Sul liberalismo inclusivo e dintorni

Norberto Dilmore e Michele Salvati intervengono sul commento di Francesco Farina al loro recente libro Liberalismo inclusivo, pubblicato su uno scorso numero del Menabò, argomentando contro alcune sue osservazioni critiche. In coda all’intervento di Dilmore e Salvati pubblichiamo anche una breve controreplica di Farina.

Sul n. 159 del Menabò, Francesco Farina ha scritto un articolo che conteneva anche una sua valutazione critica del libro da poco uscito di N. Dilmore e M. Salvati, Liberalismo inclusivo. I due autori ci hanno inviato una replica a quanto affermato da Farina che qui pubblichiamo assieme a un breve commento di Farina. Il Menabò coglie l’occasione per scusarsi con Norberto Dilmore per non aver rilevato che nell’articolo il suo cognome (de plume) era stato erroneamente trasformato in Gilmore.

 

Replica a Farina

Norberto Dilmore e Michele Salvati

Iniziamo dalle affermazioni fattualmente erronee che Farina ci attribuisce per poi passare alle questioni di fondo. Farina scrive: “Leggere il dibattito politico degli ultimi due secoli in base all’idea di un “contratto sociale tra liberi e eguali” significa di fatto indebolire, fino alla negazione, una potente categoria del capitalismo – il “conflitto sociale” …” Niente di tutto questo è presente nel libro. Tra l’altro l’espressione virgolettata “contratto sociale tra liberi e eguali” non appare mai nel nostro testo. Mentre talora Farina aggiunge del suo al contenuto del nostro libro, in altre parti toglie del nostro… Per esempio scrive: “… i governi europei -accettando l’austerità, termine che però nel libro non compare mai …”. Vogliamo subito rassicurare Farina che la parola austerità è ben presente nel testo, apparendovi sette volte: non c’è dunque nessuna allergia al suo uso da parte nostra. Se il termine “austerità” non ricorre nel nostro libro con maggiore frequenza ciò avviene perché il nostro scopo non è quello di riflettere ancora una volta (se non per brevi capi) sulla grande crisi finanziaria del 2007-2008 e sulla crisi del debito sovrano che ne è seguita, ma è invece quello di focalizzarsi su una possibile futura fase stabile del capitalismo contemporaneo, una fase che a nostro avviso non necessita politiche d’austerità.

Quanto all’accusa che l’unfettered liberalism non abbia padri e che manca “una articolata analisi dei ceti che dovrebbero sostenere nel discorso pubblico -e nelle urne- il nuovo “compromesso democratico” [di nuovo un’espressione virgolettata che non utilizziamo nel libro] restiamo basiti: nei capitoli 3, 4 6 e 7 non solo discutiamo ampiamente sia dei blocchi sociali che hanno sostenuto le diverse fasi del capitalismo contemporaneo, ma avanziamo una serie di proposte per le forze socialdemocratiche e più in generale di centro-sinistra al fine di costruire un blocco sociale stabile e maggioritario in grado di assicurare l’affermazione di una nuova fase di liberalismo inclusivo. Si può certamente dissentire dall’analisi che sviluppiamo nel capitolo 5 sulle trasformazioni nella natura di e nei rapporti tra capitale e lavoro e le conseguenze che ha sui blocchi sociali di riferimento, ma affermare che questa analisi semplicemente non esiste solleva il dubbio che Farina il nostro libro non l’abbia letto (o ne abbia letto solo alcune brevi parti).

Quanto alla questione dell’unfettered liberalism, Farina dà l’impressione che nel nostro libro, invece di chiamare le cose come stanno e di dire pane al pane e vino al vino, usiamo termini anglosassoni per sviare il lettore dalla vera natura dei fenomeni e dalle categorie più adatte a interpretarli. Per fortuna, continua Farina, ci sono autori come Boitani e sé stesso che “restituiscono all’unfettered liberalism il nome che economisti come Sen, Stiglitz e Krugman, gli hanno dato: neoliberalismo”. Purtroppo, però, anche noi nel libro facciamo ampio uso del termine nella sua versione italica, “neoliberismo”, che caratterizziamo come una delle fasi (quella che comincia negli anni ’80 del secolo scorso per concludersi con la grande crisi finanziaria del 2008-2009) del capitalismo dominato dal fondamentalismo di mercato o, se si preferisce, dall’unfettered liberalism. Tanto per essere chiari, nel libro il termine “neoliberismo” appare più di cinquanta volte, contro le cinque volte di unfettered liberalism (addirittura meno di “austerità”!).

Ma passiamo ora a quelle che ci sembrano le tre critiche di fondo che Farina muove a Salvati e Dilmore.

1. Ci rifiuteremmo di riconoscere i limiti del liberalismo e di trarne le dovute conseguenze: “gli autori sostengono che la crisi finanziaria del 2008, e l’insufficiente risposta alla crisi pandemica, non avrebbero svelato i limiti del liberalismo, ma piuttosto rafforzato la necessità di far fronte “all’accrescimento delle diseguaglianze …”” ecc. [per una volta il virgolettato è corretto]. Chi legge il nostro libro non avrà difficoltà a rendersi conto che diciamo senza giri di parole che la grande crisi ha determinato la crisi irreversibile della narrativa neoliberista e che siamo entrati in un periodo di transizione, un interregno per dirla con Antonio Gramsci. Ma significa questo che il liberalismo in sé è finito, come sembra suggerire Farina? Noi non lo crediamo, così come non lo credeva Keynes quando scriveva la Teoria Generale o Beveridge e i socialdemocratici scandinavi quando formulavano i loro piani di welfare state. Come cerchiamo di dimostrare nel libro, ci sono diverse forme di liberalismo e riteniamo che nella situazione attuale ci siano le condizioni per l’affermazione di una nuova forma, che presenta somiglianze, ma che non può ricalcare (essendo mutate le condizioni di fondo) l’altra grande fase di liberalismo inclusivo: quella del compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra (1945-1975). Per noi l’asse portante delle fasi di liberalismo inclusivo è basato su un compromesso tra aspetti socialisti e liberali, se visto all’interno del pensiero liberale che ha dato vita -in risposta ai contro-movimenti polanyiani- alle liberaldemocrazie nel nostro angolo di mondo. In un periodo in cui fioriscono in molte parti del pianeta (ivi incluso il nostro angolo di mondo) democrazie illiberali e regimi autoritari ci sembra importante riaffermare questo ancoraggio. Se però Farina pensa veramente che i limiti mostrati dal liberalismo nel suo insieme (e non in una sua particolare forma, storicamente determinata) siano insuperabili deve dirlo chiaramente e portare il suo ragionamento alle logiche conseguenze, vale a dire che le liberaldemocrazie dei paesi avanzati non possono essere riformate e devono essere depurate dei loro elementi liberali. Questa però è una slippery slope, soprattutto in periodo in cui fioriscono in molte parti del mondo (ivi incluso il nostro angolo) democrazie illiberali e regimi autoritari. Da parte nostra, riteniamo che sia importante affermare il nostro ancoraggio ai fondamenti delle democrazie liberali e a formulare raccomandazioni compatibili con esse.

2. Non saremmo ridistributivi. Non è che per Farina non siamo sufficientemente ridistributivi, è che non lo siamo affatto. Questo perché le sole vere politiche ridistributive sembrano essere quelle radicali propugnate da Piketty. Per dirla con un termine sportivo, Farina pone l’asticella della ridistribuzione molto in alto: “Al contempo però gli autori mettono ben in guardia i partiti progressisti europei dall’elaborare piattaforme di politica economica troppo “avanzate” [altro termine virgolettato che non utilizziamo], a cominciare dalla tassazione della ricchezza”. Le proposte del penultimo volume di Piketty, Capital et Ideologie, vengono respinte: agli autori apparirebbe infatti “sorprendente” il “disdegno di Piketty” per le ripercussioni di una “riforma dei diritti di proprietà””. Partiamo dalla nostra pretesa messa in guardia contro le politiche ridistributive e contro la tassazione della ricchezza: nel sotto-capitolo 7.4 (“Promuovere politiche nel contempo ambiziose e realistiche di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze”) scriviamo: “il ritorno ad una tassazione progressiva e un’imposizione più equilibrata tra lavoro e capitale deve essere portato avanti con vigore dai partiti di centrosinistra” (p.230). Mentre la tassazione dei patrimoni non è di per sé un prerequisito per l’affermazione di una nuova forma di liberalismo inclusivo, noi scriviamo che “tale scelta può essere lasciata ai singoli partiti, alla luce delle condizioni nazionali in cui operano. Ciò non toglie che soprattutto la socialdemocrazia dovrebbe continuare a riflettere sulla questione e non privarsi di uno strumento che potrebbe rivelarsi particolarmente utile per assicurare l’equità nella distribuzione degli oneri nel perseguimento degli obiettivi di politica economica”. Non ci sembra che si tratti una fatwa neoliberista contro la progressività dell’imposizione fiscale e la tassazione dei patrimoni! Quanto poi all’accusa di “disdegno di Piketty”, Farina si guarda bene dal contestualizzare (dimenticando en passant di menzionare che il virgolettato non è degli autori, ma una citazione di Jean Pisani-Ferry, che peraltro non abbiamo alcuna difficoltà a sottoscrivere). Lasciamo comunque al lettore decidere se la frase di Pisani-Ferry ricade nei crimini di lesa maestà o se invece non sia legittimo da parte degli economisti -ma anche dei politici- interrogarsi sulle ripercussioni che certe proposte -in particolare quando sono radicali- possono avere in termini economici e sociali: “non c’è niente di male -scrive Pisani-Ferry- nell’infrangere tabù e considerare riforme fondamentali riguardanti la proprietà del capitale. Ma questo alla condizione che si affrontino anche le ripercussioni. L’apparente disdegno di Piketty per le implicazioni delle sue proposte è sorprendente. Non si degna neanche di discutere le conseguenze per i tassi di risparmio, la dinamica degli investimenti o l’innovazione. E, per quel che riguarda la gestione delle imprese, la distribuzione sembra la sola lente utilizzata” (pp. 99-100). Dove sta lo scandalo?

3. Soffriremmo infine di un’aspirazione all’ “oggettività” [di nuovo, termine virgolettato che non utilizziamo nel libro]. Non ci è chiaro esattamente che cosa intenda Farina per aspirazione all’oggettività: il nostro è un libro che difende una tesi partigiana, che sta da una parte dell’ampio spettro delle tesi liberali (di fatto si tratta di una tesi di socialismo liberale), ed è questo il motivo che ha impedito ad uno dei due coautori di sottoscriverlo col suo vero nome. Quel che abbiamo cercato di sviluppare nel libro è un’analisi delle condizioni intellettuali e materiali che fanno sì che una narrativa politico-economico-sociale possa diventare egemone e modellare una nuova fase del capitalismo, vale a dire oggi una nuova fase di liberalismo inclusivo. Quest’analisi ci consente di delineare un futuro possibile -e per noi anche desiderabile- per il nostro angolo di mondo. Un futuro possibile, ma tutt’altro che certo, a cui cerchiamo di fornire il nostro piccolo contributo di idee e di proposte, senza peraltro avere pretese di oggettività, se oggettività è intesa come il tentativo di non sbilanciarsi politicamente. Rivendichiamo piuttosto una coerenza tra l’analisi che sviluppiamo (e l’abbiamo fatto nel modo più serio che è possibile in un libro destinato a non specialisti) e le raccomandazioni che formuliamo.

 

Commenti alla replica di Dilmore e Salvati

Francesco Farina

L’accusa che Dilmore e Salvati mi rivolgono di non avere letto il loro libro è francamente debole: non concordare non vuol dire non aver letto. E della parola austerità è difficile mantenere il ricordo, visto che il libro non presenta alcuna evidenza empirica e più che analizzare, descrive. La polemica sui “virgolettati” che non ci sono nel loro libro è poi del tutto strumentale: nel mio commento è evidente che si tratta di miei virgolettati, che fanno riferimento non al testo di Dilmore e Salvati ma a espressioni sintetiche di un’interpretazione, ben nota e largamente condivisa, anche se certo non dagli autori, della fase storica che viviamo.

Dimore e Salvati affermano anche: “Quanto alla questione dell’unfettered liberalism, Farina dà l’impressione che nel nostro libro, invece di chiamare le cose come stanno e di dire pane al pane e vino al vino usiamo termini anglosassoni per sviare il lettore dalla vera natura dei fenomeni e dalle categorie più adatte a interpretarli”. Di nuovo, si tratta di un’accusa gratuita: nessun maldestro tentativo di stravolgere il loro pensiero. Sono infatti pienamente convinto della sincera convinzione degli autori che il neoliberismo (o il liberalismo, se gli autori preferiscono) sia in grado di inglobare istanze socialdemocratiche. Opinione pienamente legittima; come spero vorranno concedere che sia legittima anche la mia: negli ultimi quarant’anni le economie liberali hanno cercato di abbattere le conquiste socialdemocratiche.

Non ho da aggiungere altro. A sostegno della tesi che starebbe per nascere una nuova forma (grassetto degli autori) di liberalismo, Dilmore e Salvati non possono portare dati di fatto, ma soltanto la loro opinione. La nostra è semplicemente una diversità di opinione. Per esempio, sulla necessità (o meno) di ridistribuire la ricchezza. Gli autori dovrebbero rassegnarsi ad accettare che si possa dissentire con franchezza dalla loro visione.

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