Stagnazione secolare o trappola della liquidità?

Massimiliano Tancioni si occupa della tesi, sostenuta per primo da Summers, che nel nostro futuro ci sia una “stagnazione secolare”. Tancioni sottolinea che per molti aspetti la “stagnazione secolare” non è facilmente distinguibile dalla keynesiana “trappola della liquidità” e discute le varie politiche proposte per contrastarla. In particolare, egli sostiene che alcune politiche strutturali, orientate a ripristinare le condizioni di redditività di lungo periodo, possono aggravare la situazione economica nell’immediato

1. Il protrarsi della crisi economica ha indotto molti economisti a ipotizzare che sia in atto un cambiamento fondamentale nei meccanismi di funzionamento delle economie avanzate.

Al riguardo Larry Summers (in Secular Stagnation: Facts, Causes and Cures, a cura di C. Teulings e R. Baldwin, CEPR Press 2014) ha parlato di “secular stagnation”, riprendendo l’espressione di cui Alvin Hansen si servì nel 1938 per sostenere che alla Grande Depressione degli anni ’30 avrebbe fatto seguito un lungo periodo di bassa crescita per l’economia statunitense.

In sostanza, secondo Summers saremmo di fronte a circostanze ben diverse da quelle che caratterizzano le normali fasi cicliche negative, il che imporrebbe un ripensamento radicale degli strumenti della politica economica anticiclica.

Per capire quali siano i vantaggi di un cambiamento di prospettiva basato sull’ipotesi di stagnazione secolare, è utile definire i) i caratteri macroeconomici che ne individuano l’esistenza; ii) le sue cause economiche; iii) le possibili soluzioni di policy.

Sul primo aspetto esiste una visione condivisa, basata sulla dinamica del tasso di crescita e del tasso di interesse reale, ma un sostanziale disaccordo emerge nell’analisi delle cause potenziali e, per necessità, nella valutazione delle possibilità e delle modalità dell’intervento correttivo.

2. La stagnazione secolare è generalmente definita come una situazione di bassa crescita reale e di non pieno impiego delle risorse con bassi tassi di inflazione o deflazione. Essa è pertanto coerente con un valore negativo del tasso di interesse reale che pone in equilibrio le decisioni di risparmio e di investimento.

Si tratta in sostanza di una situazione di “trappola della liquidità” persistente. Tale situazione ha caratterizzato l’evoluzione recente delle principali economie sviluppate e continua a caratterizzare la dinamica dell’euro-zona (EZ), in particolare della sua “periferia”.

La figure che seguono riportano l’evoluzione recente (2000-2014) dei tassi di interesse nominale e reale a breve termine, del tasso di crescita reale del prodotto e del tasso di disoccupazione, per gli USA, l’EZ e la “periferia” dell’EZ (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna – PIIGS).

L’evoluzione del tasso di interesse nominale a breve termine mostra chiari segnali del raggiungimento del limite inferiore, a partire dal 2009 per gli Stati Uniti, dal 2013 per l’EZ. Potremmo fissare in queste date la perdita del controllo della politica monetaria convenzionale da parte delle rispettive autorità monetarie.

In presenza di tassi di interesse al limite inferiore, la dinamica del tasso reale è definita interamente dalla dinamica dell’inflazione. Grazie a un’inflazione moderata, l’economia statunitense è riuscita a generare tassi di interesse reale negativi per tutto il periodo post-crisi, mentre il tasso reale dell’EZ e della sua periferia, rimasto positivo fino a tutto il 2011, si è collocato in territorio negativo sul finire del 2012 e ha poi mostrato una preoccupante tendenza al rialzo dal 2013, con l’emergere delle spinte deflazionistiche.

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Emergono inoltre evidenti differenze nella dinamica del prodotto reale e del mercato del lavoro. L’economia statunitense torna a sperimentare tassi di crescita positivi sul finire del 2010, per poi stabilizzarsi su un tasso di crescita di poco superiore al 2%, mentre quella dell’EZ torna alla stagnazione già nel 2012.

All’interno dell’EZ, l’insieme dei PIIGS torna in grave recessione nel 2011 per restarvi fino alla fine del periodo preso in considerazione.

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In linea con gli andamenti macroeconomici, il mercato del lavoro statunitense ha ripreso lentamente a generare occupazione, mentre in quello europeo si è avuto un nuovo incremento del tasso di disoccupazione.

Le differenze tra US ed EZ – e all’interno di quest’ultima, tra centro e periferia- suggeriscono che la stagnazione secolare, se esiste, potrebbe avere caratteri molto eterogenei, certamente influenzati anche da altri fattori, quali le politiche di contenimento fiscale e il malfunzionamento dell’area valutaria.

3. Il dibattito sulla stagnazione secolare ha individuato tre cause principali, non necessariamente esclusive: i) una riduzione del tasso di crescita potenziale, connessa a fattori reali; ii) una contrazione permanente nel livello del potenziale, piuttosto che nel tasso di crescita, connessa ai danni strutturali prodotti della crisi; iii) una contrazione persistente nel tasso di crescita effettivo, e non necessariamente del potenziale, connessa all’insufficienza di domanda.

La spiegazione centrata sulla contrazione della crescita del potenziale centra l’attenzione sui cambiamenti demografici e tecnologici in atto. In particolare, Robert Gordon (in Secular stagnation, cit., 2014) sottolinea il ritorno della produttività totale dei fattori a tassi di crescita pre-1930, la stagnazione demografica, l’aumento dell’aspettativa di vita e il completamento del processo di istruzione di massa.

Alla luce dei dati a disposizione, è tuttavia difficile stabilire la misura in cui si stia realizzando un rallentamento nella crescita di efficienza degli input produttivi e si sia raggiunto un livello di istruzione di stato stazionario. Inoltre, sebbene sia indubbiamente in atto un processo di invecchiamento relativo della popolazione nelle economie sviluppate, la geografia dei sintomi della stagnazione non sembra coincidere con quella dell’invecchiamento.

Le interpretazioni che si riferiscono agli effetti negativi permanenti della crisi sul livello del reddito potenziale fanno perno sulla perdita di capitale umano connessa all’allontanamento dall’esperienza lavorativa. Tale meccanismo, largamente descritto dalla letteratura sull’isteresi della disoccupazione degli anni ottanta, non sembra però coerente con l’evidenza empirica: la perdita one-off di potenziale e capitale umano deve tradursi in contrazioni dei tassi di partecipazione, un’evidenza che si riscontra negli Stati Uniti ma non nell’EZ, ossia nell’area che appare più caratterizzata dalle circostanze che definiscono una stagnazione secolare.

Infine, le interpretazioni basate sulle insufficienze della domanda aggregata, sintetizzate nell’instaurarsi di un tasso di interesse di equilibrio ampiamente negativo, propongono cause molteplici. Errori nella stabilizzazione macroeconomica da parte delle autorità fiscali e monetarie, sbilanciamenti distributivi in presenza di vincoli di liquidità rilevanti, effetti delle crisi sullo stato dell’aspettativa a medio lungo termine in mercati in cui si contrae il ruolo di stabilizzazione e garanzia dello stato. Si tratta di spiegazioni tipicamente keynesiane, che trovano numerosi riscontri empirici. Vediamone alcuni.

Il dibattito scientifico recente sulla dimensione dei moltiplicatori fiscali ha mostrato come le prescrizioni di politica fiscale, con la loro fiducia nel ruolo espansivo delle misure di consolidamento, fossero largamente errate. Se non in assoluto, lo erano certamente nella situazione economica specifica in cui sono state adottate.

La letteratura scientifica ha inoltre mostrato, per l’EZ, i limiti di efficacia di una politica monetaria centralizzata in assenza di un’area valutaria ottima, ossia di sincronizzazione ciclica delle economie che ne fanno parte. Applicando una stima della regola di reazione (all’inflazione corrente e alla deviazione del prodotto dal suo potenziale) della BCE ai dati di area e a quelli della periferia, è possibile mostrare che, mentre nel periodo pre-crisi il tasso di interesse nella periferia avrebbe dovuto essere più alto rispetto al tasso di interesse dell’intera area per circa 100 punti base, a seguito del manifestarsi della crisi il tasso della periferia avrebbe dovuto essere in media più basso per circa 250 punti base.

Quanto ai limiti alla dinamica della domanda aggregata indotti dalla crisi a mezzo dei crescenti vincoli di liquidità per le classi di reddito medie ed inferiori, è utile sottolineare che la recessione, oltre ad aver generato una ulteriore polarizzazione dei redditi e della ricchezza, ha altresì sensibilmente aumentato il numero di famiglie soggette a vincoli di liquidità. La contrazione di reddito, associata all’aumentata asimmetria distributiva, ha ridotto la capacità di spesa delle famiglie più svantaggiate. Una letteratura recente ha mostrato come crescenti asimmetrie distributive possano generare, per effetto delle diverse propensioni alla spesa, una tendenza alla contrazione dei tassi di interesse e un’amplificazione del ciclo del credito e del rischio di insolvenza.

4. Le circostanze macroeconomiche che definiscono una stagnazione secolare rendono particolarmente difficile l’impostazione di una solida politica di stabilizzazione e stimolo basata su strumenti convenzionali.

Sebbene le banche centrali possano in linea di principio assumere impegni credibili ad inflazionare l’economia, quindi a portare i tassi di interesse reale attesi in territorio negativo, ciò richiede misure non convenzionali che, in condizioni di trappola della liquidità persistente, espongono al rischio di forte instabilità finanziaria (Summers, cit.).

Sul piano teorico, una politica di quantitative easing è efficace se è in grado di innescare aspettative di inflazione, quindi di modificare i comportamenti di spesa.

Tuttavia, se prevale una preferenza infinita a rimanere liquidi è improbabile osservare una significativa modifica delle aspettative di inflazione, stante il fatto che l’aumentata liquidità non viene spesa. In tale circostanza, l’efficacia della politica è vincolata alla misura in cui l’acquisto di titoli allenta i vincoli che inducono i governi a realizzare persistenti avanzi primari. Si entra così nella questione del coordinamento tra politica monetaria e fiscale.

Per unanime riconoscimento della letteratura, la ricetta più efficace per uscire da una trappola della liquidità temporanea è il coordinamento monetario e fiscale in senso fortemente espansivo, possibilmente associato ad una forte svalutazione del cambio.

Tuttavia, se la stagnazione secolare ha caratteri strutturali, come nell’interpretazione di Gordon (in Secular stagnation, cit. , 2014), tali politiche esporrebbero al rischio di un inutile ingigantimento del ruolo dello stato, difficilmente sostenibile nel lungo periodo.

Sotto la prospettiva “strutturalista”, le misure devono necessariamente essere in grado di aumentare il potenziale di crescita dell’economia, quindi i tassi di interesse reali di lungo periodo.

E’ però cruciale che tale obiettivo sia raggiunto senza creare ulteriore deflazione, per non generare incrementi “artefatti” del tasso di interesse reale di breve e innescare spirali deflazionistiche.

Le politiche che soddisfano questi due requisiti fondamentali sono necessariamente politiche di spesa centrate su poste di tipo produttivo. Sebbene sia obbiettivamente difficile stabilire cosa sia produttivo e cosa non lo sia in un progetto di spesa, gli investimenti in infrastrutture, il finanziamento di attività innovative, di progetti di istruzione, sono le misure generalmente ritenute più indicate a questo duplice scopo. Se non altro perché esse, prima di innescare gli auspicati aumenti di potenziale, producono aumenti di domanda effettiva.

Le riforme strutturali, specialmente se non finanziate, hanno caratteristiche opposte: possono innescare aumenti di potenziale nel medio periodo, ma generano, nel breve termine, spinte deflazionistiche che peggiorano e rendono più persistente la situazione di trappola della liquidità.

Sotto questo punto di vista, la strategia politico-economica europea, sostanzialmente centrata nel duplice obiettivo del rigore fiscale e dello stimolo alla crescita attraverso riforme strutturali, sembra destinata a mancare il bersaglio.

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