Roma Capitale? Fermi, a 20 metri dal Colosseo

Giovanni Caudo racconta, al di là delle ritualità, la condizione di Roma Capitale partendo da una vicenda relativa all’area intorno al Colosseo che mette in luce sia le ambizioni dell’élite che decise di fare di Roma la capitale del Regno, che gli impedimenti alla compiuta realizzazione di quelle ambizioni. Caudo sostiene che occorre partire da qui per affrontare la crisi di una città che sembra aver perso il suo senso e che il modo migliore per festeggiare i 150 anni di Roma Capitale consisterebbe proprio nel ridare senso al suo essere Capitale.

20 marzo 2017. Colosseo: ubriaco alla guida si schianta contro il muretto del belvedere e lo distrugge

Incidente attorno alle 5.00 di questa mattina al belvedere del Colosseo, dove un uomo ubriaco si è schiantato contro unauto in sosta finendo la sua corsa contro un muretto, fortunatamente senza ferire nessuno.(www.fanpage.it)

Le cinque di mattina, una macchina con un conducente ubriaco corre veloce lungo via degli Annibaldi che nonostante l’andamento diritto come una spada e il fuori misura della sua larghezza, si esaurisce all’improvviso a pochi metri da un muretto di tufo e da qualche tratto di recinzione simili a quelle delle aree pic-nic. La macchina abbatte un tratto di muro e si affaccia sul vuoto, si ferma a venti metri dal Colosseo.

Via degli Annibaldi è una strada che sembra costruita per portare al Colosseo, che si staglia imponente nel fondale nonostante se ne scorga solo la metà superiore, e invece no, la sua corsa finisce cinquantacinque metri prima del muretto di tufo di quello che il giornale ha battezzato come il “belvedere del Colosseo”. Un interstizio che si fa luogo per tutti i turisti che si portano via “la foto ricordo”, quella con lo sfondo del Colosseo. Scattata in quello spiazzo dove inizia via Salvi e dove, grazie alla differenza di quota, si ha la giusta proporzione tra la persona e la mole del Colosseo, perfetta tanto più per i selfie. Via Annibaldi non porta al Colosseo, si ferma prima della zona selfie. E’ l’esito di un progetto interrotto e mai più ripreso.

La storia comincia nel 1895 quando il Comune su progetto di Lanciani avvia il proseguimento di via dei Serpenti con un taglio inferto al Colle Oppio e costruisce via degli Annibaldi. Il ministro Baccelli, venuto a sapere del progetto chiede all’assessore all’urbanistica del Comune, ing. De Angelis, il progetto per verificarne la coerenza con il piano di assetto che stava predisponendo la commissione istituita con la legge del Regno d’Italia del 1887, il progetto del Comune concordato con il Lanciani si arrestava a 75 metri prima del Colosseo “da permettere lo scavo intorno a questo largo metri 20 e lasciare altri 55 metri di spazio per i raccordi tra la via del Colosseo e la via Labicana il cui studio si farà a suo tempo di concerto con codesto Ministero”. Studio che non fu mai definito e da allora via degli Annibaldi si lancia dritta e larga sul belvedere, mentre l’antica via del Colosseo nessuno la conosce e la frequenta più e i turisti si affacciano da uno slargo la cui sistemazione provvisoria, in attesa di concordare il progetto per la sua migliore sistemazione, sta diventando eterna. Piccola storia rivelatrice di quanto sia difficile, fin dalle origini della costruzione della Capitale, il rapporto tra Roma, lo Stato e la memoria.

Quello delle strade e del Colosseo è un rapporto costitutivo di Roma Capitale, evidentemente la sua mole imponente ne faceva facilmente un simbolo da inserire nella nuova scena urbana. Sempre sul colle Oppio, poco più in là di via degli Annibaldi, c’è via delle Terme di Tito in asse con il diametro piccolo della “rota colisei” (Rossella Rea (a cura di), “Rota Colisei, la Valle del Colosseo attraverso i secoli”, Electa 2002, pp.90-91) ma sempre in quota, sul colle. Sono dei frammenti del disegno auspicato nel piano regolatore del 1883, una estensione della griglia sabauda del quartiere più importante e per questo intestato al Re, il quartiere Vittorio Emanuele, che copriva anche il Celio, oltre via di San Giovanni e fino a via Claudia che ne costituiva il bordo. Oltre, il resto del Celio era destinato a parco e posto dentro al perimetro della Passeggiata Archeologica.

Nei cinquantacinque metri, oltre i venti dello scavo intorno al Colosseo, doveva esserci una sistemazione forse simile a quella realizzata a Piazza del Popolo, rampe con lo scopo di raccordare il fondo valle con il monte, la via Labicana con la via del Colosseo, una continuità di percorso da ovest verso est che probabilmente c’è sempre stata, forse per aggirare il pantano d’acqua.

Nella costruzione di Roma Capitale l’edificato si è strutturato per aggiramento del Colosseo e lungo le direttrici della valle. Attorno al Colosseo c’è una continua tensione tra alto e basso tra fondovalle e colli, tra soglie e stanze ed è da lì che prende forma la Roma Capitale, un luogo irrisolto, metafora quasi della condizione della Capitale.

Eppure l’inizio era stato di tutt’altro segno, il 2 ottobre 1870 al referendum popolare indetto per dare ai romani l’ultima parola sulla scelta d’insediare la capitale nella città eterna il risultato fu inequivocabile, gli aventi diritto al voto erano 45 mila, votarono in poco più di 41 mila, i no furono solo 46. Roma, che per poco più di mille anni (dal 752 al 1870) era stata capitale del cattolicesimo e del suo potere temporale, si concesse totalmente alla nuova avventura. La nuova capitale d’Italia era una città dalla grande forza simbolica. Nel corso dei secoli la corte papale si era curata di abbellirla ma l’aveva anche tagliata fuori dai fervori del cambiamento che attraversavano l’Europa. Tra il 1447, anno della elezione al soglio pontificio di Niccolò V, e il 1870, erano trascorsi i 400 anni più splendidi della città in cui è stato costruito tutto ciò che fa la sua sconvolgente bellezza. Ma, in questi stessi anni, la popolazione è rimasta sempre intorno ai 170/200 mila abitanti.

Quando Roma divenne capitale contava poco più di 200 mila abitanti. Parigi e Londra nel 1871 erano da secoli capitali di due regni, due imperi, forti e saldi; Londra aveva 3,2 milioni di abitanti (più di quanti ne abbia oggi Roma), nel 1801 erano 960 mila; Parigi 1,8 milioni (Roma li raggiungerà solo nel 1956) e nel 1801 ne contava 550 mila; anche San Pietroburgo era più grande, contava quasi 700 mila abitanti. La superficie costruita nel 1870 era di appena 383 ettari (più o meno l’ansa di Campo Marzio), mentre Parigi si estendeva già su quasi 6 mila ettari.

Roma divenne capitale per l’aspirazione ideale di una élite culturale risorgimentale e attorno a questa sono cresciute per decenni le fortune del Paese ma anche quelle di una variegata moltitudine di personaggi (politicanti, palazzinari, pretonzoli e parvenu). Minore eco ebbe già allora e anche dopo, la voce di chi invece sosteneva che costringere Roma a diventare capitale significava distruggere la città, una città-mondo che veniva degradata a capitale di un regno. “In difesa di Roma contro la sua presente distruzione” si sollevarono le parole dello storico del Medio Evo Gregorovius, ma forse più significative appaiono oggi le motivazioni addotte dal Grimm quando sceglie di rivolgere il suo scritto su “La distruzione di Roma” non ai romani che «però han dovuto piegare il capo e cessare la lotta» davanti allalta necessità che domandava il sacrificio di Roma, ma ai cittadini di Roma che sono nel mondo, quelli sparsi in tutti i paesi: «Tutto quello chio posso fare è dinformarli delle cose che qui accadono. Ciascuno di essi, a mio credere, sarebbe non in diritto solamente, ma in dovere di far opposizione. Chi sa che non si formi una corrente di opinione pubblica, capace di fermare la distruzione della città. Rivolgersi ai Romani stessi, lo ripeto sarebbe inutile» (Ermanno Grimm, La distruzione di Roma, Firenze, 1886). Un appello al mondo contro l’agitazione che avvolse Roma e che prese il posto dell’antica quiete, perché «Roma rappresenta per la umanità moderna un valore morale, che non è facile determinare esattamente, ma che appunto per essere ideale soltanto, è non meno prezioso, e, per quanto ciò possa dirsi di cose terrene, tale da non potersene fare a meno». Ma nella “distruzione di Roma”, la dimensione del mondo convive e si intreccia con l’Italia e con le sue questioni più profonde, come quella meridionale e così, a proposito dei primi passi dei Piemontesi a Roma, scrive Dolores Prato nel 1970: «Vennero giù a governare lItalia come se fosse un Piemonte allungato. Ed era invece qualcosa di tanto diverso. In questa Italia cera un meridione che non è stato ancora capito, che lo si capirà solo distruggendolo in quanto non ci sarà più bisogno di capirlo. In questo Piemonte italianizzato incappò anche Roma, capirla? Più facile distruggerla. Da un secolo si continua».

La sfida di Roma Capitale era, e forse è ancora, troppo ardua e il rapporto tra poteri, dentro a un contesto politico e di scelte così sovraccarico di significati, non aiuta a sciogliere i nodi e a semplificare le decisioni e le azioni, tanto più quelle dei soggetti pubblici condizionati, all’inizio, dall’arroccamento papale entro il Vaticano e dalla presenza diffusa e pregnante del sistema di potere papalino dentro al corpo della città. E poi, negli anni del dopoguerra, dal cosiddetto Partito romano definito come: «una lobby interna al mondo ecclesiastico, assai influente, d’orientamento politico clerico-moderato. […] Le espressioni partito o gruppo rendono malamente, in modo troppo rigido, il sistema di alleanze ed amicizie, di comunanze ideali, di comunione di obiettivi, spesso estremamente solido ma non privo di temperamenti, di sfrangiature: si trattava di un sistema volontaristico di convergenze, senza disciplina alcuna, inquadrato nell’unico impegno “per il bene della chiesa” e nell’obbedienza al papa. […] (A. Riccardi, Il Partito romano nel secondo dopoguerra, (1945-1954) Morcelliana, 1983, pp. X-XI, XV). L’emergere della crisi sembra proprio coincidere con la scomparsa di quegli assetti anche per il venir meno dei protagonisti di allora. Nel 2013 muore Giulio Andreotti e Roma per la prima volta ha due Papi. E’ la fine di un’epoca che però la politica, ma anche la città nel suo complesso, non ha saputo ancora elaborare e schiaccia la città ad una sorta di impotenza e al declino.

In prossimità dei 150 anni di Roma Capitale prima del Regno e dopo della Repubblica Italiana sarebbe importante ripartire da qui dal “risolvere” quei venti metri simbolici dell’impotenza latente che caratterizza le scelte della Città, che non riesce a definire il meglio per Roma ma si allestiscono solo mezze idee, progetti interrotti e soluzioni provvisorie che diventano eterne.

La crisi odierna di Roma non è una questione locale e non si riduce alla presenza delle buche, ai rifiuti che non vengono raccolti e si ammucchiano per strada, agli autobus che prendono fuoco e che, soprattutto, non passano. Roma è questione di rilevanza nazionale e non può più trascinarsi nell’illusione di essere ancora la Capitale che è stata nel Novecento e in particolare nel secondo dopoguerra. La crisi di cui si parla non è di ieri; anche quando si inneggiava al “Modello Roma” la crisi fu coperta da un attivismo che però non fece mai i conti con lo scenario che si era determinato dopo il 1989 e non fu in grado di contrastare politicamente la retorica condensata nello slogan “Roma ladrona”, che metteva in luce, seppure in modo rozzo, una questione vera: Roma è città di consumi, che vive di trasferimento di ricchezza dal resto del Paese. Città italiane come Torino hanno preso atto della crisi industriale e mutato la loro ragione d’essere. Così è avvenuto anche in altre città europee. Roma non ci è riuscita ed è questa la colpa principale delle classi politiche avvicendatesi negli ultimi trent’anni.

Ora è venuto il momento per ridare un senso nuovo alla Capitale, ne va del futuro del Paese prima ancora di quello di Roma.

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