Solidarietà in Europa, in che senso?

Francesco Farina sostiene che l’essere solidale, garantire in solido, presuppone l’appartenenza a una comunità e nota che nelle nazioni che sono al timone dell’Unione Europea, che l’hanno costruita come una comunità, le istituzioni comuni promuovono la competizione, non la convergenza fra i paesi membri. Su questa base, Farina ritiene che difficilmente il MES, il SURE, i fondi della BEI e l’European Recovery Fund, nonostante l’emergenza Covid-19, rappresenteranno una svolta verso la solidarietà.

Nel mondo che precedette il Covid-19, un’analisi dei problemi dell’Eurozona (M.Sandbu, Europe’s Orphan. The Future of the Euro and the Politics of Debt, Princeton University Press, 2017) incontrò un vasto favore di critica fra gli economisti. Le ragioni di questo raro caso di convergenza di opinioni, su un terreno di aspri contrasti ideologici, sono rinvenibili nella sua principale tesi: se l’Eurozona è in crisi, il motivo non è l’incompletezza del suo assetto istituzionale (a cominciare dall’assenza di un’Unione fiscale), ma l’inadeguatezza delle politiche macroeconomiche. L’annaspare dell’Europa alla ricerca di un futuro che superi la tragica congiuntura presente ci dice che la tesi di Sandbu va ribaltata. Sono proprio i mattoni della costruzione europea a non combaciare bene. Le politiche economiche, come l’austerità improvvidamente adottata per uscire dalla Grande Recessione, sono la diretta conseguenza dell’impianto istituzionale alla base del progetto europeo.

A mano a mano che le economie europee divenivano più interdipendenti, l’Europa è passata dagli agevoli accordi di “mutuo vantaggio” alla ricerca faticosa del compromesso fra interessi contrapposti.  Il vertice europeo del 24 aprile ha confermato quanto complicati debbano essere i processi decisionali in Europa, affinché un simulacro di Europa possa esistere. I “punti cardinali” dell’alchimia istituzionale europea sono due: 1. Il “metodo intergovernativo” al potere. Non esiste lo “spirito comunitario”, ma solo il contemperamento degli interessi, che viene decretato dai “paesi forti”, in primis dalla Germania; 2. Il “sistema delle regole”. La discrezionalità degli Stati sovrani va imbrigliata in un reticolo normativo atto a rendere “oggettive” decisioni che invece riflettono il miglior risultato politico ed economico per i “paesi forti”. Naturalmente, essendo per le decisioni del Consiglio europeo prevista la regola dell’unanimità, c’è il vincolo della firma a piè di pagina che i “paesi deboli” debbono apporre. Ai “paesi deboli”, ciò appare a volte come un “potere di veto”: “altrimenti, faremo da soli”, disse Giuseppe Conte. Di fatto, li tiene uniti a Bruxelles: la loro “uscita” penalizzerebbe tutti, ma di certo molto più loro che i “paesi forti”.

Questi concetti, semplici e netti, sono noti a tutti, ma è bene ricordarli, per capire meglio cosa ci attende. Un impianto teorico più paludato lo si può trovare in Acemoglu et al. (2005): la distribuzione del reddito discende dalle regole (Costituzione, regolamentazione dei mercati, legislazione ordinaria, etc.) che in un paese – o in un’unione di paesi – presiedono all’accesso alle risorse. Se dunque le politiche europee sono inadeguate è perché la governance europea è stata costretta entro un preciso quadro giuridico-istituzionale. Non vengono così creati incentivi per uno sviluppo condiviso e una distribuzione equa del “surplus dell’Unione Europea”. Al contrario, vengono fissate regole per la competizione fra i suoi paesi membri. Tutta la progettualità del Rapporto Delors, con il quale nel 1988 il Consiglio europeo diede avvio al progetto dell’Unione economica e monetaria, venne concentrata sull’esclusivo obiettivo dell’abbattimento delle barriere non tariffarie. La cosiddetta “integrazione positiva”, la convergenza fra le economie europee nel corso di un comune processo di crescita, venne affidata alle sole forze di mercato. Ben poca attenzione fu dedicata a progetti di investimento pubblico sovra-nazionale e alla creazione di strutture per una governance macroeconomica comune. Certo, furono i varati i fondi strutturali e di coesione. Non vennero però indirizzati a mettere in piedi un’integrazione orientata alla coesione economico-territoriale. Sono finanziamenti diretti ad omogeneizzare il “campo di gioco” del mercato unico europeo. E a favorire l’espansione degli scambi, eliminando le perduranti arretratezze delle aree più povere e meno attrezzate con infrastrutture. Questa impostazione penalizza l’integrazione e favorisce gli interessi nazionali. E infatti, a partire dall’adesione all’Unione Europea iniziata 2004, questi due fondi sono stati utilizzati in grande misura dai paesi dell’Est Europa, i più recalcitranti all’unione politica e ai principi del Manifesto di Ventotene.

Il cattivo esempio però viene dall’alto. La matrice Ordoliberale del costituzionalismo tedesco vuole che la Grundnorm di Berlino sia “sovraordinata” rispetto a qualsiasi norma e disciplina comunitaria europea. Le decisioni prese a Francoforte dalla BCE di Mario Draghi nel 2011-12 per salvare l’Eurozona hanno dovuto passare sotto le “forche caudine” di una sentenza della Corte Costituzionale di Karlsrhue. Si parla dei primi di maggio per la decisione finale sui criteri economici e giuridici dell’European Recovery Fund. Ma sicuramente non arriverà prima del 6 maggio, quando la stessa Corte si pronuncerà, nuovamente e definitivamente, sulla compatibilità del Quantitative easing con i principi fondamentali dello stato tedesco. L’Europa dei Trattati è l’Europa tedesca, la cui politica nei confronti dei paesi in parziale default (Grecia, Cipro) potette giovarsi nella prima metà del decennio delle regole del MES. Contrariamente a quanto in Itala alcuni economisti si sono affannati a sostenere, le “condizionalità” del MES potranno essere ripristinat in qualsiasi momento della durata del prestito: lo dicono gli articoli dei Trattati. Non c’è dunque da sorprendersi se Angela Merkel, qualche giorno fa, ha dichiarato: “Pronti a maggiori contributi UE, ma per le garanzie (comuni) sul debito serve una modifica dei Trattati”. La Cancelliera ha anche sardonicamente aggiunto che ogni “solidarietà” verso i paesi in difficoltà presuppone l’impegno dei governi per sistemi fiscali più seri. Si riferiva ai Paesi Bassi “paradiso fiscale”, oppure agli evasori italiani? Conoscendola, ad entrambi.

Siamo quindi al tema di queste note: la solidarietà, oggi, in Europa. Partiamo dai “first principles”. L’altruismo è la scelta di preoccuparsi in primis dei bisogni degli altri. Questo comportamento si iscrive all’interno dei confini dell’individuo. É una caratteristica che condivide con l’egoismo, il comportamento individuale ispirato alla massima auto-referenzialità. La solidarietà ha un qualcosa che la distingue da ambedue questi comportamenti incentrati sull’individuo. L’essere solidale, garantire in solido, presuppone l’appartenenza a una comunità. É dunque un concetto che si inquadra immediatamente nella sfera collettiva. Il collettivo della nostra epoca è l’”interdipendenza sistemica”, la quale è presente in Europa da molti decenni, da ben prima della globalizzazione e della pandemia Covid-19. I destini nazionali sono oggi così intrecciati da rendere difficile isolare le conseguenze dei comportamenti propri rispetto a quelle prodotte dai comportamenti degli altri. Al di là dei numeri del bilancio di Bruxelles, non è facile stimare, in modo oggettivo e rigoroso, se uno qualsiasi dei paesi a più alto PIL pro capite alto sia contribuente netto o beneficiario netto dell’incremento del PIL dell’Unione Europea. Proprio per questo si insiste oggi tanto sul concetto di solidarietà. Ma l’Europa di Trattati non è mai riuscita a discernere, facendosi largo fra gli interessi nazionali, la strada che porta un ethos comune.

Prendiamo le mosse dall’”individualismo etico” di Amartya Sen (Rationality and freedom, 2002). Il Premio Nobel indiano distingue i diversi comportamenti individuali in base al grado di interdipendenza con gli altri: 1. Self-centered welfare. Il benessere auto-centrato è confinato al proprio tornaconto individuale; ogni forma di coinvolgimento nel benessere altrui è esclusa; 2. Self-welfare goal. L’individuo ha per obiettivo il benessere personale, ma tiene in conto il benessere altrui perché influenza il proprio: è la logica dell’”interdipendenza sistemica”; 3. Self-goal choice. Si sceglie di includere il benessere degli altri nel proprio ambito di interessi: solidali perché sodali.

Applicando questa classificazione agli stati, i “paesi forti”, orientati a fare da sé, rientrano nel comportamento Self-centered welfare. I più sinceramente “egoisti” sono gli olandesi, seguiti dai tedeschi. Basta guardare ai ben 1.100 miliardi stanziati dal governo tedesco per le proprie imprese. Gli altri due comportamenti, quelli di minore o maggiore “solidarietà”, non sono invece associabili a singoli paesi, per il semplice motivo che la solidarietà – come detto sopra – attiene alla sfera collettiva. Possiamo però attribuire un certo “tasso di solidarietà” a ciascuno dei fondi programmati: il MES per le spese sanitarie, il SURE contro la disoccupazione, la BEI per gli investimenti.  Alla logica dell’”interdipendenza sistemica” – interessarsi anche agli altri è utile a sé stessi – rispondono i due fondi SURE e BEI. Trattandosi di fondi messi in comune, il rischio per i mercati è contenuto, sicché i paesi ad alto debito pubblico dovrebbero risparmiare rispetto agli interessi che pagherebbero “facendo da soli”. Oltre al sostegno della domanda, oggi l’obiettivo comune è quello di evitare il “supply-chain contagion”: le imprese italiane sono massicciamente presenti nelle global value chains e la Germania incontrerebbe difficoltà nel sostituirle. Nel comportamento di Self-welfare goal potremmo quindi collocare lo studio curato da Baldwin e Di Mauro (2020), che invoca un deciso intervento “a livello europeo”: c’è il pericolo di una lunga depressione anche nei “paesi forti”, è il momento “di agire insieme e mostrare solidarietà” (p.28). Dell’ultimo arrivato, l’European Recovery Fund (ERF) progettato una settimana fa dal Consiglio Europeo, sappiamo ancora troppo poco. Al di là delle garanzie (tutti i fondi prevedono che gli stati membri le versino pro-quota), il punto è questo: si tratta di sussidi, direttamente o indirettamente riconducibili alla Commissione Europea, della cui restituzione tutti i paesi sono mutualmente responsabili, oppure prestiti concessi a paesi singolarmente responsabili, sotto lo sguardo arcigno di mercati?  Il finanziamento – “temporaneo, mirato e commisurato ai costi”, come ha scritto Ursula von der Leyen, ma anche urgent and necessary, come ha fatto aggiungere Giuseppe Conte – sembra sarà erogato in parte nella forma di prestiti (loan) con restituzione a lungo termine, e in parte come sussidi (grant) a fondo perduto. Non sono comunque i tanto agognati Eurobond. Per quanto si dica che il Covid-19 ha cambiato tutto, e benché l’ERF sarà gestito dalla Commissione, dove si vota a maggioranza, c’è da dubitare che la “vera solidarietà” – la scelta di “inglobare gli altri nei fini propri”, Self-goal choice – possa essere condivisa dalla Germania.

L’Italia, per ora, può contare su 37 miliardi di euro dal MES, 15 miliardi (una volta sottratta la quota di garanzia) dal SURE, e 32 miliardi come quota italiana del ricavato delle emissioni per 250 miliardi della BEI (aumentabili, se potrà raccogliere di più grazie a fondi di garanzia ottenuti dal MES). Troppo poco per un paese che dovrà riprendersi da un tonfo del PIL vicino al 10% nel 2020. Poiché l’incremento del deficit e la discesa del PIL faranno crescere il rapporto debito pubblico / PIL al di là del 150%, il rating delle maggiori agenzie potrebbe avvicinarsi pericolosamente alla valutazione “spazzatura” (vedi il BBB- di Fitch). E allora la BCE assume un ruolo centrale. Osservando sul Financial Times che “il debito pubblico diverrà una caratteristica permanente delle nostre economie”, Draghi ha voluto dire, fra le righe, che andranno superati gli articoli dello Statuto della BCE che vietano acquisti mirati a singoli paesi dell’Eurozona. Christine Lagarde ha rapidamente preso nota. Con una rapida “conversione” ha capito che fare fronte all’innalzamento degli spread è proprio compito suo.

La BCE sta acquistando debito sovrano italiano ben al di là della quota ammessa (la proporzionalità con il capitale versato dal paese). Dal 2015, anno di avvio del Quantitative easing, il debito pubblico italiano è aumentato di 100 miliardi, ma gli acquisti della Banca d’Italia per conto della BCE sono ammontati a 200 miliardi. Per quanto a lungo la BCE potrà esercitare la “funzione di prestatore di ultima istanza”, oggi surrettiziamente introdotta? Lagarde potrebbe ottenere dal Board BCE che gli OMT siano attivati senza la preventiva lettera d’intenti di accettazione delle condizioni sul rientro dall’indebitamento di bilancio pubblico richiesto dal MES. Ma poi? Ricordiamoci che il Patto di Stabilità è solo “sospeso”. Il Fiscal Compact, miracolosamente sfuggito alla consacrazione dell’inserimento in un Trattato, è scomparso dalla scena. Alla luce delle conseguenze economiche della pandemia, ci sarebbe quasi da credere che i mercati imploreranno l’Europa di non resuscitarlo. Resta tuttavia del tutto incerto cosa accadrebbe ove Lagarde (sotto la pressione di un Board sempre vigile a difesa dell’ortodossia) dovesse decidere di porre termine all’ingente “monetizzazione” in corso dei debiti sovrani dell’Eurozona.

Alla luce dell’asfittico stato della solidarietà in Europa, la profezia di Jean Monnet – “l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi” – dovrà attendere ancora un po’ di tempo, se mai si avvererà. L’ERF è stato accostato all’European Recovery Program, il Piano Marshall. Per una cooperazione fra le due sponde dell’Atlantico esistevano all’epoca cogenti ragioni economiche (la domanda che avrebbe trainato le esportazioni USA aveva bisogno di consumatori europei dotati di sufficiente liquidità), ma soprattutto ragioni politiche (la NATO nata nel 1949 per fermare l’espansione dell’Unione Sovietica nell’Est Europa). Da tempo, con maggiore o minore consapevolezza, nei comportamenti dei governi europei c’è l’appartenenza a un destino collettivo, ma non la solidarietà. Quella solidarietà che è difficile trovare nel metodo intergovernativo, e nell’impianto giuridico delle “regole” codificate nei Trattati, potrebbe regalarla all’Europa la politica. È in negativo più che in positivo che può nascere un comune sentire. L’”essere sulla stessa barca” balzerà forse agli occhi dei popoli europei quando si accorgeranno di essere stretti fra Stati Uniti sempre più “auto-interessati” e una Cina sempre più vicina.

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