Rivoluzione open ended. Dopo il 4 marzo

Alfio Mastropaolo muovendo dalla considerazione che le elezioni sono state una disastrosa sconfitta per il Pd e non hanno premiato i dissenzienti che hanno deciso di andarsene sostiene che con la vittoria delle due formazioni più eccentriche, la Lega e M5S, l’Italia conferma di essere appieno inserita nel vasto moto di delegittimazione che ha investito le società occidentali, un moto comprensibile visto che dopo quarant’anni di politiche neoliberali, e di disuguaglianze in crescita, c’è chi seguita a fare buoni affari. Gli elettori ne hanno abbastanza e si ribellano.

È una rivolta? No Sire, rispose il duce di Larochefoucault-Liancourt à Luigi XVI, è una rivoluzione. Il risultato elettorale italiano rientra in una rivoluzione planetaria, o almeno occidentale, che comprende l’elezione di Trump, il Brexit, le elezioni francesi, tedesche, austriache. Siamo solo gli ultimi. È una sollevazione contro la politica e contro le politiche, in Italia annunciata fin dalle elezioni del 2013. Allorché una formazione politica nata quasi per caso, e certo per dispetto, i 5 Stelle, prese un quarto dei voti. In compenso, una legge elettorale avvelenata ha dato la maggioranza alla Camera al Pd, ma non al Senato. Benché la legge in questione fosse stata subito dichiarata in gran parte incostituzionale, il Pd ha preteso di governare per cinque anni, stipulando poco limpidi accordi con i vari Alfano e Verdini. Tutto per applicare le impopolari terapie prescritte da Bruxelles. Anticipando forse il disastro, Renzi ha provato a cambiare le regole del gioco. Forte del 40 per cento ottenuto alle europee, ha tuttavia imposto in maniera maldestra sia degli sgangherati aggiustamenti istituzionali, una legge che o conferiva la maggioranza dei seggi a chi avesse ottenuto il 37 per certo, o prevedeva un ballottaggio tra i due primi arrivati. Ovviamente era convinto di essere uno di loro. Persa la partita del referendum, all’indomani l’Italicum è stato sconfessato dalla Corte.

Nel frattempo, alle difficoltà economiche, aggravate dall’austerity, si è aggiunta la crisi migratoria. Forse i numeri non sono stati enormi ed è stata amplificata dai media e dalla propaganda leghista, ma è sicuro che è stata male e contraddittoriamente governata. Questo è, semplificando, l’antefatto delle elezioni del 4 marzo scorso, cui si è arrivati con una legge proporzionale, riscritta dal Pd col centrodestra proprio per mettere in difficoltà i 5 Stelle. Peccato che gli apprendisti stregoni si siano rivelati assai maldestri. Ma concentriamoci anzitutto sull’offerta elettorale. Le sue componenti più significative erano quattro, con un’appendice. La prima è quella di 5 Stelle.

5 Stelle è un paradosso, fin dalla sua comparsa nel 2009. E nato su una forte istanza partecipativa e moralizzatrice. A fronte dell’autoreferenzialità delle altre formazioni politiche, il movimento ha escogitato nuove forme di coinvolgimento nella vita politica, sfruttando intensamente la rete a questo fine. L’idea di fondo, propria di tutte le prospettive analoghe, è che se i cittadini fossero intervenuti attivamente nella conduzione della vita pubblica, il suo tasso d’immoralità si sarebbe ridotto. Il paradosso è che 5 Stelle, pur non negando questa premessa, si è rivelato un movimento verticista e personalistico come nessun altro. Non solo il suo vertice, costituito da Grillo, che ha scelto i Casaleggio padre e figlio come suoi alter ego esclusivi, è onnipotente – Grillo possiede giuridicamente il partito –, ma l’assunzione delle scelte avviene in ambiti pressoché impenetrabili agli osservatori. Finora, una simile ambivalenza, che scandalizza gli osservatori, non ha troppo disturbato gli elettori, ai quali alle elezioni è stata avanzata un’offerta politica in cui si incrociano una robusta componente welfarista e un radicale rinnovamento di personale politico.

Possiamo discuterne efficacia e fattibilità. Ma il reddito di cittadinanza è una misura di welfare, di cui si discute da molto tempo, con varie declinazioni, in tutta Europa, per fronteggiare la contrazione della domanda di lavoro imputabile alle nuove tecnologie e alla globalizzazione. Nell’offerta di 5 Stelle c’era anche altro. Una discreta dose di ambientalismo. Qualche opportunistico irrigidimento sul fronte dell’immigrazione. Ma la coronava soprattutto la promessa di un radicale ricambio di personale politico.

La seconda offerta è quella leghista. Tre gli ingredienti fondamentali. L’eccitazione identitaria e razzista – “padroni a casa nostra” –, il confronto duro con l’Europa, l’abbattimento della pressione fiscale via flat-tax, la semplificazione amministrativa. C’era pure un’offerta di rinnovamento profondo del personale politico, che ha un’interessante appendice meridionale. Salvini a Mezzogiorno ha fatto campagna acquisti di ex-fascisti o post-fascisti. Non è stata decisiva, ma gli ha assicurato qualche voto.

La terza offerta è quella berlusconiana. Non avesse avuto alle spalle un impero mediatico, sarebbe passata sotto silenzio. Solite promesse di smisurati benefici fiscali – la flat-tax – e poco più: una lealtà ai poteri forti dell’Unione europea in contrasto con l’atteggiamento della Lega. Infine, una larvata prospettiva di matrimonio col Pd.

La quarta offerta è quella del Pd. Il Pd ha adottato un linguaggio e un progetto blairista fin dalla sua fondazione. Prima ci si è messo Veltroni ed è stato il disastro del 2008. Poi quel galantuomo di Bersani l’ha un po’ corretta nel 2013, dopo però aver sopportato senza resistenze la terapia di Monti. Visto che l’esito elettorale è stato sghembo, al governo è andato Letta, che, con qualche correzione, ha provato a insistere sulla linea Bersani, finché Renzi non si è impadronito del partito. Per fare blairismo a oltranza, con qualche dose di demagogia. Renzi era, rispetto alle tradizioni cui il Pd si richiamava, un alieno a pieno titolo e un modesto esempio d’indipendenza dai cosiddetti poteri forti. Il suo progetto era di riposizionare il Pd sul centro, per cogliere i frutti del tramonto del berlusconismo. Alle europee, cioè nel momento più basso del berlusconismo medesimo, la manovra è riuscita. Ma è stata smentita da tutte le tornate elettorali locali successive, mentre la bocciatura referendaria e quella della Corte hanno fatto fallire la manovra volta a consolidare il suo potere mediante la riforma della costituzione e della legge elettorale. Malgrado i sondaggi, non si è dato per vinto e l’offerta elettorale che il Pd ha avanzato in campagna elettorale prevedeva d’insistere sulla strada blairista. Con in più la prospettiva, ipocritamente negata, ma ovvia, alla luce dei sondaggi, di un accordo con Berlusconi. Così un bel po’ di elettori si è astenuta e un’altra ha trasmigrato verso 5 Stelle. Mettiamoci infine l’offerta di Liberi & Uguali. Dentro la grigia confezione era un’onesta offerta welfarista, ma formulata da gente che in gran parte era stata coinvolta nella svolta blairista del Pd. Il suo ravvedimento non ha bilanciato alcunché, come non ha compensato alcunché l’offerta liberista di Emma Bonino, alleata del Pd.

Come hanno reagito gli elettori? Lo hanno notato tutti: in maniera diversa nel Centronord e nel Sud. Nel Sud l’offerta welfarista di 5 Stelle ha fatto furore. Partito dall’oltre il 25 per cento del 2013, ha di slancio superato il 40. Per contro il centrodestra ha mantenuto, e lievemente migliorato, le posizioni del 2013, mentre il Pd, insieme a L&U hanno pagato pegno pesantemente. Bisogna conoscere poco la società meridionale, e nascondere dentro di sé qualche oscuro sentimento razzista, per leggervi una prova di una supposta inestirpabile vocazione assistenzialista. Donde i giovani fuggono verso lidi più accoglienti e dove la gente si affanna come pazzi, moltissimo sul fronte dell’economia informale, per sopravvivere. Il risultato nel Mezzogiorno non è comunque tale da stupire. Vaglielo a raccontare a una società disperata che 5 Stelle tanto democratico non è, che il suo personale politico è incompetente, che Raggi a Roma è un disastro. A parte il fatto che il tasso di democrazia delle altre forze politiche non è entusiasmante e che le altre amministrazioni locali che il movimento ha conquistato nel Mezzogiorno non se la cavano affatto male, se non altro i 5 Stelle sono gente nuova. Per contro, in questi anni l’azione di governo del centrosinistra sul territorio non è stata tale da distogliere gli elettori dal desiderio di cambiare.

Più articolato è l’esito elettorale del Centro-Nord, dove ad avere più successo è stato il mix identitario e antifiscale della Lega. Nella ex-zona bianca, nella provincia lombarda e piemontese, nella ex-zona rossa la spiegazione è piuttosto semplice. La Padania è ancora ben pasciuta. Ma ha paura. Il futuro non è così roseo. Non è sufficientemente colta per assorbire disinvoltamente la grande diversità dell’immigrazione. Sono pure caduti alcuni freni inibitori e alcune istituzioni che strutturavano e mantenevano la cultura locale sono svanite. La secolarizzazione nell’area bianca ha messo in dubbio il magistero della Chiesa. Magari in terre di Lega le parrocchie resistono e il volontariato cattolico è attivo. Ma gli appelli alla solidarietà di Papa Francesco trovano poco ascolto.

Nelle zone rosse, come ha fatto notare Francesco Ramella, la crisi dei distretti industriali morde invece parecchio. In più, anche qui si avverte il cambiamento istituzionale. È stato revocato quel fondamentale complemento dello Stato che era stato il Pci: i Ds hanno resistito per un po’, il Pd ne ha svenduto il patrimonio. E anche qui l’immigrazione non è stata governata a dovere. La paura di perdere il benessere faticosamente conquistato è elevata ed è elevato il risentimento di chi l’ha perso.

E il Pd? La disfatta è sanguinosa. Resiste nei quartieri borghesi dei grandi centri urbani. Ma secondo un sondaggio Ipsos, il 15 per cento dei suoi elettori del 2013 ha votato 5 Stelle e un quinto pare si sia astenuto: è, quest’ultimo, un dato che dovrebbe bruciare. Con quel quinto in più l’esito elettorale sarebbe stato più generoso. Non l’ha meritato. È consolante invece sapere che solo il 2 per cento sarebbe emigrato verso la Lega. L’unica area in cui, considerando le percentuali, si avverte un apprezzabile smottamento verso destra dell’elettorato Pd sarebbe la ex-zona rossa. L’entrata in scena di L&U è stata con ogni probabilità troppo tardiva e troppo goffa per bilanciarlo.

Conclusione. Non c’è. È fondato il sospetto che i cocci siano troppo scombinati per rimetterli in sesto. Le rivoluzioni sono open ended. Vedremo cosa ne sarà di questa.

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