Social Impact Bond e finanziarizzazione dei programmi sociali

Luca Salmieri analizza le opportunità e i rischi connessi all’eventuale introduzione nel sistema italiano di welfare dei Social Investment Bond. Salmieri dopo aver ricordato che tali strumenti finanziari si stanno difendendo nel welfare anglosassone e che attraverso di essi si spera di rendere la spesa pubblica più efficiente e di soddisfare i bisogni sociali dei più svantaggiati, sostiene che essi potrebbero condurre a una maggiore selettività delle politiche sociali e a un’ulteriore riduzione delle responsabilità e dell’operatività dei soggetti pubblici.

In questo scritto si analizzano brevemente i principi di funzionamento dei Social Investment Bond, si prendono in considerazione gli effetti che essi provocano nei contesti in cui sono stati già adottati e si accenna ai rischi potenziali di finanziarizzazione del welfare nella prospettiva, nient’affatto remota, che tali strumenti siano adottati anche nel nostro paese.

Le politiche di austerity seguite alla crisi finanziaria ed economica di quest’ultimo decennio, le riduzioni e le ‘efficientizzazioni’ della spesa pubblica e le trasformazioni dei sistemi di welfare occidentali in termini di disinvestimento pubblico hanno favorito un’accresciuta attenzione nei confronti delle possibili alternative offerte dalla finanziarizzazione delle politiche sociali, dallo sviluppo di nuovi strumenti di intervento nel terzo settore e dal crescente protagonismo di compagini for profit nell’ambito degli interventi con finalità pubbliche. In questo clima di crescenti aspettative nei confronti del terzo settore e delle imprese private, identificate come terminali di esternalizzazioni efficaci e di successo, in quanto ritenute più innovative e flessibili dello loro controparti nel settore pubblico, stanno acquisendo un ruolo particolarmente catartico i Social Impact Bond (SIB), nuovi strumenti finanziari di cui da più parti vengono lodati i potenziali effetti benefici in termini di efficienza, trasparenza e incisività.

I Social Impact Bond, in italiano ‘fondi di investimento ad impatto sociale’, costituiscono un tipo di finanziamento di interventi a carattere sociale – o per appunto di impatto sociale – attraverso cui entità private forniscono il capitale iniziale per l’avvio e lo sviluppo di interventi o di vere e proprie politiche sociali di natura preventiva, dietro la garanzia, da parte di uno o più enti pubblici, di elargire, come remunerazione sul capitale investito, parte dei risparmi generati per le casse pubbliche dall’efficacia dei progetti stessi. Ad esempio, un Social Bond che finanzia progetti contro la dispersione scolastica in una determinata area territoriale remunererà l’entità finanziaria che li ha sostenuti se nel corso di un determinato periodo di tempo tali progetti avranno contribuito a far diminuire il tasso di abbandono scolastico, consentendo un risparmio della spesa pubblica precedentemente destinata a tale problema: la remunerazione per l’ente finanziario sarà determinata da un valore economico prestabilito quale premio per aver raggiunto i risultati attesi. IL SIB, malgrado il nome, non è un bond di per sé, ma uno strumento finanziario che assomiglia molto di più all’equity: in caso di fallimento del SIB, ovvero nel caso in cui il risultato ‘sociale’ prefissato non venga raggiunto, gli investitori non saranno remunerati dell’interesse e perderanno anche il capitale investito.

I SIB attivi nel mondo non sono ancora così numerosi: a fine 2016 risultavano attivi appena una cinquantina di SIB in tutto il globo, in particolare nei paesi anglosassoni, con rari esempi nell’’Europa continentale. Se ne contavano circa 20 nel Regno Unito, una decina negli Stati Uniti, qualche paio in Australia, Belgio, Canada, Germania e Paesi Bassi. Oltre ad alcune sperimentazioni che riguardano i finanziamenti per lo sviluppo nei paesi del Terzo Mondo, si ravvisa tuttavia una forte pressione a più voci (banche, organismi internazionali, investitori finanziari, imprese sociali, esperti) affinché i governi nazionali occidentali adottino normative che regolamentino e promuovano l’adozione di SIB nei vari settori di welfare, nella convinzione che sperimentazione ed estensione delle ‘buone pratiche’ possano sensibilmente rafforzare una riforma organizzativa e operativa dei sistemi di welfare in tempi di austerity pubblica. Se in Italia manca ancora una normativa ad hoc e le poche sperimentazioni non riguardano veri e propri SIB, ma forme ibride più vicine alla valutazione degli impatti sociali di programmi finanziati dal filantropismo dei privati, fondazioni e organizzazioni varie puntano a sviluppare anche nel nostro paese questo meccanismo di finanziamento. Inoltre, l’Italia partecipa alla Task Force internazionale sugli investimenti a impatto sociale con un proprio National Advisory Board e con numerosi rappresentanti afferenti a fondazioni e banche, tra cui Banca Prossima che non è nuova a iniziative di finanziamento del terzo settore. Infine, va sottolineato che esiste una crescente pressione internazionale affinché si passi il prima possibile dalle forme embrionali di sperimentazione alla strutturazione estesa dei SIB.

 Un futuro con lo Stato come intermediario e valutatore dei servizi di welfare? Come opera effettivamente un SIB? Le esperienze già realizzate in altri paesi consentono di abbozzare un modello tipo. La base di partenza è un accordo-contratto tra i vari portatori di interessi – il Governo (o amministrazione pubblica, locale o settoriale), il fornitore del servizio e gli investitori. Un’organizzazione di intermediazione negozia uno schema finanziario secondo cui l’investitore può remunerare il suo investimento (anticipo) di capitale attraverso il pagamento – da parte del Governo o dell’amministrazione coinvolta – a condizione che il fornitore di servizi ottenga determinati risultati sul target dei beneficiari. Il tasso di rendimento può variare anche a seconda dei risultati sociali raggiunti, con un livello base concordato al di sotto del quale gli investitori abbandonano l’investimento e non ricevono rendimenti aggiuntivi. La ricapitalizzazione dell’investitore e i rendimenti aggiuntivi possono essere pagati con i risparmi che si accumulano a seguito del miglioramento nel conseguimento dei risultati. L’obiettivo del Governo è controllare che i servizi sociali continuino ad essere forniti in regime di costanza.

La maggior parte dei programmi finanziati da SIB coinvolge un intermediario che coordina gli investitori, i realizzatori del programma e i valutatori. Il modello ideale prevede che il soggetto pubblico stabilisca i termini dell’accordo e ceda la maggior parte del controllo del placement dei SIB ad un intermediario. Ciò tuttavia renderebbe la progettazione dell’intero meccanismo particolarmente difficile, oltre a marginalizzare lo stesso potere di controllo pubblico. I SIB richiedono anche che vi siano investitori particolarmente affascinati dalle prospettive di remunerazione degli investimenti. Per tali motivi, in buona parte dei casi reali, i SIB nati negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno visto i soggetti pubblici assumere anche il ruolo di intermediari e hanno goduto soprattutto dell’intervento di investitori per lo più vicini al settore non profit, con una forte disponibilità ad investire capitali con remunerazioni di lungo periodo (patient capital) e con una spinta anche etica, di carattere non speculativo, affinché si producessero impatti ‘sociali’ effettivi.

Un ruolo altrettanto cruciale spetta ai valutatori, che devono essere soggetti terzi imparziali, poiché hanno il compito delicatissimo di identificare e misurare il miglioramento dei risultati ottenuti per mezzo dei programmi di intervento sociale finanziati, al fine di calcolare con precisione il rendimento che sarà pagato (o meno) agli investitori.

Se il modello ideal-tipico dei SIB è foriero di una finanziarizzazione del welfare italiano, l’introduzione dei SIB in Italia dovrebbe tuttavia far riflettere anche su una serie di effetti collaterali che dipendono da fattori esogeni al modello stesso. Prima di tutto c’è il rischio che si instaurino meccanismi perversi che spingono le organizzazioni del terzo settore a trascurare le attività principali per concentrarsi su quelle più facilmente misurabili e quindi più adatte ai SIB. A ciò si aggiunge le categorie sociali più vulnerabili potrebbero patire l’adozione dei SIB in quanto dimenticate e marginalizzate a causia dei maggiori sforzi – e quindi di una più bassa remuneratività – che gli interventi loro rivolti richiederebbero.

L’eventuale adozione dei SIB porterebbe a giustificare ulteriori diminuzioni della spesa pubblica per le politiche sociali, dato che, attraverso i SIB, i governi centrali e gli enti locali punterebbero soprattutto a ridurre i costi per il contribuente, trasferendo al settore privato il rischio finanziario di alcune prestazioni sociali. In altre parole, i SIB dovrebbero attirare risorse finanziarie private verso quei programmi sociali in grado di pagare un tasso di rendimento a livello di mercato, se si raggiungono gli obiettivi di risultato predefiniti: così come la finanza offre liquidità a quelle imprese for profit capaci di prefigurare una produzione di valore economico, con i SIB la finanza offrirebbe liquidità al settore non profit, o meglio alle imprese sociali capaci di generare valore in termini di diminuzione della spesa pubblica per il welfare. I tal modo si monetizzerebbero i benefici degli interventi sociali, vincolando il rendimento alle prestazioni e limitando il controllo governativo una volta che il contratto è stato definito e siglato (N. McHugh et al., “Social impact bonds: a wolf in sheep’s clothing?”, Journal of Poverty and Social Justice, 2013)

L’automatismo del collegamento tra risultati specifici e remunerazione degli investitori può certamente favorire la definizione di obiettivi chiari, precisi e verificabili, può offrire ad esperti, operatori e valutatori delle politiche sociali la leva necessaria per concentrare i loro sforzi su ambiti e item specifici di intervento e, soprattutto, può sollevare gli apparati pubblici dal peso – per loro spesso ingestibile – di realizzare programmi che necessitano di flessibilità, versatilità ed expertise specialistiche. Tuttavia, la costruzione e l’uso di un sistema per misurare le prestazioni di un’impresa di carattere sociale è un compito nient’affatto agevole, poiché la misurazione del valore generato richiede la definizione, l’individuazione e l’assessment di obiettivi e risultati tra loro diversi per natura e ordine di scala, con un ampio ventaglio di parti in gioco, a volte con interessi contrastanti. C’è il problema di misurare impatti in settori in cui i risultati, essendo sociali, non sono facilmente convertibili in dati finanziari. La finanziarizzazione dei servizi sociali solleva poi numerose altre questioni riguardanti la scrematura della popolazione beneficiaria, i costi di transazione della progettazione del programma, la responsabilità di bilancio e di rischio, il potenziale soffocamento dell’ulteriore innovazione dei programmi al fine di garantire rendimenti privati certi e continui.

Impatti sociali e rating dell’efficacia. I SIB codificano l’approccio di misurazione delle prestazioni e collegano il ritorno finanziario a metriche molto rigide. Ciò comporta fughe al ribasso: per garantire che i bilanci delle amministrazioni locali realizzino effettivamente risparmi in caso di successo del programma, le trattative potrebbero essere strutturate fissando soglie molto minime di successo rispetto a quanto indicato dai programmi di riferimento. Senza contare che per definizione gli investitori finanziari sono disposti ad assumersi i rischi di implementazione di un programma sociale di successo, ma certo non i rischi connessi alle fasi di ricerca e sperimentazione. Pertanto solo i modelli di intervento di comprovato successo riceverebbero investimenti, determinando effetti sperequativi tra settori, ambiti e beneficiari diversi delle politiche sociali. Va poi considerato che i sistemi di gestione delle prestazioni sociali non sempre raggiungono la molteplicità di obiettivi a cui i programmi di governo aspirano. I problemi con l’allineamento degli obiettivi in tali schemi sono stati sollevati sia a livello teorico che empirico (L. Hipp e M. Warner, “Market Forces for the Unemployed? Training Vouchers in Germany and the USA” Social Policy and Administration, 2008; M.E. Warner e R. Gradus, “The Consequences of Implementing a Child Care Voucher: Evidence from Australia, The Netherlands and USA.” Social Policy and Administration 2011; J. Liebman, Social Impact Bonds, Center for American Progress 2011).

In sintesi i SIB riflettono un assunto di fondo che mal si combina con le concezioni molto eterogenee di bene sociale, ovvero che una buona gestione delle performance economiche ed organizzative sia sufficiente a garantire un impatto positivo per il bene collettivo e che sia sempre possibile allineare adeguatamente la molteplicità dei risultati di valore pubblico ai processi di erogazione dei servizi che lo avrebbero determinato. Succede così che per quantificare e monetizzare i rendimenti per gli investitori finanziari. la stragrande maggioranza dei SIB attivi si basino su progetti di valutazione ‘positivistici’ ovvero su approcci in cui cause (i programmi di intervento sociale) ed effetti (i risultati per i beneficiari) sono disposti lungo una linearità esplicativa molto rozza. Se la linearità causa-effetto può avere un suo principio di verosimiglianza nei campi delle scienze ‘dure’, nell’ambito del sociale sarebbero necessari costosissime analisi controfattuali per certificare le correlazioni tra gli interventi realizzati e il miglioramento (o peggioramento) delle condizioni di partenza dei beneficiari. Per tale motivo, nel caso dei programmi sociali realizzati per mezzo di SIB il campo della valutazione dei risultati si è riempito di metodi di approcci che incorporano molti attori, in un processo di riflessione collettiva in cui l’interpretazione dei fatti può prendere il sopravvento sull’analisi dei fatti (L. Salmieri, “Le comunità di (auto)valutazione. Dalle prassi autoctone alla valutazione partecipata nella formazione continua”, Scuola democratica, 2017). La fiducia cieca nei confronti del management delle prestazioni riflette la traiettoria più generale delle nuove riforme della gestione della spesa pubblica per cui lo Stato tende a spendere sempre più per i risultati finanziari ottenuti piuttosto che per i servizi forniti.

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