Scienza e diseguaglianza sociale

Massimo Florio osserva che i cittadini finanziano la produzione di conoscenza attraverso la ricerca pubblica, l’istruzione superiore, il sostegno diretto e indiretto alla R&S mentre a valle i benefici sono appropriati, nella forma di valorizzazione del capitale, da oligopoli privati. La redistribuzione regressiva che ne risulta è invisibile perché legata a beni intangibili. Florio sostiene che i risultati della ricerca dovrebbero restare in mano pubblica attraverso imprese pubbliche della conoscenza in settori quali la salute, la transizione energetica, il governo dei dati.

Il tema centrale del mio recente libro “La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli” (Laterza 2021), cui qui attingo, è una constatazione: le politiche di sostegno a università, infrastrutture di ricerca, R&S delle imprese, hanno contribuito alla diseguaglianza attraverso la trasformazione della conoscenza in capitale.

Vediamo alcuni meccanismi di questa appropriazione e perché si tratta di processi che presuppongono sempre delle istituzioni e delle politiche, non sono spontanei equilibri di mercato.

Un primo meccanismo riguarda la legislazione sulla proprietà intellettuale, che stabilisce un monopolio legale sulle sfruttamento economico delle invenzioni, ad esempio tipicamente per venti anni. La finalità dichiarata è quella di tutelare l’inventore. Si ritiene che altrimenti non vi sarebbero incentivi adeguati all’innovazione. E’ una lettura superata della produzione di innovazioni.

Una domanda di brevetto dovrebbe citare eventuali precedenti brevetti su cui l’invenzione si basa, nonché la letteratura scientifica pregressa. Ma queste citazioni hanno un significato limitato nell’epoca storica della produzione di conoscenza su larga scala. La letteratura su una patologia e terapia consiste spesso in migliaia di articoli reperibili nelle banche dati (ad es. PUBMED). Le famiglie di brevetti connessi ad una innovazione significativa possono essere a loro volta migliaia. Il brevetto stabilisce una recinzione legale e crea una rendita, ma di fatto in modo arbitrario stabilisce un rapporto di proprietà intellettuale privata su potenziali innovazioni che hanno molti ascendenti.

Una bella analogia è quella che ho recentemente sentito in un dibattito (“Inventario del Possibile”, Modena, 7 Novembre 2021): è come se in una gara di staffetta la medaglia venisse data solo all’ultimo atleta. Solo che qui la medaglia può essere miliardaria. Il patrimonio personale dell’amministratore delegato e azionista di Moderna (USA), un manager, non uno scienziato, è balzato a cinque miliardi di dollari (Forbes). Eppure Moderna non aveva ricevuto nessuna autorizzazione per un farmaco prima di ottenere sia enormi finanziamenti dal programma Operation Warp Speed gestito dall’agenza pubblica BARDA, sia licenze per tecnologie chiave ideate nei National Institutes of Health (ministero della salute USA), ed infine il pre-acquisto a scatola chiusa del suo vaccino prima ancora che fosse autorizzato.

Un secondo meccanismo è quello delle forniture ad alta intensità tecnologica per il settore pubblico, che sono al cuore del complesso militare-industriale statunitense. I contribuenti hanno finanziato l’innovazione tramite le commesse pubbliche dirette alle imprese e indirette alle università. L’ oligopolio delle Big Defense si è appropriato, grazie a rapporti decennali con il Pentagono, delle conoscenze su radar, telecomunicazioni, internet, satelliti per osservazione terrestre, missilistica, tecnologie aeronautiche, informatica, filiera nucleare ‘dual use’ e molto altro.

Un terzo canale di privatizzazione della conoscenza è la formazione di capitale umano a spese del settore pubblico nei dottorati universitari e nelle infrastrutture di ricerca. Un post-doc in fisica delle particelle viene addestrato in una organizzazione pubblica come il CERN a sviluppare capacità avanzate di analisi dei dati e di soluzione di problemi computazionali complessi, Quando viene poi assunto da un fondo di investimento per occuparsi di modelli di asset management, le sue conoscenze sono in gran parte privatizzate, nonostante siano spesso stati i contribuenti a finanziare dieci o dodici anni di investimento collettivo nella creazione di capitale umano. Un percorso molto costoso volto alla creazione di conoscenza scientifica sfocia nella messa a disposizione di queste rare competenze nella sala gioco delle scommesse finanziarie, con il favore delle alte retribuzioni offerte, della maggiore certezza di prospettive, e della circostanza che in determinati campi di ricerca scientifica l’offerta di brillanti cervelli è maggiore della loro domanda nel settore pubblico o no-profit.

Un quarto meccanismo è la legislazione che consente l’uso di dati raccolti con altre finalità da piattaforme digitali. Siamo così abituati a ritenere ovvio ciò che Amazon, Google, Facebook, Instagram, YouTube fanno con i nostri dati che probabilmente ci sfugge che se questa appropriazione si verifica non perché esse dispongano di una tecnologia superiore a tutti i loro potenziali concorrenti né a causa di una distrazione dei legislatori. Le enormi praterie dei dati personali e industriali sono stati recintati in modo artificioso, conferendo la proprietà degli stessi ad alcune imprese private ma non ad altre attraverso contratti che tutti noi sottoscriviamo con un paio di click senza leggerli e senza che un’autorità pubblica verifichi se i cittadini sono informati su che cosa stanno sottoscrivendo (diversamente da quello che dovrebbe accadere nei servizi a rete regolamentati, come energia o telecomunicazioni).

Infine, un meccanismo controintuitivo, cui ho già accennato, è connesso all’Open Science. Si tratta di una politica che cerca di estendere il principio dell’Open Access alle prassi, alle metodologie e soprattutto ai risultati della ricerca ed è un obiettivo strategico dell’Unione Europea nei finanziamenti che concede alla ricerca. Questo approccio, di per sé animato proprio dall’idea che la conoscenza debba essere considerata un bene pubblico, ha creato un paradosso. Da un lato, l’esistenza di un vasto patrimonio di open science frutto della ricerca di migliaia di università ed enti pubblici di ricerca rappresenterebbe un grande potenziale per accrescere la giustizia sociale. Dall’altro, quel patrimonio può produrre l’effetto contrario: le imprese private che si collocano a valle, grazie agli investimenti in conoscenza già realizzati a monte, con una loro attività di R&S, si appropriano privatamente della conoscenza.

Mi sembra sostenibile che vi sia una relazione fra oligopolio, cioè concentrazione del potere di mercato, e concentrazione della ricchezza sotto il profilo della distribuzione dei patrimoni personali. Secondo uno studio di Credit Suisse (già dieci anni fa) il top 1% dei detentori di patrimoni deteneva il 50% della ricchezza totale del mondo. Forbes ogni anno pubblica una lista dei miliardari nel mondo (per quello che si sa). Nei primi venti posti troviamo diversi fra i campioni dei settori ‘tech’, “telecom” e “media”: Jeff Bezos (Amazon), Bill Gates (Microsoft), Larry Ellison ( software), Mark Zuckerberg (Facebook), Steve Ballmer ( Microsoft), Carlos Slim (Telecom), Larry Page ( Google), Sergey Brin ( Google), Michael Bloomberg ( media), Jack Ma ( e-commerce), Ma Huateng ( internet media). Nella lista Forbes dei fortunati 241 tech billionaires compaiono anche la ex sig.ra Bezos, il cui divorzio nel 2019 dal più noto Jeff le ha garantito un patrimonio personale di 36 miliardi di dollari. Oppure la vedova di Steve Jobs, Laureen Powell, che ha ereditato 16.4 miliardi dal defunto co-fondatore di Apple.

Sotto il profilo dell’equità, in presenza di extraprofitti derivanti da potere di mercato, la soluzione dei manuali ortodossi di economia pubblica è l’imposta sui redditi di monopolio. Ma, secondo OXFAM, globalmente solo il 4 percento delle entrate tributarie dei governi viene dalla tassazione della ricchezza delle persone fisiche e giuridiche. Si può dubitare dell’impegno (preso nel recente G20 di Roma) che una aliquota minima del 15% sui profitti sia applicabile dove il reddito si crea, per la semplice ragione che per molte attività basate su capitale intangibile sarà difficile dire dove sia la giurisdizione rilevante.

Altrettanto mal riposta, temo, sarebbe la speranza nel ruolo della ‘distruzione creatrice’ nei campi high tech, magari con l’aiuto di politiche di regolazione dei mercati. Per quanto nuovi membri possano entrare nel club e qualcuno uscirne, le economia di scala e di varietà delle Tech Giants, delle Big Pharma, ed in altri settori di alta tecnologia, sembrano imbattibili. Politiche della concorrenza estremamente energiche negli anni ’90 del secolo scorso hanno rimescolato gli oligopoli, ad esempio della telefonia o dell’elettricità (peraltro spesso con effetti distributivi regressivi sui piani tariffari), con la formazione di nuovi equilibri oligopolistici, più che con l’affermazione di mercati concorrenziali (ho cercato di dimostrarlo in miei lavori precedenti rispettivamente sulle privatizzazioni britanniche e sulle riforme delle industrie a rete nella UE).

Riassumiamo. Si è creata una tensione fra politiche pubbliche che favoriscono, attraverso vari meccanismi, l’appropriazione della conoscenza da parte delle imprese private e la necessità, da molti condivisa, di contrastare la crescente diseguaglianza nelle nostre società. Meccanismi redistributivi dei redditi ex-post sono inefficaci dato che riguardano principalmente le posizioni relative di chi percepisce redditi di lavoro, mentre al cuore della diseguaglianza vi è la sperequazione fra redditi di lavoro e redditi di capitale (talvolta travestiti da remunerazione dei managers). Politiche della concorrenza sembrano pure inefficaci.

I cittadini in larga misura finanziano con le imposte la produzione di conoscenza attraverso la spesa pubblica per la ricerca scientifica, per l’istruzione, per il sostegno diretto e indiretto alla R&S delle imprese. A fronte di questi costi sociali, i benefici finiscono con l’essere catturati in larga misura nella forma di valorizzazione del capitale di imprese oligopolistiche private. E’ all’opera una redistribuzione regressiva, invisibile perché legata a beni intangibili, difficile da stimare, ma significativa.

Se si tenta di combinare politiche con obiettivi molto diversi si finisce in un ginepraio. Ad esempio, se si concede alle imprese farmaceutiche di usufruire senza condizioni della ricerca pubblica, della formazione dei ricercatori nelle infrastrutture scientifiche pubbliche e nelle università, di finanziamenti diretti e sconti fiscali per la loro parte di spese di R&S, ed in più si concede loro il monopolio legale per venti anni sui farmaci, diventa poco fattibile a quel punto cercare di indebolirne potere di mercato e profittabilità con politiche ex-post. Sembra non esservi alternativa ad un mondo dominato da Tech Giants, Big Parma, Top Defense, ecc. nel quale, peraltro, non sono tramontati i vecchi oligopoli della finanza, dell’energia, della grande distribuzione.

Un’alternativa nell’arsenale della politica economica potrebbe, però, esistere. Si tratterebbe di riscoprire l’idea dell’impresa pubblica e ibridarla con quella di infrastruttura di ricerca: un nuovo tipo di impresa come polo della creazione di conoscenza. Questo tipo di organizzazione dovrebbe gestire come proprietà sociale il capitale intangibile derivante dalla ricerca pubblica in alcuni campi, creando un portafoglio di progetti i cui ritorni alimentino un fondo destinato sia a reinvestire nella stessa ricerca sia a realizzare programmi sociali di promozione della uguaglianza nell’accesso alle nuove conoscenze.

A questo scopo propongo nel libro una strategia che restituisca ai cittadini i benefici di ciò che essi stessi hanno contributo a creare. Sviluppando una idea maturata nel Forum Diseguaglianze e Diversità, si possono immaginare grandi progetti sovranazionali nei campi rispettivamente della ricerca biomedica, delle tecnologie per la transizione ecologica, per il governo dei Big Data. Progetti che creino, su un orizzonte di lungo periodo e con investimenti significativi, nuove imprese pubbliche per promuovere le innovazioni dirompenti nei farmaci e nei vaccini, nell’energia e nella produzione sostenibile, nelle piattaforme digitali e le restituiscano dal pubblico al pubblico, dal cittadino contribuente al cittadino utente, senza l’intermediazione degli oligopoli. Si può immaginare che alcune imprese private possano anche essere invitate a collaborare a questi progetti, soprattutto nei campi in cui altrimenti non interverrebbero, ma senza consentire loro di intestarsi la proprietà dell’intelligenza collettiva. Il libro espone in dettaglio queste proposte, nella speranza che se ne possa, almeno, discutere.

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