Schiavitù moderna: la difficile misurazione di un drammatico problema

Teresa Barbieri e Francesco Bloise esaminano il recente Global Slavery Index, un rapporto che ci accompagna nei luoghi dove esiste ancora oggi l’orrore della schiavitù. Dopo avere ricordato quale sia la definizione di schiavitù adottata nel Rapporto, Barbieri e Bloise riportano i dati sulla sua distribuzione geografica e, soprattutto, si soffermano sulla stima contenuta nel Rapporto secondo cui gli schiavi oggi sarebbero 36 milioni e illustrano alcune debolezze di tale stima sotto il profilo dell’affidabilità metodologica.

Nel 2012 un curioso quanto drammatico fatto sale alla ribalta delle cronache mondiali quando una giovane donna newyorkese, all’interno della borsa appena acquistata in una lussuosa boutique della fifth avenue, trova uno strano biglietto: “Aiuto, qui ci trattano come schiavi”. E’ la disperata supplica di un ragazzo cinese, costretto ai lavori forzati per produrre capi d’abbigliamento destinati ai mercati occidentali. Quest’aneddoto è singolare, ma non è, purtroppo, singolare la situazione che ha portato a scrivere la drammatica missiva: la schiavitù, nonostante sia stata dichiarata illegale in quasi tutti i paesi del mondo, è un’aberrazione che permane, anche laddove meno ci aspetteremmo di trovarla.

Nel 2014 ha provocato scalpore il Global Slavery Index , un Rapporto pubblicato dall’organizzazione non governativa australiana The Walk Free Foundation (WFF),  secondo cui i nuovi schiavi nel mondo sarebbero circa 36 milioni.  Tra coloro che hanno incoraggiato a misurare il fenomeno c’è addirittura Bill Gates, il quale ha sostenuto che il problema “se non lo misuri, non esiste”. Per il calcolo dell’indice, lo schiavo “moderno” è definito come un individuo privato della libertà individuale a scopo di sfruttamento.  Le pratiche annoverate come schiavistiche sono molteplici: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, la privazione della libertà per debiti, il matrimonio forzato, lo sfruttamento sessuale, la vendita e lo sfruttamento dei bambini. Fornire una misura quantitativa affidabile della schiavitù moderna è un’impresa tutt’altro che semplice – considerando che si tratta di un fenomeno “nascosto”, difficilmente individuabile e quasi mai segnalato o denunciato – e anche per questo esposta a critiche.  Piuttosto feroci sono state, ad esempio, le critiche contenute in un articolo del The Guardian e che  riguardano, tra l’altro,  la definizione adottata dallo studio dell’Organizzazione australiana che sarebbe generica e che,  oltre a cambiare da un anno all’altro, non permetterebbe di dare solide basi alla quantificazione e alla comprensione del fenomeno.

Ma analizziamo meglio i contenuti del Rapporto. I paesi esaminati sono 167, Italia compresa, e gli schiavi nel mondo sarebbero 35,8 milioni sparsi in tutti i continenti, nessuno escluso.

La tabella 1 mostra i dieci paesi con il più alto numero assoluto di schiavi, nei quali complessivamente risiede il 71% delle persone ridotte in schiavitù. Ad aggiudicarsi il triste primato di paese con il maggior numero di schiavi è l’India, con 14 milioni di persone sottoposte a sfruttamento. Seguono la Cina con 3,24 milioni di schiavi e il Pakistan con 2 milioni. In questa mesta classifica, in quinta posizione, troviamo, con 1,05 milioni di schiavi, la Russia che, secondo il rapporto, rappresenta un centro nevralgico nella complessa rete dello sfruttamento e del traffico di esseri umani.

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Se guardiamo invece alle persone schiavizzate in proporzione alla popolazione totale, la classifica cambia (tabella 2). Adesso al primo posto troviamo la Mauritania dove, per effetto di un sistema profondamente radicato di schiavitù ereditaria, si stima che il 4% della popolazione viva in stato di schiavitù, seguita dall’Uzbekistan con il 3,9% e Haiti, il paese più povero del continente americano, con il 2,3%.

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Secondo il Rapporto, l’Italia è al 151° posto, dopo gli Stati Uniti e prima della Germania, con 11.400 persone ridotte in stato di schiavitù, circa lo 0,019% della popolazione. L’Italia è ventesima nella classifica Europea che vede in testa perlopiù paesi dell’Europa dell’est: la Bulgaria è prima con lo 0,38%, seguita da Repubblica Ceca (0.36) e Ungheria (0.36).

La metodologia utilizzata all’interno del Global slavery index report per la stima dell’incidenza della schiavitù nei diversi paesi si basa su 4 fasi principali: 1) la ricerca e l’identificazione di stime per la schiavitù da fonti esterne; 2) l’utilizzo di indagini campionarie su porzioni di popolazione estratte casualmente; 3) l’ottenimento di indicatori per tutti i 167 paesi inclusi nell’analisi a partire dalle indagini sui paesi disponibili e tramite un processo di estrapolazione; 4) il controllo dettagliato sulle statistiche finali a livello di singolo paese.

Per le stime ottenute, basate su indagini esterne, sono stati utilizzati soltanto dati ritenuti “di qualità”, ossia, secondo quanto specificato nel Rapporto, estratti da fonti primarie che includono una descrizione esplicita della metodologia utilizzata, oppure da indagini amministrative. Nel 2014 la WFF ha condotto altre indagini specifiche su 7 paesi: Brasile, Etiopia, Indonesia, Nepal, Nigeria, Russia e Pakistan. Inoltre, per ottenere dati sull’Arabia Saudita, Malesia e Qatar, sono stati intervistati lavoratori provenienti da Nepal ed Etiopia che in quei paesi sono state vittime di forme di schiavitù. In generale, la metodologia usata prevede la formulazione di domande specifiche come le seguenti: “Un datore di lavoro ha mai costretto Lei o qualcuno della sua famiglia a lavorare?”; “Un datore di lavoro ha mai costretto Lei o qualcuno della sua famiglia a lavorare per ripagare un debito?”; “Lei o qualcuno della sua famiglia è stato mai costretto a svolgere un lavoro differente da quello che era stato inizialmente offerto, senza possibilità di abbandonarlo?”; “Lei o qualcuno della sua famiglia, è mai stato costretto a sposarsi?”. Dal punto di vista prettamente metodologico, l’indagine è stata condotta sulla popolazione civile non istituzionalizzata di almeno 15 anni, selezionando campioni il più possibile rappresentativi della popolazione totale. Successive procedure di controllo hanno, assicurato che i campioni e gli individui all’interno della famiglia fossero stati selezionati in maniera casuale.

L’insieme dei dati ottenuti da fonti esterne e dalle indagini della WFF non sono, tuttavia, in grado di coprire la totalità dei 167 paesi inclusi nel Rapporto. Si sono quindi utilizzate delle procedure di estrapolazione a partire dalle statistiche a disposizione per coprire l’intero campione di paesi. L’estrapolazione è stata effettuata dividendo i diversi paesi in 6 gruppi diversi per il livello medio di vulnerabilità e per alcune caratteristiche geografiche. Per misurare la vulnerabilità, sono state prese in considerazione 5 differenti macro-dimensioni: politiche indirizzate alla riduzione del numero di individui in condizioni di moderna schiavitù, diritti umani, grado di sviluppo, stabilità all’interno dello stato e discriminazione. Queste 5 dimensioni comprendono, al loro interno, un totale di 37 variabili, tra le quali spiccano l’indice di sviluppo umano, il grado di alfabetizzazione, l’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, indicatori del livello di corruzione, grado di accesso alle armi e diritti dei lavoratori.

I dati e le stime presentati nel Rapporto sono stati oggetto di diverse critiche, spesso anche impietose, in merito alle metodologie utilizzate per la loro costruzione. Sempre il The Guardian ha definito la metodologia usata addirittura “assurda” e si è lanciato in un’invettiva contro lo scarso rigore delle procedure implementate. In particolare, al giornale britannico appare piuttosto bizzarra la decisione di produrre statistiche su 167 paesi pur disponendo soltanto di rilevazioni basate su indagini condotte in 10 paesi, unite a dati estratti da fonti esterne per altri 9 paesi. Le stime prodotte non sarebbero dunque robuste, ma basate su estrapolazioni caratterizzate da un ampio grado di arbitrarietà.

È stata, inoltre, ampiamente criticata la scelta di raggruppare i diversi paesi in sei gruppi, poiché ritenuta scientificamente non rigorosa, se non addirittura arbitraria. Appaiono per lo meno curiose le scelte di inserire l’Egitto nel raggruppamento dei paesi ad “alto reddito”, o di considerare identica la percentuale di schiavi in paesi molto diversi come la Thailandia e il Brunei. La Cina, invece, i cui dati, come riconosciuto dal Rapporto, sono scarsi e poco affidabili, è stata inserita in un raggruppamento di paesi asiatici come Corea del sud, Giappone e Taiwan con cui avrebbe, secondo il The Guardian, ben poche similitudini. In sintesi, le statistiche del Rapporto sarebbero inaffidabili, diffuse più per ragioni di “sensazionalismo” e con lo scopo di accaparrarsi consensi e accesso senza restrizioni all’elite mondiale della filantropia: “da Clinton a Blair, da Bono a Branson”. Secondo il The Guardian le conseguenze dell’ampia diffusione dell’indice possono essere non di poco conto. Il Rapporto non si interroga minimamente sui reali meccanismi che portano al perpetuarsi dello sfruttamento e di forme di para-schiavismo e abbraccia una visione secondo cui la schiavitù riguarda solo “cattive persone che fanno cose cattive a persone buone” con il risultato di “mantenere in piedi l’esistente struttura della disuguaglianza”.  In realtà, occorre tenere presente che la schiavitù è difficile da estirpare poiché, oggi come ieri, rappresenta un vero e proprio business: secondo l’International Labour Organization (ILO), i profitti derivanti dal lavoro forzato sono di circa 150 miliardi di dollari ogni anno.

In conclusione, sebbene possa risultare antica ed evocare eventi lontani oramai secoli, la parola “schiavitù”  è drammaticamente attuale.  Persone considerate proprietà di altre persone, oggetti e non soggetti di diritti, esistono ancora e non vivono solo in paesi remoti e sconvolti da guerra e povertà. Anche in Italia si sente parlare di nuove forme di schiavitù, le cui vittime sono soprattutto segmenti della popolazione straniera. Un solo esempio: pochi giorni fa è iniziata con questa frase la presentazione del libro “Ghetto Italia – I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento “scritto dal leader della rivolta nel ghetto di Nardò contro il caporalato nel 2011: “Nonostante la schiavitù sia stata abolita, persistono nelle campagne italiane schiavi e schiavisti che in silenzio e nascosti da tutti rendono il lavoro una realtà parallela al sistema italiano”. Come persistono Rosarno e i suoi schiavi invisibili, i braccianti indiani della provincia di Latina drogati per lavorare o le cinquemila donne rumene che lavorano nei campi di Ragusa e vivono segregate subendo ogni genere di violenza, sessuale e psicologica. Forse, dunque, non è del tutto corretta l’affermazione di Bill Gates secondo cui se non misuri il problema, questo non esiste. Il problema, purtroppo, esiste anche se la metodologia per definirlo e misurarlo non è (ancora) rigorosa.

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