Spesa effettiva o fitto imputato? La non neutralità del modo di tenere conto della casa nelle analisi distributive

Michele Raitano confronta i diversi metodi utilizzati per includere l'abitazione di residenza nella valutazione del benessere economico individuale. Raitano, illustrando i risultati di un’analisi empirica riferita all’Italia, mostra come il metodo prescelto incida sensibilmente non soltanto sul valore degli indici di diseguaglianza e povertà ma anche sulla posizione occupata da individui e famiglie nella scala distributiva, con rilevanti conseguenze per l’individuazione dei potenziali contribuenti e beneficiari delle politiche redistributive.

L’indicatore del benessere economico delle famiglie utilizzato comunemente nelle analisi distributive è il reddito disponibile equivalente, definito dalla somma dei redditi provenienti da ogni fonte (lavoro, titoli, terreni, fabbricati, trasferimenti), al netto delle imposte e dei contributi, e reso equivalente, mediante le apposite scale, per tenere conto della dimensione della famiglia. Il reddito disponibile non include voci relative al possesso o all’affitto dell’abitazione di residenza; di conseguenza, nelle analisi distributive scarsa attenzione viene dedicata al legame fra benessere economico e caratteristiche dell’abitazione di residenza, nonostante questa rappresenti, per la larghissima maggioranza della popolazione, la principale componente della ricchezza.

La mancata considerazione dei vantaggi e/o degli oneri legati alla casa potrebbe, in realtà, distorcere la valutazione del tenore di vita delle famiglie, alterando sia la dimensione assoluta dei principali indicatori distributivi, sia, soprattutto, la posizione relativa dei diversi nuclei.

In questo articolo si discutono le modalità di inclusione della casa nella valutazione del tenore di vita delle famiglie e, elaborando i dati dell’indagine IT-SILC del 2007, si mostra come in Italia la distribuzione del benessere economico dipenda dal modo in cui si tiene conto della casa nella misurazione di tale benessere.

La letteratura economica suggerisce di tenere conto dell’housing aggiungendo al reddito disponibile di chi vive in case di proprietà (o paga un affitto agevolato) i cosiddetti fitti imputati, ovvero il valore di mercato dell’affitto che si sarebbe dovuto pagare per una casa delle stesse caratteristiche di quella in cui si vive. Per attribuire un valore monetario al beneficio di vivere in case di proprietà (o al risparmio sull’affitto di mercato) sono stati proposti 3 metodi: il costo opportunità (basato su imputazioni a partire dai valori effettivamente pagati dai locatari); il metodo del mercato dei capitali (applicando un tasso di rendimento al valore di mercato dell’abitazione); l’autovalutazione da parte delle famiglie di quanto esse dovrebbero pagare sul mercato per affittare la loro abitazione. Nessun metodo, tuttavia, è scevro da criticità e, cosa ancor più grave, i risultati distributivi sono molto sensibili al metodo prescelto.

Bisogna inoltre chiedersi se sia sempre corretto assumere, nella valutazione del benessere economico, una perfetta sostituibilità fra i fitti figurativi e i redditi monetari o, in altri termini, se un maggior valore dell’abitazione di residenza, e quindi del fitto imputato, segnali un incremento della disponibilità di consumo potenziale di valore uguale al fitto figurativo. Particolari criticità riguardano, ad esempio, i casi in cui il fitto figurativo ecceda il reddito disponibile, che sono frequenti fra gli anziani che vivono in case di proprietà ma ricevono una pensione di importo modesto.

Rispetto alla procedura che consiste nell’aggiungere al reddito disponibile i fitti imputati stimati, appare più intuitivo l’out of pocket approach che richiede di sottrarre dal reddito disponibile le voci di spesa effettivamente sostenute per l’abitazione (manutenzione, bollette, affitti, interessi sul mutuo). La valutazione del reddito al netto di alcune spese viene, tuttavia, criticata perché le analisi distributive, anziché basarsi sulla sola disponibilità potenziale di consumo, verrebbero ad essere inficiate dalle diverse preferenze rispetto al consumo effettivo di determinati beni (ad esempio, ceteris paribus, apparirebbe più povero chi preferisse vivere in un quartiere più costoso).

Tale considerazione appare però meno dirimente se riferita alle spese per l’abitazione di residenza, per una duplice considerazione: i) scelte e preferenze inficiano la stessa imputazione dei fitti figurativi; ii) a differenza di altri beni di consumo, le spese per la casa sembrano avere un carattere di maggiore “necessità”, cosicché le considerazioni legate alle preferenze potrebbero risultare di secondo ordine. La sottrazione delle spese effettive permetterebbe inoltre di evitare di incorrere nelle indeterminatezze inerenti alla stima dei fitti figurativi.

Di seguito l’impatto dell’housing sulla distribuzione del benessere economico in Italia viene valutato confrontando la distribuzione dei redditi disponibili equivalenti con due distribuzioni alternative: la prima è costruita aggiungendo a tali redditi i fitti imputati (stimati in IT-SILC mediante il metodo del costo opportunità e al netto delle spese per interessi sui mutui e per manutenzione ordinaria nonché del canone versato dai locatari agevolati); la seconda seguendo l’out of pocket approach e cioè sottraendo ai redditi disponibili equivalenti le spese per affitti, per interessi sul mutuo e quelle relative al consumo dei servizi dell’abitazione di residenza (manutenzioni ordinarie, condominio, immondizia, bollette per le utenze domestiche).

Come si mostra nella figura 1, in media, il 18,3% del reddito disponibile equivalente viene speso per oneri ordinari (12,6%) ed affitti e mutui (5,7%). Viceversa, i fitti imputati rappresentano una fonte aggiuntiva di entrata pari ad 1/4 del reddito disponibile. La rilevanza della casa varia però in modo sostanziale a seconda della posizione delle famiglie sulla scala dei redditi. Da una parte, il peso delle spese per l’abitazione si riduce costantemente passando dai decili più poveri a quelli più abbienti, determinando un ampliamento delle differenze in termini di consumo potenziale una volta dedotte le spese per l’housing. Dall’altra, però, a conferma delle differenti implicazioni del modo in cui si attribuisce un valore monetario alla casa, i fitti imputati rappresentano una quota decrescente degli introiti all’aumentare del reddito, a causa dell’ampia diffusione nel nostro paese della proprietà anche fra i nuclei appartenenti ai decili meno abbienti in termini di reddito disponibile.

Fig. 1: Spesa per abitazioni e fitti imputati come quota del reddito disponibile, per decile di reddito disponibile.

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L’inclusione dei fitti imputati nel reddito familiare produce due effetti opposti sulla diseguaglianza: da un lato, amplia le differenze fra i redditi medi di proprietari e inquilini; dall’altro, riduce la diseguaglianza all’interno del gruppo dei proprietari, dato che i fitti imputati sono distribuiti in modo meno diseguale dei redditi da altra fonte. Poiché in Italia il gruppo dei proprietari è maggioritario, l’effetto di compressione della diseguaglianza prevale e la diseguaglianza, misurata dall’indice di Gini, si riduce di 2,9 punti percentuali (figura 2). Questa sensazione confortante è però rovesciata se si segue l’out of pocket approach: l’indice di Gini dei redditi di cui si può disporre una volta sostenute le spese per l’abitazione cresce fino ad un valore di 0,357.

Analogamente, l’incidenza della povertà relativa passa dal 19,9%, in base ai redditi disponibili, al 17,7%, se si includono i fitti imputati, e al 25,1% se, invece, si escludono le spese per l’abitazione. Una scelta apparentemente neutrale e simmetrica sul modo di considerare l’impatto dell’housing sul benessere economico delle famiglie (come un onere o un beneficio) in realtà modifica sostanzialmente il quadro distributivo.

Fig. 2: Reddito equivalente medio e indice di Gini dei redditi equivalenti in base alle diverse modalità di  computo dell’impatto dell’abitazione di residenza

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Queste due modalità di computo hanno effetti non soltanto sul valore degli indicatori sintetici di povertà e diseguaglianza ma anche sulla posizione che individui e famiglie occupano nella scala distributiva. Dal punto di vista di policy, finanziatori e beneficiari delle politiche di tax and transfer sono identificati sulla base del reddito individuale o familiare (o, qualora si usi l’ISEE, sulla base di scelte comunque arbitrarie riguardo ai valori e alle franchigie da attribuire alla casa di residenza); l’impatto redistributivo delle politiche pubbliche, e gli stessi beneficiari dei trasferimenti means tested, potrebbero dunque variare a seconda del metodo di calcolo degli effetti dell’housing.

La differenza delle distribuzioni sottostanti le tre modalità di valutazione dell’housing qui considerate emerge in modo evidente dalla matrice in tabella 1, che mostra la mobilità della popolazione fra quintili definiti in base ai diversi concetti di reddito. I valori sulla diagonale principale sono sempre ampiamente inferiori a 20, che segnalerebbe la persistenza nel quintile indipendentemente dal tipo di reddito considerato, e si registrano spostamenti sia verso l’alto che verso il basso della scala distributiva. Ad esempio, il 13,7% di chi in base ai redditi disponibili occupa il secondo quintile ed il 2% di chi si posiziona nel terzo cadrebbe nel quintile più povero se dai redditi fossero detratte le spese per la casa (tali percentuali sono calcolabili dividendo le frequenze delle celle per quelle delle marginali, che, trattandosi di quintili, sono uguali a 20). Ancora più dissimili sono le distribuzioni con fitti imputati e al netto delle spese, come risulta dai valori lungo la diagonale principale (terzo riquadro della tabella 1): se i redditi fossero considerati al netto delle spese per l’abitazione addirittura il 19% e il 3,5% di chi in base ai redditi al lordo dei fitti si situa, rispettivamente, nel secondo e nel terzo quintile finirebbe nel 20% più povero.

Tab. 1: Tavola di mobilità fra quintili in base a diverse definizioni di reddito equivalente (valori %)

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La scelta relativa a se e come includere l’housing nella valutazione del benessere economico modifica, quindi, profondamente le posizioni sulla scala distributiva (svantaggiando in primo luogo chi deve pagare un affitto a prezzi di mercato). Di conseguenza, le politiche redistributive ed assistenziali possono identificare platee di beneficiari e contribuenti fortemente differenziate in base al criterio di inserimento degli aspetti legati all’abitazione di residenza nella misura della capacità contributiva.

Quindi, le riflessioni qui presentate confermano, da un lato, la necessità di tener conto dell’housing nelle analisi distributive, ma, dall’altro, evidenziano la “non robustezza” dei risultati rispetto alla specifica modalità di inserimento. Il compito dei ricercatori appare pertanto duplice: in un’ottica di policy, dovrebbero chiarire quali effetti ha sui diversi gruppi sociali la scelta della variabile rappresentativa della capacità contributiva (scelta che sovente viene effettuata in modo non trasparente nelle sue implicazioni dai policy makers, come evidenziato dal recente dibattito sull’abolizione di IMU e TASI sulla prima casa); in un’ottica di ricerca, essi dovrebbero estendere ad altre componenti di spesa ed entrata le riflessioni qui proposte sull’impatto dell’housing, approfondendo lo studio dell’indicatore più adatto a sintetizzare il tenore di vita di individui e famiglie, anche al fine di valutare l’effettiva disparità di consumo potenziale una volta che una serie di spese necessarie ed incomprimibili siano dedotte dal reddito disponibile.

* Questo articolo si basa sul mio contributo, dal titolo “L’impatto delle spese per la casa sulla distribuzione dei redditi in Italia”, al volume “La casa, il benessere e le disuguaglianze” a cura di F. Farina e M. Franzini, Egea, 2015.

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