Studiare in carcere: una scelta illuminista. L’esperienza dei Poli Universitari Penitenziari

Andrea Borghini illustra l’iniziativa dei Poli Universitari Penitenziari che ha lo scopo di consentire ai carcerati con diploma di svolgere attività di studio universitario. Borghini sostiene che si tratta di una realtà in crescita ma che sono ancora molte le difficoltà, legate all’introduzione in carcere di metodologie didattiche innovative o alla scarsa e cattiva informazione sull’esperienza. Egli sottolinea anche che il progetto rispecchia una scelta illuminista, finalizzata a garantire il diritto costituzionale allo studio e a far sì che i detenuti possano, una volta scontata la pena, avere qualche chance in più di reinserimento in società.

Carcere e Università possono apparire, a prima vista, mondi estremamente lontani tra loro. Il primo rappresenta, storicamente, un luogo di privazione di libertà, di violenza e di segregazione; la seconda è il luogo per eccellenza della libera ricerca e della diffusione della conoscenza.

Eppure, recuperando la dimensione storico-etimologica del lemma Università – che possiamo far risalire, con qualche sforzo di memoria, al Medioevo ˗ incontriamo la nozione di studium generale (o commune, o universale), nel senso di ‘luogo di studî aperto a tutti’, con particolare riferimento, come suggerisce l’Enciclopedia Treccani, al pubblico che poteva frequentarlo. E, se, dall’altra parte, pensiamo all’evoluzione del carcere, che passa, attraverso una serie di riforme storiche, da istituto di mero e provvisorio contenimento a luogo dove vengono progressivamente introdotte misure di trattamento finalizzate alla risocializzazione e al reinserimento del reo, ecco che le distanze iniziano a farsi meno vistose e i nessi tra carcere e studio universitario si fanno più evidenti, in quanto le due istituzioni sono soggette agli effetti della svolta illuminista e moderna propria delle nostre società.

In tale quadro storico e valoriale si iscrive l’impresa intellettuale e istituzionale rappresentata dai PUP, i Poli Universitari Penitenziari.

I PUP sono sezioni a regime attenuato, sorti in molti istituti di pena italiani, dove detenuti, italiani e stranieri, in possesso del diploma di scuola superiore, possono svolgere un’attività di studio universitario, seguiti e coordinati da docenti universitari appositamente incaricati. Regolati, almeno in Italia, da alcune norme costituzionali, in particolare l’art. 34, da alcune leggi e regolamenti – la legge 26 luglio 1975, n. 354, contenente Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – e dal d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230, contenente il Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà – che ha introdotto “diverse agevolazioni per gli studi universitari, come la possibilità per gli studenti di essere assegnati a camere e reparti adeguati per potersi concentrare nello studio e/o di tenere nella propria camera libri, pubblicazioni ed altri strumenti didattici”, i poli sono luoghi fisici, all’interno del carcere, attrezzati per svolgervi attività universitaria: lezioni, seminari, esami, studio in presenza di docenti e/o tutor. A disposizione di studenti e tutor vi sono di solito sale computer, sale studio e una biblioteca.

A tale impresa partecipano, oltre al personale universitario e agli studenti, anche il mondo del volontariato e ovviamente il personale penitenziario, dagli educatori al personale di polizia, impegnati, come da legge, a facilitare il percorso di reinserimento del reo.

Da esperienza minore nell’ambito delle molteplici attività trattamentali previste in prigione (attività lavorative, teatro, pittura ecc.), lo studio in carcere si è via via dilatato, moltiplicando il numero di sedi e divenendo oggetto di un’ampia e approfondita discussione istituzionale, attraverso l’avvio, nel 2015, degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, occasione per confrontarsi sul carcere e programmare interventi futuri.

Tra i 18 tavoli tematici degli Stati Generali, che hanno affrontato una serie di questioni, dal lavoro agli spazi all’affettività, il Tavolo 9 si è misurato con il tema dell’istruzione e della formazione universitaria, evidenziando in particolare il ruolo che la cultura riveste rispetto al ‘tempo’ in carcere, per tramutarlo in strumento utile all’acquisizione di elementi positivi per la propria soggettività e per un reale percorso di reinserimento sociale.

Gli Stati Generali hanno rappresentato un passaggio istituzionale fondamentale perché per la prima volta hanno assunto come centrale il ruolo della formazione universitaria e hanno riconosciuto, cercando di metterla a sistema, quella complessa e frastagliata esperienza sul campo, sorta in Italia negli ultimi anni e rappresentata dai Poli Universitari Penitenziari.

Infatti, il progetto PUP costituisce un’esperienza tutta italiana, perlomeno nella sua diffusione e nelle sue caratteristiche funzionali (analoga esperienza è presente in Spagna ma è basata su di un sistema di e-learning). Il panorama dei poli è, però, estremamente eterogeneo. Ne sono censiti 19 in tutta Italia, ognuno con storie e percorsi differenti. Si va da quelli storici come Torino e Padova, a quelli regionali come il Polo della Toscana, fino a quelli di Rebibbia, Bologna e Lecce, e alle recentissime esperienze di Catanzaro e Sassari. Ogni Polo tende a sorgere in prossimità di una sede universitaria in modo che sia garantita la funzionalità pressoché quotidiana. L’eterogeneità delle esperienze riflette anche le diverse metodologie didattiche – che vanno dalle lezioni frontali all’e-learning e allo Skype controllato – e risente fortemente delle caratteristiche proprie del carcere, come luogo dove la sicurezza ha sempre la priorità.

Pur non ancora in possesso di statistiche sistematiche e complete, i dati presenti sul sito del Ministero della Giustizia segnalano al 31.12.2016 un numero di iscritti e laureati pari rispettivamente a 200 e 46, in sensibile aumento rispetto al 2015 (rispettivamente 178 e 17), nella quasi totalità di sesso maschile, dato che la popolazione detenuta femminile è in generale molto bassa (attorno al 4%).

Il quadro che emerge dalle esperienze dei Poli italiani si presenta disomogeneo e ambivalente: se molti sono i Poli, essi incontrano altrettante difficoltà riguardanti l’introduzione degli strumenti didattici più innovativi, l’inadeguatezza degli spazi destinati alle attività istruttivo/formative, la difficoltà a conciliare i tempi della formazione con quelli della vita interna dell’istituto di pena (sovrapposizione scuola-lavoro); e, ancora, l’elevato ‘turn over’ dei detenuti (soprattutto nelle Case Circondariali) che rende impossibile sia il completamento di cicli scolastici strutturati in modo tradizionale, sia la sistematizzazione e validazione dei percorsi già realizzati.

È qui, dunque, che l’Illuminismo del progetto che richiamavamo precedentemente deve fare i conti con la ‘spietatezza’ del carcere e con la ragion di Stato che lo guida. Nonostante la buona volontà del personale penitenziario, ed in particolare degli educatori, le difficoltà nell’ottenere i permessi per la partecipazione dei docenti, le difficoltà nel reperire i testi e farli arrivare ai detenuti, l’impossibilità nell’individuare delle best practices omogenee sul territorio, i limiti nella governance del processo che mette insieme attori con un diverso background, ciascuno geloso delle proprie competenze e della propria storia, costituiscono una serie di criticità nella vita quotidiana dei Poli.

Va anche sottolineato il ruolo negativo che può giocare il clima sociale: il carcere è tema poco spendibile sul piano elettorale a meno che non si scelga un approccio giustizialista e populista; e la diffusione, negli ultimi anni, all’interno dell’opinione pubblica, di forme di populismo penale e di panico morale non aiuta di certo il progetto. Il carcere è sempre più percepito come pattumiera sociale e non come un luogo di risocializzazione.

Aggiungeremmo, in ultimo, la scarsa conoscenza del fenomeno coniugata ad un certo sensazionalismo mediatico. Nel senso che, da un lato, vi è scarsa informazione – e questo si deve probabilmente alla delicatezza del tema e alle strumentalizzazioni politiche evidenti, spesso ricorre la frase: “gli consentono anche di studiare e magari laurearsi!” – dall’altro, a nostro parere, i casi mediatici, legati a nomi celebri, pensiamo a Carmelo Musumeci o Rudy Guede, attirano l’attenzione dei media solo in modo superficiale e momentaneo, salvo spegnersi di fronte ad un‘indagine più approfondita che metta in luce l’importanza del progetto. Perché ciò che interessa, e probabilmente ‘vende’, è la coniugazione tra criminale famoso e laurea, a scapito delle centinaia di detenuti, con reati meno gravi, che studiano e provano a impiegare diversamente il tempo infinito e privo di senso della detenzione.

Nonostante le tante difficoltà, vale la pena andare avanti. La sfida che i poli si trovano ad affrontare è duplice: da un lato avvicinare il mondo universitario a quello degli esclusi, dall’altro aprire il carcere al mondo esterno, consentendo ad alcune persone di riprendere gli studi interrotti o di iniziarli ex novo, per prepararsi al rientro in società, oppure semplicemente per consentire loro di trascorrere in modo diverso il tempo in carcere.

Vi è però un pericolo su tutti che, a nostro parere, al di là delle criticità menzionate, dovrebbe incoraggiarci ad andare avanti sulla strada del progetto e a non cedere alla tentazione di ‘chiudere la cella e gettare via la chiave’. Per illustrarlo, facciamo riferimento al volume di un celebre criminologo americano, J. Simon, Il Governo della paura, tradotto in Italia nel 2008.

Nel descrivere le profonde trasformazioni che da qualche anno investono la politica americana, sempre più orientata a sfruttare, in primis costruendola, la paura del crimine, per governare la società, Simon individua, riferendosi a momenti storici diversi, due tipologie di detenuti e le mette a confronto, offrendo un’utile prospettiva per individuare gli aspetti salienti dell’involuzione del sistema penitenziario negli Stati Uniti.

Da un lato, abbiamo i prigionieri politici George Jackson e Malcom X, figli di un’America che nutriva ancora residue speranze nelle politiche del New Deal e pronta a infiammarsi per la guerra in Vietnam o contro la discriminazione dei neri. I due attivisti maturarono i loro ideali rivoluzionari durante la prigionia, esposti come erano alle contraddizioni di una penalità riformista e modernista, che li spinse a intravedere un destino rivoluzionario per la società americana, all’altezza di quegli ideali di libertà e democrazia sbandierati dalla Costituzione. Una volta tornati in libertà, lottarono per rendere la società americana meno discriminante e migliorare lo stato degli istituti di pena e la condizione dei neri.

Dall’altro lato, trent’anni dopo, abbiamo José Padilla, che da oscuro detenuto, prodotto della guerra alla criminalità nell’America degli anni ’90, si è progressivamente trasformato, durante la sua lunga prigionia, in un nemico interno degli USA, convertendosi all’Islam. La ragione del  mutato atteggiamento di Padilla sta nel cambiamento di condizioni degli istituti di pena americani, esito a sua volta del mutamento in atto in quella società: sostiene Simon che a pene molto più lunghe, trascorse in istituti dove le attività di risocializzazione sono ridotte al minimo e ad una impossibilità di immaginare una società esterna diversa da quella che si vive nelle carceri, corrisponderà sempre più una tipologia di detenuto molto simile a quella di un José Padilla qualsiasi, il cui unico scopo, a fine pena, non sarà di tornare ad una vita normale o men che mai di lottare, da uomo libero, per migliorare il sistema della giustizia penale americana, ma solo e unicamente di annientare il Grande Satana.

Ne traiamo l’ammonimento che la scelta dello studio in carcere è una scelta illuminista, una scelta di campo e di civiltà, soprattutto di fronte ai rischi di radicalizzazione a cui assistiamo oggi.

Per tutte queste ragioni, i PUP sono un’esperienza preziosa e da difendere. Le prossime tappe, che prevedono, tra l’altro, un convegno nazionale a Firenze, molto ci diranno sul loro destino.

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