Slow politics: un nuovo stile di gioco dopo le elezioni europee?

Alfio Mastropaolo commenta le elezioni europee distinguendo tra euroscettici e populisti e sostiene che il disagio sociale ha avuto un peso rilevante nel determinare gli esiti della consultazione. Allargando l’orizzonte dell’analisi Mastropaolo denuncia l’involuzione oligarchica della classe politica e invoca un nuovo “stile di gioco”, una slow politics in grado di ristabilire il valore della politica come pratica associativa.

Distinguiamo anzitutto populisti e euroscettici. Se tutti i cosiddetti populisti sono euroscettici, non tutti gli euroscettici sono populisti. In più l’euroscetticismo dei populisti è ben diverso da quello degli euroscettici non populisti, che non sono euroscettici, bensì eurocritici. Che, nelle elezioni del 25 maggio, hanno registrato discreti risultati in molti paesi, ma di sicuro assai più contenuti di quelli dei cosiddetti partiti populisti, che sono in realtà partiti di estrema destra, camuffati da un’etichetta più vaga e più innocua.

L’avanzata dei populisti alle europee era annunciata da un pezzo. In tutte le più recenti tornate elettorali in giro per l’Europa avevano fatto registrare eccellenti performances a spese dei partiti convenzionali. È singolarmente in controtendenza solo il risultato italiano, da sottolineare per almeno due aspetti. Il primo è che l’Italia è il paese in cui l’ubriacatura populista s’è manifestata da più tempo. I populisti vi hanno governato per almeno dieci anni. La seconda è che, entrata in crisi la vecchia guardia populista berlusconiano-leghista, si era accesa la stella di Beppe Grillo, che però alla prova delle urne si è rivelata meno splendente di quanto ci si aspettasse.

Occorrerà ragionare con cura sul successo di Renzi, giacché da malattie come quella che ha afflitto l’Italia per tanto tempo non si guarisce d’un tratto. Renzi ha risucchiato l’elettorato centrista e rimobilitato gli elettori del suo partito, disperati dopo le vicende della scorsa primavera. E ha conseguito un brillante risultato. Resta da vedere se il suo elettorato reggerà alla prova delle policies, sui cui, al netto delle promesse, ben poco egli ha detto. Nota a margine: Renzi non è euroscettico, ma un po’ populista lo è. Almeno nello stile. La prova del governo è dunque per lui particolarmente rischiosa. E il paese sta malissimo. Come conferma l’incremento dell’astensione, che nelle regioni meridionali è invero impressionante.

Teniamoci tuttavia per adesso al risultato europeo nel suo insieme, figlio di un malumore degli elettori le cui ragioni ai politici sono ben note, benché finora l’abbiano trattato unicamente come un inevitabile danno collaterale. I populisti, si è detto, attraggono i modernisation losers, quanti non sono in grado di adeguarsi al cambiamento. Sono le vittime della deindustrializzazione, o gli abitanti delle aree in cui si è affollata la nuova immigrazione, a farsi sedurre dalle intolleranze dei populisti, ma se, senza dubbio, l’effetto è deprecabile, non molto era possibile fare per evitarlo. La modernizzazione ha il suo prezzo. Così fino a ieri ha ragionato la classe politica.

La quale tuttavia ha scoperto a sue spese il 25 maggio che le cose sono forse un pizzico più complicate. Perché anche se i modernisation losers sono stati talora sedotti, è successo meno di quanto non si dica. Vedansi le vicende elettorali della Lega Nord, che ha attecchito marginalmente nei quartieri ex-operai dell’ex-triangolo industriale, dove un tempo si votava a sinistra, e ha prosperato piuttosto tra i ceti medio-bassi e i lavoratori autonomi del centro-nord, che una volta votavano Dc. Gli elettori sono sedentari. Quando sono delusi dai rappresentanti del loro schieramento di appartenenza, manifestano il loro malessere ingrossando l’astensione.

La vera novità da sottolineare, in Italia e altrove, è pertanto la radicalizzazione a destra di alcune fasce di elettorato decisamente meno svantaggiate, cui la crisi sta sottoponendo un conto assai salato. Le politiche neoliberiste avevano inizialmente colpito gli operai, hanno seguitato coi lavoratori dipendenti pubblici e privati. La crisi finanziaria ha investito in pieno commercianti, professionisti e imprenditori. Questo per dire che, se il malumore si è trasformato in collera, e i populisti avanzano con slancio, ciò in ultima istanza dipende dall’impoverimento che in lenta e sicura progressione logora l’Europa, risparmiando solo minoranze ristrettissime.

Di contro, le dirigenze politiche, lungi dall’attrezzarsi per contrastare l’impoverimento e le disuguaglianze crescenti, hanno puntato unicamente a immunizzarsi dalle reazioni negative ad essi. I fatti politici degli ultimi decenni sono interpretabili in due modi non reciprocamente esclusivi. Possiamo ritenere che l’ortodossia neoliberale, da qualcuno ovviamente sponsorizzata, abbia stregato le classi dirigenti, politiche e non, persuadendole che non vi fosse alternativa alla ritirata dello Stato e all’avanzata del mercato, salvo predisporre qualche modesto palliativo come le politiche Third Way. E possiamo leggere i fatti alla luce di un’involuzione oligarchica della classe politica elettiva, che ha puntato solo a garantire le sue posizioni di potere desensibilizzandosi nei confronti dell’elettorato e della protesta suscitata dalle sue politiche.

Rientra in questa desensibilizzazione il cambiamento dei partiti, i quali hanno subito la svolta del leaderismo e della personalizzazione. È difficile negare che in non piccola misura questa svolta sia frutto delle nuove tecnologie mediatiche, specie della politica televisiva. Ma le tecnologie non si sviluppano e si adottano mai senza intenzioni: in questo caso politiche. È legittimo supporre che le tecnologie mediatiche siano state sviluppate in modo tale da produrre l’effetto di desensibilizzazione di cui si è detto. È proprio certo però che non le si sarebbe potuto sviluppare, ad esempio, per rendere i cittadini più informati e politicamente più avvertiti? In fondo la televisione, perfino quella di Bernabei, è stata a lungo un formidabile veicolo di educazione.

Per un tempo piuttosto lungo i partiti sono stati utilizzati quale dispositivo d’informazione, educazione e protezione dei cittadini. Finanche i legami clientelari servivano a proteggere. Riciclando i partiti come agenzie di marketing elettorale, l’elettore medio è stato abbandonato a se stesso. Ma è un abbandono per il quale pure la classe politica sta pagando un prezzo assai elevato. Si è drammaticamente indebolita rispetto al passato. Non solo non è più in grado di suscitare consenso a favore delle politiche che promuove, ma è logorata dai continui, e strumentali, accertamenti di gradimento compiuti tramite i sondaggi. Che sono proiettili che i suoi concorrenti per il potere – ovvero i potentati finanziari e mediatici – le scagliano contro.

I sondaggi hanno l’abitudine di deteriorarsi rapidamente. La ragione sta nel décalage tra promesse e fatti, in ragione della subalternità delle politiche alle prescrizioni dei suddetti potentati. La politica subisce tali prescrizioni spesso perché le condivide, ma anche, ove non le condivide, per evitare che si scateni – Barak Obama ne sa qualcosa –la tempesta sondaggistico-mediatica.

Qualcosa d’importantissimo si è rotto negli ultimi decenni. Dopo essersi guardate in cagnesco per decenni, le alte dirigenze pubbliche e la classe politica elettiva, d’ogni colore, nel secondo dopoguerra avevano trovato, malgrado la loro dialettica, un punto d’accordo, o una convergenza d’interessi attorno allo Stato interventista. Che ha consacrato la preminenza di entrambe sulla sfera economica: non a caso attirandosi le critiche dei paladini dell’economia di mercato (e della democrazia). A lungo marginali, questi ultimi hanno profittato del disordine – sociale, economico e politico – degli anni ’70 per passare alla riscossa. Dal canto loro, la classe politica e le dirigenze pubbliche non hanno invece compreso che la posta della partita apertasi a inizio degli anni Ottanta non solo era l’impoverimento diffuso, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il degrado del welfare, bensì la loro stessa preminenza. Che hanno perso, restando confinati in un mediocre ruolo di servizio, pur se ottimamente retribuito.

Si può far qualcosa per contrastare questa deriva, rivitalizzando la politica (e il pubblico, se non lo Stato)? L’impresa è improba. Le riforme ispirate dal New Public Management – hanno destrutturato la pubblica amministrazione dopo averla delegittimata. Della sorte dei partiti si è detto. Secondo un illustre sociologo francese, Bruno Latour, la congiuntura astrale è di quelle in cui ci si può solo astenere e aspettare che passi. Altri, più volenterosi, puntano invece sul risveglio dei cittadini. I movimenti, per i beni comuni – malgrado la confusione che il concetto implica –, per la costituzione, contro la mafia, per l’ambiente, ne sono possibili segni. Ma c’è già chi prova a rinchiuderli in un ghetto, a istituzionalizzarli quali sfoghi, locali o localizzati, che non debbono ai piani alti della politica. A questo serve la governance, che in fondo non è altro che una procedura per imbrigliare il malumore.

Che non si debba cambiare invece radicalmente stile di gioco? Il capitale intellettuale e simbolico attivabile è cospicuo. Ma va investito con cura. Anzitutto disvelando la drammaticità delle disuguaglianze e i loro effetti socialmente disastrosi. E poi riscoprendo la politica come attività che affratella. L’alternativa all’immiserimento autoreferenziale della politica, corrosa dalla corruzione, non sono i tecnici, né i blog, ma l’azione collettiva e le relazioni face to face. Rifiuto dello spettacolo e riscoperta dei propri simili, dei rapporti umani, perfino della ribellione condivisa: ecco cosa serve. Serve una rivolta aspra contro l’ortodossia dominante e contro la realtà inaccettabile da essa è prodotta. È molto dubbio che si possano ricostituire i partiti di un tempo, anche se la loro mancanza si avverte parecchio. Essi erano strutture di connessione orizzontale, tra i cittadini, e verticale, con lo Stato. Svolgevano funzioni di protezione e aiuto reciproco. Sono cose di cui nessuno attualmente si occupa. Ma di cui sarebbe opportuno occuparsi. In che modo. Reiventando appunto la politica secondo nuove forme, anzi antiche, ossia la politica come pratica associativa. Se ha avuto successo Slow food, perché non potrebbe averlo Slow politics?

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