Sindona e le debolezze della politica: una rilettura degli anni Settanta

Marco Magnani riprende i temi trattati nel suo recente libro dedicato a Michele Sindona, del quale ricostruisce brevemente la straordinaria vicenda dai primi passi nel mondo della finanza all’assassinio di Ambrosoli. Seguendo l’ascesa e il declino di Sindona, Magnani reinterpreta i nostri anni Settanta, sottolineando come il quel periodo il capitalismo relazionale assunse un carattere patologico., e osserva che se Sindona è stato sconfitto il merito è di pochissime persone, animate da alti valori civili e morali.

La storia dell’avvocato Michele Sindona, nato nel 1920 a Patti nel Messinese e morto suicida nel carcere di Voghera nel 1986, è un prisma utile per scomporre le compo­nenti della storia italiana nella seconda metà del Novecento. Sindona appartenne alla cerchia degli uomini senza pedigree che conquistarono successo e ricchezza negli anni di straordinario cambiamento della società italiana, gli anni Cinquanta e Sessanta. Ma le sue ambizioni erano incomparabilmente maggiori di quelle di un mobiliere brianzolo o di un palazzinaro romano. Aveva dalla sua un’intelligenza svelta e versatile, la passione per l’azzardo, la smania di affermazione, la spregiudicatezza morale che oc­correva per puntare in alto, non solo in Italia. A Milano questo “giovane magro e nervoso, dotato di una conversazione scintillante” (sono parole di Massimo Spada, il dominus dello IOR, la banca vaticana)  entrò in poco tempo nelle grazie di molti industriali di punta, come Giorgio Valerio, Carlo Faina, Franco Marinotti. Un uomo dal­la grandezza sinistra ma indubbia, secondo il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli.

Dopo aver servito ingegnosamente le grettezze dell’im­prenditoria protagonista del boom, inventando nuove mo­dalità con cui eludere il fisco, costituendo illegalmente cespiti patrimoniali, esportando capitali all’estero, Sindona comprese che nel mercato finanziario si sarebbero aper­te nuove possibilità di speculare in grande, grazie alle scelte finanziarie del Vaticano seguite alla svolta di centrosinistra e alla disponibilità di capitali creatasi con i cospicui indennizzi alle società elettriche espropriate nel 1962. I suoi raids in Borsa fecero epoca, illudendo centinaia di piccoli risparmiatori. Favorí notevolmente i suoi disegni l’in­sabbiamento del processo di riforma della regolazione dei mercati finanziari e delle società di capitale avviato dai pri­mi governi di centrosinistra.

Dopo la fine del sistema di Bretton Woods all’inizio degli anni Settanta fu un pioniere nella fantasia spesso fraudolenta con cui sfruttò le opportunità offerte dal nuovo contesto fi­nanziario internazionale. In Italia, Sindona si scontrò con un sistema finanziario poco esposto alla concorrenza e domina­to dalle banche, consentendo a chi le controllava, in primo luogo la mano pubblica, di usufruire di un formidabile stru­mento d’influenza economica e politica. Il Vaticano gli affidò la gestione dei propri denari; divenuto l’alfiere della finanza cattolica entrò in collisione in primo luogo con Enrico Cuccia, che alla testa di Mediobanca governava da par suo gli equilibri della alta finanza italiana.

Nel 1971 si rese protagonista di una vicenda che fece grande clamore, il vano assalto alla Bastogi, il salotto buono della finanza italiana,  che superò per spregiudicatezza l’ultimo grande episodio analogo nella storia finanziaria italiana, la scalata alla Banca Commer­ciale tentata dal gruppo Perrone – Ansaldo – Banca di Sconto cinquant’anni addietro. Nell’autunno del 1974 le sue banche, la Banca Privata in Italia e la Franklin National Bank a New York(una della maggiori banche americane, acquistata da Sindona dopo il fallimento della scalata alla Bastogi) fallirono clamorosa­mente. I dissesti furono favoriti dal nuovo contesto internazio­nale in cui non vi erano più tassi di cambio fissi, dove grandi operatori privati muovevano incessantemente imponenti flussi di denari da un Paese all’altro in cerca di profitto correndo elevatissimi rischi, in una sorta di anticipo della globalizza­zione finanziaria che esplose vent’anni dopo. Gli organi­smi di vigilanza bancaria ebbero difficoltà nell’adeguare con rapidità il proprio know how al mutato scenario: un proble­ma che la recente crisi finanziaria ha reso di nuovo attuale. Nell’estate del 1974, con sincronia quasi perfetta due si­stemi di supervisione bancaria, quello italiano e quello statu­nitense, furono messi a dura prova dalla crisi. Le banche di Sindona furono spazzate via in entrambi i casi, ma in Italia  il peso dei fattori politici sul com­portamento della Banca centrale fu probabilmente maggio­re rispetto a quella americana. Vi contribuirono fattori tecnico/istituzionali come la scarsa disponibilità di attivi stanziabili a fronte dei ri­sconti e delle anticipazioni concessi dalla Banca d’Italia al­le banche, l’assenza di norme che consentisse l’e­rogazione diretta di credito di ultima istanza da parte della Banca centrale a un istituto in crisi,l’inesistenza di un sistema di assicurazione dei depositi bancari.  Ma contò anche la persona­lità di Guido Carli, con gli anni sempre più cauto ad aprire conflitti con chi era espressione diretta o indiretta del potere politico, soprattutto negli anni Settanta, quando le consorte­rie – un termine a lui familiare – avevano preso a invadere, spesso in combutta con altri poteri dai contorni indefiniti, campi non di loro competenza.

Gli effetti della crisi della Banca Privata e della Franklin rimasero circoscritti, senza ricadute macroeconomiche di ri­lievo. Non diedero luogo a una crisi sistemica, come il falli­mento della banca austriaca Credit-Anstalt nel 1931 o della Lehman Brothers di New York nel 2008, che innescarono le due piú grandi recessioni su scala globale mai speri­mentate dal capitalismo. Vi furono però riflessi non trascura­bili nella regolamentazione bancaria e dei mercati finanziari, negli Stati Uniti e piú ancora in Italia, con la costituzione nel giugno del 1974 della Commissione nazionale per le società e la Borsa e con il «decreto Sindona» del 27 set­tembre dello stesso anno.

Dopo la fallita scalata alla Bastogi Sindona si appoggiò alla loggia massonica P2 di Licio Gelli, di cui divenne autorevole membro. Rappresentò uno degli snodi importanti del coacervo di poteri legittimi, illegittimi e criminali che soffo­cavano il Paese e la sua economia. Sin­dona si considerava un campione della lotta al comunismo, da sempre impegnato per mantenere con tutti i mezzi l’Italia nel «mondo libero», esprimendo un filo rosso che ha percorso la storia della Repubblica, anche nei suoi aspet­ti piú oscuri, quelli legati all’intreccio eversivo di poteri. Esemplare sotto questo profilo la vicenda del fin­to sequestro ideato nell’ambito di un progetto separatista in chiave anticomunista, in cui i primattori furono la mafia e la massoneria. È dalla ricostruzione in sede processuale di quella rocambolesca vicenda che trovò conferma l’importanza di Sindona per l’ascesa della potenza di Cosa Nostra. Il banchiere fu elemento fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra mafia e finanza, rendendo possibile l’accesso a un vasto network internazionale funzionale al riciclaggio e all’investimento dei denari provenienti da attività criminali. Riuscí a creare un grande «dark pool», un bacino finanziario dalla natura opaca, inaccessibile al pubblico.Era il mondo delle con­sorterie trasversali, della loggia massonica P2 e della mafia, in cui Sindona s’immerse elargendo denari alla Democrazia Cristiana in cambio di favori alla sua banca, bussando alla porta del presidente del Consiglio Giulio Andreotti financo da latitante, ot­tenendo il supporto dei massoni e di Cosa Nostra per minacciare Cuccia che riluttava ad aiutarlo a far revocare la liquidazione della Banca Privata e per  assassinare  Giorgio Ambrosoli, il commissario li­quidatore della banca che non voleva cedere alle sue pressioni.

Questo intreccio di poteri costituisce la versione patologi­ca, ma tutt’altro che effimera, di un modello di capitalismo relazionale il cui ruolo essenziale nella storia recente italiana è ormai indiscusso. «Un regime che si va corrompendo»: so­no le parole con cui Aldo Moro definì la corruzione parti­tocratica che stava avanzando nel Paese quando dalla prigione delle Brigate Rosse ripercorse i principali scandali degli anni Settanta, fra cui quello di Sindona.

Il banchiere fu un maestro nello sfrutta­mento degli ampi margini d’azione aperti dalle debolezze della politica. Anche per questo è stato a lungo difficile contrastarlo, anche da parte di forze che lo osteggiavano, come il Partito comunista, che pure si trovava al culmine della propria in­fluenza politica. Nel 1978-‘79, la Banca d’Italia fu oggetto di un attacco diffamatorio martellante da parte di ambienti della P2, legati a Roberto Calvi e a Sindona, culminato nel marzo del 1979 con l’arresto del vicedirettore generale Mario Sarcinelli e la messa in stato d’accusa del governatore Paolo Baffi. Pochi giorni dopo, Pierluigi Ciocca – all’epoca funzionario nel Servizio studi della Banca d’Italia, poi dal 1995 al 2006 vicedirettore gene­rale dell’istituto – varcò per la prima e unica volta il portone di via delle Botteghe Oscure 4, la storica sede della direzione nazionale del Pci, per saggiare la determinazione del par­tito a difendere l’istituto di emissione. Il Pci, dopo un travagliato dibattito interno, aveva da pochi giorni giudicato esaurita l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale, per­lomeno nella forma di sostegno esterno all’esecutivo. Ciocca fu ricevuto da Luciano Barca, il quale, dopo averlo ascol­tato con partecipazione, allargando le braccia gli confessò non senza umorismo che nel partito non avevano ancora ca­pito se Andreotti fosse un angelo o un demonio.

Sindona fu la personificazione estrema di una caratteri­stica italiana che iniziò ad assumere un forte rilievo negli an­ni Settanta, ben al di là del campo finanziario: il disprezzo nei confronti di regole che discendessero da esigenze di tu­tela del bene comune e la connessa incapacità da parte delle istituzioni politiche ed economiche di imporle con successo. Iniziò in quegli anni il declino di una cultura repubblicana che – sebbene in forme diverse e contraddittorie – le grandi forze politiche avevano saputo fino ad allora mantenere in vita, sia pur con presa decrescente. Né il caso Sindona era isolato: in quegli anni emersero numerosi al­tri casi di criminalità economica, di complotti contro il pub­blico interesse, di corruzione e di malaffare, formando una scia prolungatasi fino a «Mani Pulite», all’implosione della prima Repubblica e oltre.

Sindona fu infine battuto. L’emergenza degli anni Settanta è ces­sata. Vi hanno contribuito diversi fattori, di or­dine interno e internazionale, politico ed economico. Per la sconfitta di Sindona, che di quell’emergenza fu una delle ci­fre, fu essenziale il contributo di poche, pochissime, persone, animate da un patrimonio di valori civili e morali oggi cor­roso in forme meno eclatanti, ma piú pervasive, a lungo an­dare forse piú insidiose. Anche per questo la scelta di quelle persone vive nella nostra memoria.

* Questo articolo riprende alcuni  degli argomenti contenuti nell’epilogo e nelle conclusioni del mio volume “Sindona. Biografia degli anni Settanta”, Einaudi, 2016

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