Scissioni e declino dei partiti politici: un problema di exit e voice?

Maurizio Franzini e Eugenio Levi, prendendo spunto dalla recente fuoriuscita di Matteo Renzi dal Partito Democratico, si chiedono se il declino dei partiti politici dipenda da un cortocircuito fra exit e voice, categorie introdotte da Hirschman negli anni ‘70. In particolare, i due autori argomentano che la crescente personalizzazione della politica ha favorito in misura spropositata l’exit dalle organizzazioni politiche a scapito della voice, contribuendo ad aumentare la frammentazione del sistema politico e la sua litigiosità.

L’uscita dal PD di Matteo Renzi e di un consistente drappello di parlamentari per far nascere Italia Viva ha, inevitabilmente, catturato nelle scorse settimane una speciale attenzione. Le caratteristiche personali dell’ex-presidente del Consiglio sono state spesso invocate per spiegare questa scelta scissionista. Non è certo il caso di negare che le caratteristiche personali contano, ma il fenomeno non è certo originale e, soprattutto, le sue cause sono complesse ed è difficile comprenderle senza affrontare il tema del declino dei partiti come organizzazioni politiche. Scopo di queste note è fornire una chiave di lettura del declino dei partiti e delle loro sempre più frequenti scissioni utilizzando le categorie di exit e voice, introdotte da Albert Hirschman e utilizzate proprio per spiegare il declino delle organizzazioni (A. Hirschman, Exit,voice and Loyalty,  1971).

Come è ben noto, secondo Hirschman se l’organizzazione non funziona in modo soddisfacente chi ne fa parte o utilizza i suoi servizi ha sostanzialmente due opzioni per manifestare la propria insoddisfazione. La prima è l’exit, cioè uscire dall’organizzazione cercando altrove quello che l’organizzazione non è in grado di offrire. Nei partiti politici, l’exit si traduce, anzitutto, nella riduzione del numero degli iscritti e dei voti, ma anche in vere e proprie scissioni come quella di Italia Viva, che rappresentano forme più organizzate di exit. L’altra opzione, la voice, racchiude tutte le possibili forme di protesta propositiva indirizzate a segnalare uno stato di insoddisfazione e a suggerire ai dirigenti come ritornare sulla “retta via”. Fra queste annoveriamo la dialettica fra maggioranza e minoranza negli organismi dirigenti del partito e la protesta degli iscritti veicolata attraverso le strutture locali. Riducendola ad una battuta, l’articolata posizione di Hirschman (al riguardo si può vedere M. Franzini, “Voice”, in Parole Chiave, n. 60, 2018) si può così sintetizzare: un bilanciamento adeguato nel ricorso a queste due opzioni consente, in generale, di invertire il declino di un’organizzazione. In particolare, Hirschman temeva che un’eccessiva facilità di exit potesse atrofizzare la voice, che in generale non deve tacere se si vuole che le organizzazioni funzionino bene.

Nei partiti politici di oggi questo bilanciamento sembra mancare e – ecco la nostra tesi – l’exit tende a prevalere, con gli effetti negativi previsti da Hirschman. Il punto di partenza, il fenomeno che merita particolare attenzione nella nostra prospettiva, è la crescente personalizzazione della politica. Per personalizzazione della politica indichiamo una modalità di funzionamento della competizione politica in cui conta molto l’immagine del leader, la sua capacità di trasmettere in qualche modo fiducia e di intrattenere attraverso il mezzo televisivo e, più recentemente, i social media un rapporto diretto con l’elettorato (si veda sul numero precedente del Menabò l’articolo di Novelli sull’uso dei social media nelle recenti elezioni europee).

Una prima considerazione a riguardo è che la personalizzazione della politica ha ridotto la voice delle minoranze interne e ne ha favorito l’exit. I leader hanno contrastato la voice interna per il timore che potesse indebolirli agli occhi degli elettori e per avere le mani più libere sulle alleanze e sulla formazione delle liste per il Parlamento. Le minoranze interne hanno preferito l’exit alla voice perché garantiva una maggiore visibilità pubblica al loro (nuovo) leader rispetto a quella assicurata dal difficile lavoro di minoranza interna.

Un fattore che ha inciso molto sull’affievolirsi della voice delle minoranze è stata la chiusura dei giornali di riferimento nei partiti. Soprattutto nel centrosinistra, c’è stata la fine altamente simbolica delle pubblicazioni de “l’Unità” e di “Europa”. Andando più indietro nel tempo, il confronto con il PCI e la Democrazia Cristiana è impietoso. Il PCI e la DC avevano una batteria di quotidiani e riviste su cui i dirigenti si confrontavano fra di loro sulla linea politica e dialogavano con gli intellettuali di riferimento; ricordiamo “Paese Sera”, “Rinascita”, “Critica Marxista” e “Vie nuove” per il PCI e “Cronache sociali”, “Il Popolo”, “La discussione” e “Concretezza” per la DC.

Oggi i canali di comunicazione sono altri, ad iniziare da Facebook e Twitter. Questi canali, però, non permettono un dialogo strutturato fra esponenti dei gruppi dirigenti, consentendo solo uno scambio di battute e non quella ricchezza di elaborazione politica necessaria all’espressione della voice. Un altro aspetto è il numero esagerato di componenti gli organi direttivi dei partiti. Nel PD, ad esempio, sappiamo che la Direzione politica ha 217 membri e l’assemblea circa 2.000. Decisamente troppi perché il dibattito in quelle sedi possa essere più di una vetrina. Forza Italia non conserva neanche più veri e propri organismi dirigenti del partito, preferendo affidarsi a riunioni informali fra dirigenti di partito e con il capo, Silvio Berlusconi.

Alla riduzione della voice negli organi di partito ha corrisposto un maggiore ricorso all’exit delle minoranze interne, a sua volta favorito dai processi di personalizzazione della politica che destinano alla irrilevanza chi non sia in grado di esprimere una leadership ‘comunicativa’.

L’exit delle minoranze più numerose è stato favorito anche dalle leggi elettorali. Esse, infatti, hanno reso più conveniente, quando la lista della minoranza aveva buone possibilità di superare la soglia di sbarramento elettorale, il tentativo di influire sul proprio partito di riferimento dall’esterno, che, peraltro, aveva maggiori possibilità di successo quando si poteva essere decisivi nella vittoria elettorale prima, e nella tenuta di una eventuale maggioranza, soprattutto al Senato, poi. I danni dell’exit per chi resta, cioè il leader e l’organizzazione tutta, non sono poi molto rilevanti. La leadership può restare intatta o addirittura rafforzarsi; quindi l’uscita degli “avversari” potrebbe essere accolta con favore e per certi versi favorita. La exit delle minoranze permette, in definitiva, un ulteriore accentramento del potere nelle mani del leader.

Di esempi di exit ve ne sono vari, sia a sinistra che a destra dello schieramento politico. Nel PD la scissione di Renzi è solo l’ultimo esempio di una lunga lista. Quando Pierluigi Bersani è diventato segretario, nel 2009, Francesco Rutelli è uscito per fondare l’API. Con l’ascesa di Matteo Renzi, prima si è staccato dal PD il gruppo di Possibile nel 2014, poi Stefano Fassina con alcuni altri dirigenti nello stesso anno e infine il gruppo che si è raccolto attorno all’ex segretario Bersani che ha poi fondato MdP – Articolo 1 nel 2016. Nel centrodestra c’è stata la stessa tendenza: nel 2010 esce dal Popolo delle Libertà Gianfranco Fini, ex-segretario di Alleanza Nazionale, per fondare Futuro e Libertà. Nel 2012 alcuni dirigenti, in gran parte anch’essi provenienti da Alleanza Nazionale – fra i quali gli ex ministri Ignazio La Russa e Giorgia Meloni – escono per fondare Fratelli d’Italia in polemica con la mancata convocazione delle primarie per la leadership. La non contendibilità della leadership sembra anche all’origine sia della scelta di Angelino Alfano nel 2013 di staccarsi da Silvio Berlusconi per fondare il Nuovo Centrodestra (NCD) sia di quella, l’anno seguente, di Raffaele Fitto di fondare Riformisti e Liberali. Sempre con lo stesso argomento, è di poche settimane fa l’ennesima scissione, stavolta capitanata dal governatore della Liguria Giovanni Toti.

Un altro aspetto molto interessante a questo proposito è l’aumento nel numero delle liste civiche alle elezioni locali negli ultimi anni, che spesso riflette fuoriuscite da PD e Forza Italia/Lega e talvolta è il sintomo di una difficoltà delle minoranze interne (o, anche, di forze nuove) a trovare spazio nei partiti. E spesso i candidati fuoriusciti vincono contro quelli di partito.

Possiamo riproporre quello che abbiamo appena argomentato per le minoranze interne anche per gli iscritti? Sostanzialmente sì. Il convincimento del leader che la ricerca del consenso dipenda poco dalla posizione politica del partito e dall’attività di mobilitazione degli aderenti e molto dalla sua personale forza attrattiva nei confronti dell’elettorato ha fatto perdere importanza ai canali di comunicazione – diretti o indiretti (attraverso i dirigenti locali) – fra gli iscritti e la dirigenza nazionale. In parte forse ha inciso anche la tentazione di un rapporto con gli elettori interamente affidato ai media, che consentirebbe di risparmiare sui costi di struttura e di evitare faticose modalità d’organizzazione della partecipazione politica. L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti approvata nel 2014 sembra una certificazione di questo stato di fatto. Né Partito Democratico né Forza Italia hanno mai risolto il problema della funzione dei livelli di base e quello dei poteri degli iscritti, entrambi rimasti prevalentemente limitati all’elezione dei dirigenti locali.

Di fronte a una voice ridotta, agli iscritti spesso non è rimasta altra opzione che la exit. Infatti, nel centrosinistra essi sono diminuiti fortemente: dai quasi 2 milioni e mezzo del PCI nel 1946 (senza contare la DC) si è scesi a circa 400.000 del PD nel 2016. Si sono anche accompagnati, se diamo credibilità al coverage giornalistico sul PD, ad un calo della partecipazione attiva e delle sedi di partito. Per il centrodestra i dati non sono disponibili o sono, comunque, poco affidabili. L’exit degli iscritti non ha però avuto come conseguenza una reazione della dirigenza, esattamente come nel caso della exit delle minoranze interne. I motivi di questa inefficacia dell’exit potrebbero essere due.

Il primo, probabilmente il più rilevante, è che la riduzione nel numero degli iscritti non ha inciso, fino a tempi molto recenti, sulla possibilità di accedere al governo del paese. Il centrosinistra ha governato dal 1996 al 2001, dal 2006 al 2008 e dal 2013 al 2018, mentre Forza Italia lo ha fatto in tutti gli altri intervalli di tempo, in una sorta di pacifica democrazia dell’alternanza. Un’altra spiegazione, più indiretta, è la presenza di un ampio bacino di aderenti estremamente leali (la loyalty di Hirschman). Questo tipo di aderenti potrebbe ritardare la sua exit, da una parte, perché ritiene che proprio nei momenti di difficoltà è necessario rimanere ancorati al proprio partito per evitare che se ne avvantaggino gli avversari politici, dall’altra, perché dalla leadership del partito potrebbero ottenere dei benefici materiali, oltre che un ritorno di tipo ideale. Se il numero di aderenti leali è alto, la exit sarà più debole e più debole sarà anche l’incentivo dei dirigenti a reagire; di conseguenza il declino si aggraverà e diventerà persistente.

L’uscita di Matteo Renzi dal PD, alla luce di queste riflessioni, sembra assumere un’altra veste. Non più la semplice fuoriuscita di un “egocentrico”, ma l’ennesimo riflesso di un cortocircuito fra exit e voice. Italia Viva, in questa chiave, nasce in primo luogo perché nel PD non vive un reale confronto di idee.  Inoltre, il nuovo partito può contare più dal di fuori con la leadership comunicativa di Renzi e con una percentuale elettorale modesta, giocata però strategicamente nel rapporto col Governo e fra forze politiche al Senato, che non dall’interno come corrente di partito. Allo stesso tempo, la leadership di Zingaretti, paradossalmente, si può rafforzare perché perde l’avversario interno più “rumoroso”, e così anche si può spiegare la debolezza dei tentativi da parte dei dirigenti del PD di impedire la scissione.

Le conseguenze per il sistema politico dei meccanismi che abbiamo descritto sono potenzialmente pericolose. Riguardano in primo luogo una perdita di credibilità dei partiti politici come istituzioni.

Nel Rapporto Gli italiani e lo Stato (DEMOS, 2017) i partiti politici figurano all’ultimo posto nella classifica delle istituzioni di cui avere fiducia. Vengono dopo il Papa, le forze dell’ordine, la scuola, il presidente della Repubblica, la Chiesa cattolica, la Magistratura, il Comune, l’Unione Europea, la Regione, le Associazioni degli imprenditori, la CGIL, la CISL e la UIL, lo Stato, le banche e il Parlamento.  In secondo luogo, accentuano una tendenza alla frammentazione del sistema partitico che, combinata con la crescente personalizzazione di cui abbiamo parlato, determina un eccesso di litigiosità e una crescente confusione nel dibattito pubblico. Potremmo definirlo, forse esagerando un po’, l’”effetto pollaio”: tante voci che cercano di sovrastarsi a vicenda, e una crescente difficoltà dei cittadini di distinguere le differenze nelle posizioni dei partiti.

Nonostante questa nota pessimistica, l’inefficacia dell’exit e l’affievolirsi della voice, di fronte alla personalizzazione della politica consentono anche, a nostro parere, di individuare parte delle difficoltà che occorre superare per segnare un cambiamento di rotta rispetto al passato. In primo luogo, sarebbe necessario superare questa fase di personalizzazione della politica ripristinando luoghi di elaborazione collettiva. In secondo luogo, servirebbe pensare a come stimolare la voice di un mondo più largo di possibili simpatizzanti, tornando ad istituire forme di partecipazione collettiva adeguate ai tempi che stiamo vivendo, capaci di catalizzare non solo lo scontento ma anche la proposta e di mobilitarsi per raccogliere un consenso più ampio al proprio partito. Insomma, forme di partecipazione capaci, come suggerisce Hirschman, di “far perdere il sonno” ai dirigenti politici. Così, l’”effetto pollaio” potrebbe attenuarsi e la competizione figlia della frammentazione potrebbe, al contrario, diventare uno stimolo all’innovazione della politica, sia nelle forme della rappresentanza che nella proposta programmatica.

* Queste note riprendono, con aggiornamenti, un nostro più ampio articolo pubblicato sul n. 60 di Parole Chiave.

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