Si torna a parlare dell’Olivetti, ma non di Giorgio Perotto

In questo povero paese, che avrebbe tanto bisogno di eroi positivi, si dimenticano anche quelli che abbiamo avuto, anzi se ne cancella attivamente la memoria. Nelle scorse settimane sono andate in onda trasmissioni radio e TV (seppure in canali poco frequentati) che hanno meritoriamente ripresentato la storia dell’Olivetti “ai tempi di Adriano”. Non una parola su Pier Giorgio Perotto (morto a Genova a 71 anni nel gennaio 2002), ingegnere elettronico, che inventò all’Olivetti il primo personal computer al mondo e che avrebbe potuto dare all’Italia la leadership globale in queste settore e al mondo un paradigma tecnologico libero dalla morsa di Bill Gates. Molto invece sui meriti, ma sorprendentemente soprattutto sugli “errori” di Adriano, sull’ “isolamento” di Adriano, sugli “utopismi” di Adriano, centrali tra l’altro in un’intervista a Cesare Romiti (!), ancora oggi acida, dopo tanti anni e dopo tanti errori suoi (di Romiti intendo). Secondo me, come si vedrà alla fine di questo articolo, l’unico errore di Adriano è stato quello di morire troppo presto (27 febbraio 1960), un errore che evidentemente non gli può essere addebitato.

All’Olivetti all’inizio degli anni Sessanta, il conflitto era tra paradigma elettromeccanico ed elettronico. Non si tratta però di conflitto tra conservazione e innovazione, come potrebbe sembrare oggi. Le parti in conflitto erano tutte sinceramente impegnate nell’innovazione. I sostenitori del paradigma elettromeccanico non erano conservatori avversari del cambiamento, anzi la loro forza e le posizioni di potere acquisite nell’azienda si basavano sul mito di “progettisti-inventori” che si erano guadagnati sul campo. Racconta l’ingegnere Pier Giorgio Perotto: “Natale Capellaro da semplice operaio diventò direttore generale e ricevette pure la laurea in ingegneria, honoris causa, dall’università di Bari. Attorno a Capellaro si era raccolto un gruppo di progettisti, […] molti avevano solo la licenza elementare, tutti però dotati di straordinaria genialità e creatività. Essi inventarono praticamente, al di fuori di qualsiasi circuito accademico, una nuova meccanica […] non di forza, adatta a trasmettere e a manipolare la leggerezza dell’informazione. La sua materia prima per eccellenza era la semplicissima lamiera. La mitologia del progettista inventore […] divenne determinante in Olivetti e alimentò certamente gran parte delle energie interne e delle risorse umane […] I progettisti si sentivano gli artefici del successo mondiale dell’azienda ed erano profondamente convinti di avere in mano anche le chiavi segrete dei successi futuri. La tecnologia da essi posseduta in esclusiva, così esoterica ed eterodossa, della quale nulla si leggeva sui libri, poteva essere trasmessa soltanto attraverso un rapporto fiduciario, come tra gli iniziati di una setta religiosa. […]. Naturalmente nel gruppo non c’era posto per gli ingegneri, specie se in odore di elettronica […] l’elettronica avrebbe potuto essere accettata soltanto se ancillare rispetto alla dominante tecnologia meccanica […]. D’altra parte questa posizione nei primi anni ‘60 era oggettivamente corretta. Nessuno intravedeva allora la possibilità, a breve termine, di un ingresso dominante dell’elettronica nei prodotti dell’ufficio, salvo che per qualche marginale applicazione di alto costo. Per giunta […] erano in preparazione prodotti di alta sofisticazione a tecnologia meccanica, sia nel campo delle calcolatrici, come in quello delle macchine contabili. La posizione di forza dei progettisti-inventori era condivisa da un’altra specie umana molto importante in Olivetti […]. Si trattava dei contabili – amministrativi […in grado di] apprezzare una situazione di redditività da sogno, dovuta all’incredibile rapporto prezzo – costo dei prodotti usciti dal magico tavolo da disegno di Capellaro e dei suoi seguaci.”

Il conflitto arriva al livello dello scontro e di una vera guerra nella quale l’ingegner Perotto e la sua squadra di progettisti elettronici rischiarono di venire annientati. Leggiamo ancora nella ricostruzione dell’ingegnere: “Ma a parte le ambiguità e le reticenze che accompagnavano l’operazione complessiva [l’accordo Olivetti – General Electric del 31 agosto 1964 favorito da Valletta che disse: l’Olivetti è un’azienda solida, deve solo estirpare un bubbone, quello dell’elettronica], era la posizione mia e del mio piccolo gruppo ad essere estremamente difficile. Ci trovavamo in territorio straniero, trattati come indesiderabili proprio da quelli coi quali avremmo dovuto collaborare, da una parte; e, dall’altra, Ivrea aveva abbondantemente dimostrato di non sapere cosa farsene di noi. […] Dopo l’annuncio ufficiale dell’accordo, sembrò che una cortina di ferro fosse improvvisamente discesa […] Intervennero subito i contabili ad inventariare scrupolosamente gli attrezzi e gli strumenti del nostro ufficio, vennero predisposti dei percorsi da seguire per entrare ed uscire, ai fini di garantire la riservatezza e la separatezza […] in una parola si creò subito un clima da guerra fredda.”

Il gruppo di Perotto riuscì ad uscire dall’angolo in cui era stato confinato mediante la realizzazione di un prodotto assolutamente nuovo, frutto di un cambiamento di codice interpretativo promosso dallo stesso pericolo di annientamento, la macchina “Programma 101”, primo personal computer al mondo. L’ingegner Perotto tra il 1963 ed il 1965 fu costretto a compiere da solo e con pochi collaboratori quel salto, dal codice che privilegiava le ragioni della macchina a quello che metteva in primo piano le ragioni degli utilizzatori, che nell’elettronica dei calcolatori nessuno aveva ancora fatto né perfino concepito. Continua il racconto di Perotto: “In quegli anni poche aziende e pochi progettisti si preoccupavano dei problemi degli utenti e della facilità e praticità d’uso delle macchine […] la preoccupazione principale dei progettisti era tutta concentrata sui problemi di puro e semplice funzionamento. Era l’uomo che doveva adattarsi alla macchina e non viceversa. All’elettronica dei calcolatori si chiedevano prestazioni di tipo quantitativo, tanta potenza di elaborazione, tanta capacità di memoria, elevata velocità di stampa dei dati, e nulla poteva essere sprecato per migliorare il rapporto con l’uomo, che peraltro era sempre un tecnico specializzato. […] Gli specialisti di elettronica e di informatica erano pochi; essi conoscevano le tecnologie ma ignoravano in genere il mondo e i problemi delle applicazioni. Inversamente gli utenti non potevano conoscere l’elettronica né tanto meno l’informatica; e tra i due mondi […] esisteva una barriera di incomunicabilità che costituiva un ostacolo non piccolo al progresso e alla diffusione dell’informatica. […] Tra la fine del 1962 e gli inizi del 1964 venne a prendere forma nella mia mente non tanto una soluzione, quanto un sogno; il sogno di una macchina nella quale non venisse solamente privilegiata la velocità o la potenza, ma piuttosto l’autonomia funzionale, che fosse in grado non solo di compiere calcoli complessi, quanto di gestire in modo automatico l’intero procedimento di elaborazione, però sotto il controllo diretto dell’uomo. […] Sognavo una macchina che sapesse imparare e poi eseguire docilmente, che consentisse di immagazzinare istruzioni e dati, ma nella quale le istruzioni fossero semplici ed intuitive, il cui uso fosse alla portata di tutti e non solo di pochi specialisti. Perché questo fosse realizzabile, essa doveva sopratutto costare poco e non essere di dimensioni diverse dagli altri prodotti per l’ufficio, ai quali la gente si era da tempo abituata. […] una simile macchina non esisteva e le tecnologie non sembravano offrire soluzioni praticabili. Mi convinsi che nella situazione in cui si trovava il mio gruppo sarebbe stato controproducente parlarne, se prima non si fosse delineata un’ipotesi di soluzione. Il rischio di essere considerato un visionario era sempre molto alto in un ambiente già marchiato dall’accusa di scarsa concretezza. Mi consultai coi più diretti collaboratori, l’ingegner Giovanni De Sandre e il perito Gastone Garziera, entrambi da poco in Olivetti ma subito rivelatisi bravissimi e sopratutto non tipi da spaventarsi di fronte alle difficoltà, e assumemmo la decisione di continuare sì le esplorazioni e gli studi di fattibilità, ma di puntare ad ogni costo a […] un prodotto rivoluzionario. […] In certi momenti critici della vita o della carriera […] il non avere più nulla da perdere fa prendere molte volte la strada giusta.”

Questa realizzazione riaprì i giochi in Olivetti. Riprende Perotto: “La fiera [di NYC del 1965] era immensa […] La Olivetti aveva fatto le cose in pompa magna, con uno stand di forma semicircolare, come un grande palcoscenico nel quale erano stati posti, su delle piattaforme, i nuovi prodotti di bandiera meccanici, le calcolatrici Logos 27. Intorno vi erano nuovi modelli di macchine per scrivere, addizionatrici, fatturatrici, contabili […] con una classe all’altezza della tradizione di eccellenza della società. In una saletta riservata, sulla parete di fondo dello stand, era collocata una […] Programma 101. […] Non appena il pubblico […] si rese conto delle sue prestazioni, cominciò ad affollarsi nella saletta […]. In un primo tempo le reazioni furono quasi di diffidenza: alcuni chiesero se per caso la macchina non fosse azionata da qualche grosso calcolatore nascosto dietro la parete! Poi la diffidenza si mutò in stupore, infine in entusiasmo. […] Io stesso venni pregato di prestarmi a far parte dell’esibizione, giocando ad una specie di partita ai dadi, nel quale l’uomo e il computer si sfidavano a raggiungere un numero predeterminato, senza superarlo; e dato che venivo frequentemente battuto, questo dava al presentatore la opportunità di proclamare: la Programma 101 riesce a battere il suo creatore!. […] Pochissima attenzione venne riservata a tutte le altre macchine dello stand. La situazione si complicò ancora nei giorni successivi, quando il personale dovette organizzare un specie di servizio d’ordine per regolare l’eccezionale afflusso dei visitatori alla saletta. Alla conclusione della fiera, fummo convinti che ormai si era avviato un processo irreversibile e creata una aspettativa che non si poteva più deludere.”

L’esito tuttavia fu un compromesso che non permise la necessaria rapida destinazione di adeguate risorse alla Programma 101. Perotto osserva: “Il successo della Programma 101 si ripeté nelle successive presentazioni, a Mosca nel dicembre dello stesso anno, poi nelle varie capitali europee ed infine in Italia, a Milano, nell’aprile del 1966 […]. La cosa […] favorì la presa di tutta una serie di decisioni, tra le quali ovviamente l’avviamento più rapido possibile della produzione, alla quale venne destinato lo stabilimento di San Bernardo, presso Ivrea. […Ma] ci rendemmo immediatamente conto che la responsabilità effettiva della operazione sarebbe ricaduta integralmente sulle nostre spalle e che avremmo dovuto inventarci tutto, dalla organizzazione delle linee di montaggio, ai metodi di fabbricazione, ai collaudi. […] Di fronte al rischio tecnico di un prodotto così innovativo, tutta l’organizzazione stava prendendo le distanze, assumendo atteggiamenti di riserva, di dubbio, e anche di critica aperta al progetto. […] I dirigenti dei settori amministrativi, delle produzioni, dei settori commerciali, non si erano ancora convinti […]. La Programma 101 -essi dicevano- é un bellissimo prodotto, però copre un mercato di élite. La Olivetti vive di macchine per scrivere, di calcolatrici a quattro operazioni, di addizionatrici, ossia di prodotti di massa, da produrre in grandi serie, al ritmo di centinaia di macchine all’ora e a costi ai quali l’elettronica non potrà mai giungere. Essi avevano sì accettato, ob torto collo, l’elettronica, ma solamente in un ambito limitato, che si ostinavano a considerare marginale. La conseguenza […] fu la creazione di un piccolo gruppo, denominato Divisione Sistemi […che] rispetto a tutto il resto della Olivetti disponeva di risorse assolutamente insufficienti. […] In sostanza la Olivetti reagiva […] facendo il minimo possibile e lasciandosi trascinare dagli eventi. In senso strategico la straordinaria opportunità della Programma 101 non venne colta. Si sarebbe dovuto disporre di tutto il patrimonio di risorse […] per orientarlo […alla] informatica distribuita.”

Si persero così i cinque anni cruciali nei quali la nuova idea del personal computer venne messa a frutto negli Stati Uniti e l’industria italiana perse un’occasione storica. A posteriori l’ingegner Perotto si chiede se le cose avrebbero potuto andare diversamente, e risponde che se Adriano Olivetti non forse morto prematuramente, la sua capacità di visione non avrebbe permesso che questa grande occasione andasse sprecata. E conclude: “[…] in Olivetti il guaio fu che, dopo l’exploit della Programma 101, non si riuscì a controllare lo sviluppo delle architetture nel campo dell’informatica distribuita. Si sarebbe dovuto, dopo il primo prodotto, far uscire con grande rapidità nuove versioni aggiornate e allargare subito la gamma dei prodotti, in modo da occupare tutti gli spazi, dettando gli standard di fatto del nuovo immenso mercato che si apriva. Ma le risorse mancavano e si dette tutto il tempo ai concorrenti di occuparlo. […] In quegli anni di grandi cambiamenti mi ero sovente chiesto cosa sarebbe successo all’Olivetti se Adriano non fosse prematuramente morto, senza riuscire a portare a compimento il disegno che con tanta lungimiranza aveva impostato. […] Certamente, se fosse sopravvissuto, […] i primi anni ‘60 avrebbero potuto essere gli anni dell’integrazione culturale […con] l’orientamento dei progetti elettronici verso prodotti più vicini agli interessi fondamentali dell’Olivetti, come le tecnologie cominciavano a rendere possibile e come la Programma 101 dimostrò coi fatti. […] Adriano Olivetti aveva cercato di allargare i confini culturali dell’azienda aprendola verso interessi più vasti, tra i quali dominanti erano una urbanistica del territorio, una visione sociale ed una ricerca di valori estetici, assolutamente innovativi nel mondo dell’industria italiano […] Negli anni 60, esattamente come negli anni 90, sembra che la semplice idea dell’impresa il cui fine non é il solo profitto, ma la costruzione di un nuovo scenario e di una nuova architettura di prodotti materiali e immateriali, destinati a migliorare il mondo e non solo a sfruttarlo e a possederlo, stenti ad entrare nella testa dei grandi imprenditori e a diventare la base di una rinnovata cultura d’impresa. […] Adriano soltanto avrebbe avuto l’autorità e il carisma necessari per promuovere una operazione così complessa, che avrebbe dovuto passare attraverso il superamento di tanti interessi di parrocchia e di potere. Se questo si fosse verificato, la Olivetti avrebbe avuto in mano le chiavi per aprire, prima di ogni altra azienda, le porte del nuovo mondo dell’informatica distribuita, democratica e a misura d’uomo.”

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