Sfruttamento del lavoro e caporalato: spunti per una discussione a partire dagli ultimi episodi di cronaca

Maria Teresa Ambrosio esamina le condizioni di lavoro di migliaia di migranti, divenute estreme dopo la pandemia. Dopo aver illustrato gli effetti che l’emergenza sanitaria ed economica ha determinato sull’occupazione dei lavoratori stranieri, non solo nelle campagne, Ambrosio illustra gli esiti (mancati) dell’ultima regolarizzazione sostenendo che tali circostanze moltiplicano le occasioni di azione per il c.d. “caporalato dei servizi” e conclude interrogandosi sulle recenti strategie di contrasto al caporalato sostenendo la necessità di misure strutturali e lungimiranti.

Gli ultimi fatti di cronaca avvenuti nell’aprile scorso nel ghetto di Rignano hanno riportato all’attenzione della società civile il tema dello sfruttamento dei braccianti e del caporalato. Dagli spari di Rosarno nel 2010, alla “caccia all’indiano” nell’Agro Pontino, fino alla “caccia dei neri” nel Gran Ghetto di Foggia, le rinnovate forme di lavoro para-schiavistiche delle società contemporanee sembrano essere portate allo scoperto anche da questi accadimenti.

Le ragioni dell’agguato, che è quasi costato la vita a un bracciante africano colpito in volto da un colpo di fucile (G. Foschini, in la Repubblica, 27 aprile 2020), dovrebbero essere ricercate non tanto nell’atto ritorsivo quanto nella maggiore consapevolezza dei diritti che i migranti, sfruttati e sottopagati, stanno acquisendo anche grazie all’attivismo di numerose associazioni che si adoperano per restituire loro dignità e tutele.

A denunciare l’accaduto è stata la Lega Braccianti, fondata dal sindacalista Aboubakar Soumahoro, lo stesso che ha portato migranti e braccianti a Roma il 18 maggio scorso per lo sciopero degli “invisibili”.

Scopo di queste note è offrire degli spunti di discussione sullo stato attuale delle diseguaglianze sociali ed economiche che neppure la regolarizzazione avviata lo scorso giugno sembra essere riuscita a contenere.

Il lavoro degli “invisibili”. La crisi innescata dalla pandemia da Coronavirus ha colpito molti lavoratori italiani e stranieri in modo particolare le categorie degli autonomi, dei precari e degli “invisibili”; tra questi ultimi, 600mila migranti irregolari il cui lavoro a basso costo è prestato in assenza di standard minimi di tutela necessari a garantire condizioni sociali e lavorative dignitose (M. Villa, ispionline.it, gennaio 2020).

Con l’avvento dell’emergenza sanitaria, le diseguaglianze strutturali tra cittadini e stranieri nel mercato del lavoro si sono aggravate: da un lato è stato registrato un aumento degli sfruttati in quei settori dove il lavoro non poteva essere trasferito online (circa 40-55mila in più nel comparto agricolo; M. Omizzolo, in Centro Studi e Ricerche Idos (a cura di), Dossier Statistico Immigrazione, 2020), dall’altro, molti immigrati che svolgevano un’attività economica nel territorio già prima del 2020 hanno perso il lavoro a seguito delle chiusure selettive resesi necessarie durante il picco dei contagi (ristoranti, alberghi, strutture ricettive in generale). Molte lavoratrici e molti lavoratori stranieri occupati come colf e badanti, inoltre, sono stati sospesi dal lavoro a causa del diffondersi dello smart working, che ha permesso a tanti italiani di prendere direttamente in carico la cura della casa e dei familiari, e della volontà delle stesse famiglie di ridurre il rischio di contagio minimizzando i contatti con persone esterne al nucleo di conviventi (M. Ambrosini, in Mondi migranti, 2020).

La principale conseguenza di tali dinamiche è stata la notevole riduzione dell’occupazione degli stranieri (-10,4% nel 2020 a fronte del -2,8% nel 2019; R. Quaranta et. al., in lavoce.info, 18 maggio 2021) con un’inversione di rotta significativa rispetto alla crisi finanziaria del 2007, che nonostante abbia influito sulle condizioni di lavoro degli immigrati non ne ha pregiudicato l’occupazione né il ruolo di supporto di questi ultimi alla lenta crescita del Paese (W. Chiaromonte, in G. Canavesi (a cura di), Dinamiche del diritto, migrazioni e uguaglianza relazionale, 2019).

La diffusione capillare di forme di lavoro “nero” e “grigio”, peraltro, ha impedito a molti stranieri di beneficiare delle misure di welfare, in particolare dell’indennità Covid-19. Ai braccianti, ad esempio, si richiedeva un certo numero di giornate di lavoro registrate nell’arco dell’anno 2019 che, tuttavia, come da sempre accade, il datore si limita a dichiarare solo successivamente al verificarsi di controlli ispettivi e, comunque, in un numero inferiore a quello delle giornate di lavoro effettivamente svolte, necessarie, invece, per ottenere le misure di sostegno economico.

La pandemia e il primo lockdown hanno avuto un impatto significativo anche sulla diffusione del c.d. “caporalato digitale”. Aumentata la richiesta di servizi di food-delivery, migranti e richiedenti asilo in stato di bisogno, oltre che in forte isolamento sociale, spesso sono stati reclutati come rider per effettuare consegne di cibo a domicilio in un regime di sopraffazione retributivo e in condizioni estreme da un punto di vista della sicurezza e dei ritmi di lavoro. A dare conferma della estensione alle platform work delle condotte di sfruttamento e caporalato è stato il Tribunale di Milano, con decreto del 28 maggio 2020, n. 9. A seguito di un’inchiesta giudiziaria conclusasi nel bel mezzo dello stato di emergenza, il Tribunale ha infatti posto sotto commissariamento la Uber Italy che, attraverso una società di intermediazione di manodopera, procacciava lavoratori tra cui migranti, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza temporanei, ponendo in essere pratiche di sfruttamento lavorativo riconducibili al reato di cui all’art. 603-bis c.p. (L. Bonacini et. al., in Menabò, n. 149/2021).

Intrappolati nella gabbia del “caporalato dei servizi”. La condizione di precarietà delle migliaia di stranieri irregolari non ha trovato risposte significative nella misura di regolarizzazione introdotta dal Governo con il d.l. n. 34/2020. A quasi un anno dall’avvio della sanatoria, il basso numero delle pratiche lavorate (l’11%) e le poche migliaia di permessi di soggiorno ottenuti lasciano nel malcontento coloro che avevano riposto grandi speranze in questa ultima regolarizzazione (W. Chiaromonte, M. D’Onghia, in RGL, 2021). Le ragioni del fallimento (desumibile anche dal numero complessivo delle domande trasmesse, 207mila) sono riconducibili principalmente alla decisione di estendere la sanatoria ai soli settori dell’agricoltura, del lavoro domestico e di cura alla persona lasciando fuori migliaia di irregolari impiegati in altri settori, e alle criticità strutturali delle procedure di emersione (art. 103, co. 1 e 2) che in molti casi hanno scoraggiato datori e irregolari a farne richiesta.

Nel settore agricolo – dove, in particolare, la sanatoria mirava ad arginare le molteplici forme di sfruttamento – la misura è parsa insufficiente (delle 30mila domande pervenute, solo 500 sono andate a buon fine), con esiti non trascurabili sia da un punto di vista sanitario (in assenza di regolarizzazione, gli irregolari non potranno accedere alla campagna vaccinale) sia economico-occupazionale ( le grandi perdite denunciate per la raccolta dello scorso anno non esiteranno a ripetersi se gli uffici competenti non concluderanno il prima possibile la stipula dei contratti di lavoro).

In tale situazione di incertezza e precarietà, durante lo sciopero dello scorso 18 maggio, la Lega braccianti ha rivendicato anche un permesso di soggiorno per motivi sanitari, convertibile in permesso di lavoro, che faciliti l’emersione dei tanti “invisibili” le cui domande di regolarizzazione sono in fase di stallo negli uffici delle prefetture italiane; degli “invisibili” a cui la richiesta di sanatoria è stata rifiutata dai datori di lavoro (deve ricordarsi, a tale proposito, il suicidio di un giovane lavoratore indiano dell’Agro Pontino, Joban Singh, in condizioni di grave sfruttamento lavorativo, che si è tolto la vita dopo il rifiuto da parte del datore alla sua richiesta di emersione; M. Omizzolo, in Equal, 2 dicembre 2020); degli “invisibili” che lavorando “in nero” non erano in possesso della documentazione richiesta per la presentazione della domanda.

Deve aprirsi qui una parentesi sul fenomeno tanto illegale quanto diffuso della compravendita dei permessi di soggiorno, dei contratti di lavoro e di ogni altro documento necessario ai fini della regolarizzazione degli stranieri. L’annuncio di una sanatoria ha dato spesso avvio a tali pratiche che vedono ancora una volta i lavoratori irregolari sottostare alle angherie e ai soprusi di intermediari “informali” e dediti alla criminalità. Questi ultimi, in cambio del reperimento dei documenti necessari alla regolarizzazione, reclamano il pagamento del “servizio” reso, rafforzando quel vincolo di sopraffazione quasi viscerale con gli “invisibili”, sottoposti al ricatto giuridico ed esistenziale innescato dal reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis, d.lgs. n. 286/1998. Il fenomeno è riconducibile al c.d. “caporalato dei servizi” (E. Costantini, in P. Campanella (a cura di), Vite sottocosto, 2019) ossia a quella rete organizzata di attività illegali tipiche dello sfruttamento nella quale restano intrappolati migliaia di lavoratori stranieri, specie se irregolari. Per questi ultimi, il caporale rappresenta spesso l’unica persona di riferimento, che parla la loro stessa lingua, che trova loro un alloggio (i “ghetti” in cui vengono ammassati ne rappresentano l’emblema), che li aiuta (non senza denaro in cambio o con l’imposizione di ritmi lavorativi intensificati) ad ottenere documenti nel Paese di destinazione, che li trasporta (trattenendo denaro dal loro già misero salario) nei luoghi di lavoro addossati in vecchi pulmini nei quali, durante il tragitto, restano vittime di gravi incidenti. Il “caporalato dei servizi” entra così nelle giornate e nelle vite dei lavoratori non fermandosi più al solo reclutamento nelle piazze e nella direzione del lavoro nei campi. Esso va ben oltre, assolvendo a una funzione di controllo generalizzato percepito vantaggioso non solo dai datori ma dagli stessi lavoratori, come unica opportunità di riscatto. Lo sfruttamento, dunque, ha nell’attività di reclutamento illegale solo l’inizio (C. Faleri, Il lavoro agricolo, 2020).

A che punto siamo con il contrasto allo sfruttamento e al caporalato? Dopo la l. n. 199/2016, diverse strategie sono state avviate nella rinnovata lotta allo sfruttamento del lavoro e al caporalato. Tra queste, il Piano triennale (2020-2022) che individua diverse azioni di contrasto grazie alla sinergia di molteplici attori istituzionali, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro del settore agricolo e associazioni del terzo settore che da anni si confrontano sul tema. Tra i principali interventi, l’erogazione di servizi di trasporto adeguati alle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, unitamente alla promozione di soluzioni abitative che permettano condizioni di vita dignitose, potrebbero avere un certo impatto sulla rete del “caporalato dei servizi”.

Maggiori sforzi devono essere invece compiuti sul fronte dei meccanismi di incontro di domanda e offerta della manodopera straniera (G. Bettin et al., in lavoce.info, 18 maggio 2021). A tal fine, il PNRR, presentato dal Governo Draghi nell’aprile scorso, può consentire di trasformare il lavoro sommerso in lavoro regolare con l’introduzione di misure dirette e indirette tra le quali non potrà mancare la programmazione dell’incontro tra domanda e offerta. Apprezzabile, inoltre, è il riferimento ai diversi settori dell’economia: come sopra riferito, l’estensione dello sfruttamento del lavoro anche al food delivery necessita di misure di contrasto mirate al fenomeno insorgente del “caporalato digitale”. Servono, per concludere, soluzioni strutturali e lungimiranti se si vuole restituire dignità al lavoro dei tanti “invisibili” nelle campagne (e non solo).

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