Stregonerie e sortilegi nell’era digitale

Grazia Ietto Gillies prendendo spunto dalle questioni affrontate da Daniele Archibugi nel suo libro L’apprendista stregone presenta una serie di considerazioni sul funzionamento del sistema della ricerca accademica e di valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Ietto Gillies si sofferma in particolare sull’apparente difficile coesistenza tra opportunità offerte dalla rivoluzione digitale, da un lato, e ostacoli posti dall’ organizzazione sociale della ricerca, dall’altro, che non riceve l’attenzione che merita.

La rivoluzione digitale sta avendo un notevole impatto su molti aspetti della ricerca scientifica: dalle metodologie usate nei processi produttivi alle opportunità di collaborazioni tra autori e istituzioni ai metodi e costi di diffusione dei risultati. In generale l’impatto è positivo ma stanno venendo a galla incongruenze tra le opportunità offerte dalla digitalizzazione e gli ostacoli posti dalla organizzazione sociale della ricerca.

Per illustrare questo ultimo punto colgo l’occasione offerta dal libro di Daniele Archibugi L’Apprendista Stregone. Consigli, Trucchi e Sortilegi per Aspiranti Studiosi di cui l’autore ci parla in un altro articolo di questo Menabò. Fa sempre piacere leggere un libro su un argomento importante specialmente se scritto con competenza, brio e umorismo. Fa ancora più piacere se stuzzica la mente su cose su cui ci siamo spesso soffermati anche se non sempre in profondità.

Nel libro Archibugi ci dice che egli è “…nella veste di consigliere…” verso giovani che si avviano alla carriera basata sulla ricerca. I suoi consigli sono dati nel contesto del presente sistema: come devono muoversi giovani e meno giovani ricercatori per gestire la loro carriera con successo nel sistema accademico attuale e, in particolare, in quello italiano. Problemi di sistema vengono accennati qua e là, ma non sono l’oggetto principale del libro e, anche per questo, voglio qui considerare alcuni di essi. I miei commenti vanno visti nel contesto della rivoluzione digitale che, in teoria, dovrebbe rendere più facili molti aspetti della ricerca e certamente quello della diffusione dei risultati.

Il sistema di peer review – revisione paritaria tradizionalmente applicata dalle riviste accademiche prima di accettare un lavoro – è, come ci illustra lo stesso Archibugi, spesso così ostile da scoraggiare molti aspiranti stregoni. Sono personalmente a conoscenza di alcuni casi di giovani dotati e promettenti che hanno rinunciato alla carriera accademica dopo un paio di distruttivi rapportini dei revisori. Conosco altri che sono stati sul punto di mollare ma hanno resistito grazie all’ incoraggiamento di mentori, amici o familiari. Ciò succede malgrado molti di noi – e sono sicura che Archibugi è fra questi – facciamo questo ingrato lavoro di revisione con coscienza e con occhio particolarmente benevolo verso lavori che sembrano venire dalle giovani leve. Purtroppo il lavoro di revisione in sé, è un lavoro che deve aiutare i redattori a scartare ed eliminare quindi è un lavoro da fare ‘con l’accetta’.

A ciò si devono aggiungere i seguenti elementi. Il sistema peer review è, in genere, basato su anonimato: i revisori non conoscono i nomi degli autori e questi non sanno chi sono i revisori che hanno compilato i rapportini. Come dice Archibugi “Il revisore, coperto dall’anonimato, si può permettere di tutto.” Io aggiungerei che molti degli attuali revisori, oberati di lavoro su altri fronti, spesso fanno un lavoro sub-standard perché coperti dall’anonimato. Una revisione mal fatta può derivare anche da incomprensioni connesse con paradigmi e ideologie: un lavoro che si ispira ad un paradigma di ricerca diverso da quello in cui il revisore lavora può sembrare sbagliato. Può anche succedere che il revisore si renda ben conto che il lavoro che ha davanti appartiene ad una scuola di pensiero diversa dalla sua ma, spinto da zelo ideologico, desidera bloccarlo. Casi più rari sono quelli in cui un revisore spulcia la possibilità di sfruttare un’idea appena letta sul lavoro da rivedere, la sviluppa e la pubblica velocemente mentre ritarda il rapportino sul lavoro del giovane. Anche revisori onesti e pieni di buona volontà possono tenere per sé una ideuzza che viene loro leggendo il lavoro da rivedere, se pensano di poterla sviluppare in seguito loro stessi.

Io sono a favore della peer review perché credo che i pareri dei nostri colleghi aiutino a migliorare il lavoro e a vedere aspetti positivi e/o negativi che ci erano sfuggiti, ma sono contraria all’anonimato nella peer review e non sono la sola. Sir James Black, Nobel per Medicina nel 1988 in un’intervista sul Financial Times (‘An acute talent for innovation’, February, 2, 2009)  sostiene che: “The anonymous peer review process is the enemy of scientific creativity…Peer reviewers go for orthodoxy…”.

Ritengo che il dover firmare il proprio rapporto sia un incentivo a metterci più cura, a prendersi la completa responsabilità di quello che si dice e a stare attenti a bias ideologici o all’uso di espressioni umilianti. Altrove (‘The evaluation of research papers in the XXI century.  The Open Peer Discussion system of the World Economics Association.’ Frontiers in Computational Neuroscience, 2012)  ho proposto un sistema i cui il revisore può – in condizioni particolari da concordare con la redazione – avere le proprie obiezioni e suggerimenti pubblicati insieme al lavoro revisionato; ciò crea un’occasione per il revisore di sviluppare la propria ideuzza in materia e pubblicarla subito.  Questo approccio alla peer review richiede più lavoro da parte dei redattori per sfoltire personalmente lavori non adatti alla rivista o di valore decisamente basso (anche se la cernita può essere fatta dopo il rapporto aperto dei revisori). Trovare revisori disposti a operare in modo aperto non è facile: culturalmente siamo abituati al sistema anonimo.

Il secondo grande problema è l’inefficienza del sistema nel suo complesso. Cominciamo proprio dalle pubblicazioni. Il sistema dei revisori richiede quantità notevoli di risorse da parte del mondo accademico perché esso fornisce sia i redattori che i revisori e, per inciso, nessuno di questi viene remunerato dalle riviste che, di solito, sono di proprietà di editori privati. In effetti chi paga per queste prestazioni sono gli atenei – quindi in molti casi lo stato e/o gli studenti con le loro rette. In realtà, si paga due volte: prima, per i salari di chi produce il lavoro di ricerca e di chi presta i servizi di redazione e revisione; e poi, quando le biblioteche universitarie e dei centri di ricerca comprano a caro prezzo le riviste prodotte con il lavoro del loro personale! Ogni articolo pubblicato ha passato, in media, diverse revisioni prima di essere accettato; una revisione ben fatta e poi riconsiderata in seconda fase richiede circa un paio di giorni di lavoro. In media gli accademici fanno almeno una settimana l’anno di lavoro di revisione e quelli coscienziosi ne fanno molto di più. Insomma, un peso non indifferente per la comunità accademica e una sottrazione di tempo al lavoro diretto di ricerca di ogni stregone. Inoltre l’attività di revisione è in crescita per: l’aumentare del numero di riviste; la crescita del numero di lavori inviati ad esse sotto la pressione dei sistemi valutativi; e il fatto che molti editori hanno cominciato a sottoporre a revisione paritaria anche i manoscritti per libri. Fino a qualche anno fa, di solito, solo la proposta iniziale del libro veniva sottoposta a valutazione paritaria; ora hanno cominciato a sottoporre a revisione sia la proposta iniziale che il manoscritto finale. Con questa procedura aggiuntiva gli editori librari vogliono dimostrare che, ai fini della valutazione della ricerca, un libro non vale meno di un articolo pubblicato su riviste. Si tratta di una reazione alla diminuita offerta di libri accademici a favore di articoli su riviste considerate più rigorose. Insomma, il lavoro aggiuntivo in campo revisione è la conseguenza dei sistemi di valutazione della ricerca.

In tema costi sociali e costi opportunità, Archibugi stesso ci dà una stima approssimativa del costo sociale del Programma Horizon 2020. Stimando l’investimento medio dei partecipanti e tenendo conto che l’86 percento non ha ricevuto fondi, si arriva a un dispendio di risorse per il sistema ricerca europeo di quasi il 62 percento degli 80 miliardi.

Tornando alle riviste accademiche, l’assurdità della situazione diventa più eclatante quando si pensa che tutto il materiale prodotto, revisionato e redatto potrebbe essere messo in rete e reso disponibile globalmente a costo zero. In pratica le riviste – sotto pressione dall’incalzare della tecnologia digitale – permettono di mettere in rete i cosiddetti pre-print; cioè la versione finale dello scritto ma privo di intestazione e senza il numero di pagine. La versione finale impaginata viene invece pubblicata come parte del numero ed è accessibile solo previo pagamento. Non oso neanche immaginare cosa una marziana penserebbe se ci vedesse impegnati in questi giochetti. La cosa che mi viene in mente sono i miei nipotini che giocavano a nascondino nel parco e, correndo per nascondersi, lasciavano una scia di cappelli, fazzoletti e scarpe per strada così, inconsciamente, facilitando la scoperta del loro nascondiglio e costringendo nonne e mamme a seguirli per recuperare indumenti sparsi.

Insomma, la digitalizzazione ci permette di mettere a disposizione del mondo i risultati della nostra ricerca a costo zero ma il sistema sociale dei rapporti di produzione ci impedisce la piena disponibilità e, allo stesso tempo, per tenere in piedi questi rapporti la comunità accademica paga un caro prezzo.

I difficili rapporti tra ricerca e tecnologia digitale vengono a galla anche nell’ultimo, divertente – fino a un certo punto – capitolo del libro di Archibugi su ‘Plagi, ricicli e caccie alle streghe’. L’autore raccomanda agli studenti e aspiranti stregoni di non fare lavori di copia e incolla ma di usare cosiddetti standard accademici. Si, ma cosa sono questi standard? Come li identifichiamo? William Davies Professore a Goldsmith College di Londra con incarico di vigilare sui ‘plagi’ degli studenti, in un articolo su The London Review of Books (‘How many words does it take to make a mistake?’ February, 24 , 2022)  ci dice che Il problema non è poi così semplice. Il ruolo della digitalizzazione è chiave sia nello scopiazzare che nei tentativi di scoprire i colpevoli. Tuttavia, i ‘controllori’ accademici devono anche affrontare il fatto che l’approccio a Internet per la generazione Z è diverso che per noi di generazioni precedenti; molti giovani Z non sanno proprio quale è la differenza tra plagio e rendere omaggio ad un autore famoso o al proprio professore copiandone le parole.

Che l’organizzazione sociale sulla diffusione della ricerca non sia in sintonia con gli sviluppi tecnologici è illustrato anche da un caso di …auto-plagio. Archibugi ci ricorda che uno stimato professore svizzero che è stato travolto da dure polemiche e ha perso l’impiego per una questione di …auto-plagio. L’illustre economista ha inviato a diverse riviste più o meno lo stesso articolo e fu accusato pubblicamente dal redattore di una rivista prestigiosa di economia. Non si tratta di aver venduto esattamente lo stesso prodotto a diversi clienti perchè quasi certamente il professore non aveva ricevuto alcun compenso per il suo lavoro; gli accademici cedono gratis alle riviste i diritti sui loro lavori. Ma allora cosa ha fatto di male? Se vogliamo dare un’occhiata alla storia possiamo considerare Leonardo. Perché lo lodiamo e gli siamo grati per le due copie della Madonna delle Rocce ma poi vilifichiamo un esimio professore per aver messo a disposizione di un più vasto pubblico il suo lavoro? E non dimentichiamoci i verifalsi – o sono falsiveri? – di de Chirico. Eh! Ma quando Leonardo dipingeva non c’erano le leggi sulla proprietà intellettuale; ora ci sono. Forse potremmo dire con Dickens che …the law is an ass (la legge è un’asina)

A conclusione desidero invitare giovani – e meno giovani – stregoni a leggere il libro di Archibugi e a considerare anche i problemi a livello sistema: i costi sociali che l’organizzazione dell’attuale sistema della ricerca comporta, gli ostacoli che presenta per i ricercatori a fronte delle enormi opportunità offerte dalle tecnologie digitali; come, diminuire i primi e avvalerci al massimo delle seconde in un sistema che dia agli studiosi anche indicazioni sulla qualità dei lavori.

 

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