalle regole agli standard consentirebbe di ampliare i margini di azione fiscale, sia in termini quantitativi che qualitativi, attenuando la prociclicità dell’attuale impianto e favorendo, nel contempo, il coordinamento in seno all’EZ. A ben vedere, tuttavia, la proposta sconta la stessa fallacia teorica del PSC rischiando di ottenere risultati analoghi, se non peggiori. L’impostazione teorica della proposta prosegue nel solco della ‘depoliticizzazione’ della politica economica che ha contraddistinto l’intera costruzione europea: si restringe lo spazio fiscale sulla base di parametri e modelli che, ammantati di neutralità tecnica, tendono in realtà a perpetuare lo status quo e ad implementare un’agenda dalle chiare implicazioni distributive.

A differenza di Blanchard e coautori, Martin et al. (2021) sono più espliciti nel riconoscere che le unioni monetarie comportano due esternalità: una connessa al rischio di crisi di insolvenza, l’altra al bias deflazionistico (cioè alla mancanza di domanda). Gli autori riconoscono anche che solo la prima esternalità è stata presa in considerazione nel definire il PSC ammettendo che le principali variabili che entrano nella determinazione della sostenibilità fiscale non sono indipendenti (con problemi di bidirezionalità delle relazioni ed endogenità), cosa che rende le stime della stessa sostenibilità altamente incerte. Pur sottolineando l’esistenza di esternalità (dal lato della domanda), gli autori tendono alla fine a sottovalutare il ruolo che queste hanno nell’influenzare determinazione e stima della sostenibilità del debito. In termini di governance, invece, affidare alla Commissione la responsabilità della gestione delle esternalità della domanda – come suggeriscono Martin et al. (2021) – non suona molto rassicurante: i surplus eccessivi della Germania sono proseguiti indisturbati negli anni nonostante la stessa Commissione avrebbe dovuto vigilare e sanzionare (un’analisi approfondita delle proposte di Blanchard et al. (2021) e di Martin et al. (2021) è contenuta in un lavoro di recente pubblicazione: La crisi perenne dell’Eurozona: malanni strutturali e propositi di riforma. Nuova Lettera Matematica, 4/2021).

Rimane infine il problema ‘concreto’ della sostenibilità del debito, soprattutto in vista del recupero di una maggiore autonomia nella gestione della politica monetaria da parte della BCE.  Questo problema è sul tavolo già da molto tempo, e le proposte avanzate coprono l’intero arco della politica economica. Da quella, radicale, di cancellare di fatto una parte del debito, per esempio seppellendo per sempre la parte del debito acquistata dalla BCE nel fondo dei suoi forzieri, a quella, opposta, di procedere all’istituzione di un fondo di ammortamento del debito.

Giavazzi et al. (2021) propongono di passare il debito accumulato per far fronte alla pandemia (e eventualmente anche parte del debito riconducibile alla crisi del 2008) a un’agenzia apposita. Mentre le conseguenze pratiche potrebbero essere diverse a seconda del modo di attuazione (per esempio finanziamento con emissione di titoli sul mercato o swap di titoli fra BCE e Agenzia, o fra Agenzia e singoli stati), il punto rilevante è il riconoscimento che il debito deve essere gestito, e non necessariamente rimborsato, in modo da liberare almeno in parte la politica fiscale e la politica monetaria, e che soluzioni “tecniche” sono possibili.

Ma se non vi sono vincoli economici, e nemmeno legali, all’attuazione delle riforme, persistono vincoli politici, assai più critici. Ed è qui che possono verificarsi le più significative defezioni sulla via di Damasco.

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