Sarà un robot (o un computer) che ci sostituirà? Un’analisi della relazione tra dinamica occupazionale e routinarietà delle mansioni

Valentina Gualtieri, Dario Guarascio e Roberto Quaranta analizzano la relazione tra dinamica occupazionale delle diverse professioni, natura delle mansioni intesa come loro maggiore o minore ‘routinarietà’ e andamento economico dei settori nei quali si distribuiscono le diverse professioni. Utilizzando provenienti da Istat, Inapp e dal database AIDA bureau Van Dijk, gli autori mostrano che le professioni caratterizzate da una prevalenza di mansioni routinarie tendono a essere penalizzate in termini di dinamica occupazionale.

Secondo un’ipotesi ampiamente confermata dalla letteratura, il cambiamento tecnologico tende a incidere sulla quantità e sulla qualità dell’occupazione in modo asimmetrico.Le professioni caratterizzate da mansioni manuali e/o cognitive di tipo ‘routinario’ – i.e. facilmente codificabili e replicabili da dispositivi meccanici ed elettronici -sono maggiormente esposte al rischio di essere sostituite dalle macchine e dalle innovazioni di processo. Al contrario, le professioni connotate da mansioni ad alto tasso di creatività e/o di destrezza si caratterizzano per un minor rischio di sostituzione, ma anche – data la (potenziale) complementarità tra nuove tecnologie e tale tipologia di mansioni – per un incremento della domanda loro rivolta.

L’effetto del cambiamento tecnologico sull’occupazione è tuttavia mediato in modo rilevante dalle condizioni economiche e strutturali che contraddistinguono le diverse economie. In un contesto di crescita economica debole, l’incertezza circa i flussi di domanda futuri può ridurre la propensione degli imprenditori ad investire ritardando l’introduzione di innovazioni tecnologiche. Al contempo, una specializzazione produttiva con prevalenza di settori a bassa intensità tecnologica o  la presenza di rigidità nel sistema del credito potrebbero sfavorire il rinnovamento tecnologico delle imprese riducendo la probabilità di disoccupazione tecnologica (ma acuendo, al contempo, il rischio di disoccupazione ‘non tecnologica’, ovvero il rischio di distruzione di posti di lavoro connessa alla minore competitività delle imprese che non attivano un processo rinnovamento strutturale e tecnologico).Se, infine, la crescita fosse trainata da flussi di domanda orientati verso settori a bassa intensità tecnologica (in un contesto poco propenso all’innovazione), potrebbe risultare favorita l’occupazione in professioni caratterizzate da mansioni ripetitive e da basse competenze, nonostante le evoluzioni tecnologiche correnti tendano ad esporre quelle stesse professioni al rischio di sostituzione.

Per analizzare in modo più accurato la relazione tra cambiamento tecnologico e lavoro – in particolare per ciò che concerne il rischio di perdita di posti di lavoro e/o la possibilità che mutino in modo sostanziale composizione e qualità della struttura occupazionale – è dunque necessario tener conto in modo dettagliato delle caratteristiche dell’offerta (con particolare riferimento ai contenuti del lavoro e alle caratteristiche individuali dei lavoratori); della domanda (dinamica economica osservata a livello di impresa e settore e caratteristiche strutturali dell’economia) e delle istituzioni del mercato del lavoro (tipologie contrattuali, ecc…)

Questo articolo si basa su un recente policy brief INAPP e prosegue l’analisi proposta dagli autori in un numero precedente del Menabò discutendo i risultati di uno studio che esamina il legame tradinamica occupazionale a livello di categoria professionale (le professioni sono analizzate ad un elevato livello di disaggregazione coincidente con il 4° digit della Classificazione Istat delle professioni);natura delle mansioni (grado di maggiore/minore routinarietà manuale e cognitiva delle stesse mansioni); caratteristiche dei lavoratori e delle tipologie contrattuali; e dinamica economica (domanda, investimenti e spese in R&S) dei settori ove le singole professioni si collocano. L’analisi è sviluppata su una ricca base informativa ottenuta integrando più fonti e beneficia della disponibilità di variabili relative alla natura delle mansioni che caratterizzano ciascuna professione italiana così come identificata dalla Classificazione delle Professioni Istat (CP2011-4° digit). Ciò dà la possibilità di distinguere e analizzare le professioni italiane, considerando il ‘vero’ oggetto della potenziale sostituzione da parte delle macchine: le mansioni, ed in particolare quelle caratterizzate da un elevato grado di ripetitività.

Figura 1. Variazione dell’occupazione e delle quote sul totale

Anni 2011-2016 – High, medium e low

 

Nel periodo 2011-2016, l’occupazione italiana si è caratterizzata per una significativa polarizzazione. Considerando livello di competenza richiesto alla singola professione, si osserva, nel periodo 2011-2016, la crescita delle professioni ad alta e bassa specializzazione (high e low-skill) e la diminuzione di quelle a media specializzazione (medium skill)(Fig. 1). In termini di struttura, i lavoratori high e low-skilled mostrano un analogo incremento delle rispettive quote sul totale dell’occupazione; mentre la quota dei medium-skilled mostra una marcata contrazione, in continuità con l’evidenza precedente.

Figura 2. Variazione dell’occupazione per quintile della distribuzione del RTI

Anni 2011-2016

Se analizziamo la dinamica occupazionale considerando il grado di maggiore/minore ripetitività delle mansioni,il quadro sembra, invece, cambiare. La figura 2, che fornisce una rappresentazione della relazione tra dinamica dell’occupazione (2011-2016) e grado di routinarietà delle mansioni che caratterizzano le singole professioni, riporta il tasso di variazione dell’occupazione totale per quintile della distribuzione del RTI (indicatore proposto da Autor e Dorn e che consente di distinguere le professioni per intensità relativa di mansioni ‘routinarie’). I dati mostrano come all’aumentare del grado di routinarietà delle mansioni si passa da variazioni occupazionali positive a negative. Le professioni afferenti ai primi tre quintili della distribuzione del RTI (bassa o media presenza di mansioni routinarie), infatti, tendono a crescere (il tasso più alto si registra per le professioni che ricadono nel 2° quintile).Di converso, le professioni con una prevalenza di mansioni ripetitive e codificabili (che ricadono nel 4° e 5° quintile) decrescono significativamente nello stesso periodo.

L’analisi descrittiva mette dunque in luce una correlazione negativa tra il grado di routinarietà delle mansioni e la dinamica occupazionale delle professioni. Per avere una cognizione più precisa (e più aderente alla realtà del sistema produttivo italiano) delle professioni caratterizzate da un’elevata presenza di mansioni di tipo ‘routinario’, la tabella 1i riporta la lista delle prime 10 professioni per intensità dell’indicatore RTI.

 

Tabella 1. Prime dieci professioni per intensità dell’indicatore RTI

I dati mettono in luce come le professioni con un elevato valore dell’indicatore RTI (elevata routinarietà delle mansioni)operano in contesti produttivi ove: i) le operazioni umane tendono ad essere altamente ripetitive e predeterminate; ii) la tecnologia si contraddistingue per una propensione elevata (e crescente) all’automazione. E´ rilevante notare, tuttavia,come sia la dinamica occupazionale sia quella delle retribuzioni mediane si contraddistinguano per un significativo grado di eterogeneità tra le diverse professioni non mostrando una netta correlazione con il grado di routinarietà delle mansioni. Tale evidenza conferma come in presenza di fenomeni complessi quale il legame tra cambiamento tecnologico e occupazione, le analisi aggregate abbiano bisogno di indagini supplementari che consentano di esplorare in modo capillare la struttura occupazionale.

Al fine diverificare la robustezza delle relazioni osservate dalle analisi descrittive, è stato stimato un modello econometrico (per approfondire i dettagli metodologici, si veda il Policy brief INAPP 7/2018)per studiare il legame lineare tra variazione dell’occupazione nelle professioni (al 4°digit) all’interno di macro categorie settoriali e il grado di routinarietà delle mansioni, controllando per un ampio numero di informazioni di contesto (la variazione dell’occupazione al tempo precedente, la variazione del salario mediano della professione al tempo precedente, le quote di donne, giovani, laureati e lavoratori con contratto temporaneo in quella professione osservati al tempo precedente, la variazione dei ricavi totali, gli investimenti in capitale fisico ed in R&S registrati nei settori ove la professione osservata va a distribuirsi).Nella tabella 2 si riportano 4 specificazioni del medesimo modello econometrico: la prima concerne la stima della variazione dell’occupazione nel periodo 2011-2016 rispetto al solo indicatore RTI – variabile indicatrice che discrimina tra professioni con mansioni ad alta routinarietà (professioni che ricadono nel 4° e 5° quintile della distribuzione) – e le altre professioni; le successive tre specificazione concernono l’inserimento graduale di controlli individuali (quota di donne, giovani, laureati e lavoratori temporanei nella professione di riferimento), controlli settoriali (tasso di variazione del salario mediano, dei ricavi, degli investimenti e della spesa in R&S) e dummies temporali e macro-settoriali.

Il ruolo negativo giocato dalle mansioni altamente routinarie nello spiegare la dinamica occupazionale delle professioni è confermato anche dall’analisi econometrica. Il coefficiente associato alla variabile RTI risulta negativo e statisticamente significativo a prescindere dalla specificazione proposta.

 

Tabella 2. Stime Pooled-OLS: tasso di variazione dell’occupazione (2011-2016) vs RTI

In conclusione, l’analisi realizzata ha messo in evidenza, in termini descrittivi, una tendenza alla polarizzazione dell’occupazione italiana confermando, peraltro, evidenze precedenti come quelle diFernandez-Maciase Cirillo (Fernandez-Macias, E. (2012). Job polarization in Europe? Changes in the employment structure and job quality, 1995-2007. Work and Occupations, 39(2), 157-182; Cirillo, V. (2016). Employment polarisation in European industries. International Labour Review).I risultati dell’esercizio econometrico, inoltre, hanno evidenziato che un’elevata incidenza di mansioni ad alta routinarietà – siano esse manuali o cognitive – tenda a penalizzare, in termini di volume occupazionale, le professioni che si caratterizzano per quel tipo di mansioni. L’impatto negativo della routinarietà delle mansioni sulla dinamica occupazionale delle professioni mantiene una buona significatività statistica, a fronte del largo numero di controlli individuali e settoriali inclusi nel modello, avvalorando la robustezza del risultato ottenuto.Le evidenze emerse dalle analisi sin qui condotte sembrano supportare le tesi di chi preconizza il rischio di una vasta sostituzione di lavoro umano da parte delle macchine. Per cogliere la reale portata di tale rischio, tuttavia, è necessario approfondire ulteriormente l’analisi esplicitando in modo più dettagliato il ruolo della tecnologia nonché quello del contesto strutturale e macroeconomico nello spiegare la dinamica occupazionale e la relazione tecnologia-occupazione.

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