Rilanciare la discussione pubblica per rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale

Elena Granaglia, sulla scia di un recente volume di Geddes, La salute sostenibile, mette in guardia dal rischio che una serie di piccole scelte, apparentemente compatibili con il Sistema Sanitario Nazionale, conduca, in modo del tutto opaco, a ridimensionare drasticamente la sanità pubblica. Quest’ultima dovrà affrontare scelte difficili nei prossimi anni ma, sostiene Granaglia, il miglior modo per farlo è mettere nuovamente il Servizio Sanitario, le sue ragioni e le sue modalità operative, al centro di una discussione pubblica, trasparente e ragionata.

In un bell’articolo del 2004 (“Privatizing Risk without Privatizing the Welfare State: The Hidden Politics of Social Policy Retrenchment in the United States”, American Political Science Review) Jacob Hacker richiama l’attenzione su come una pluralità di piccoli cambiamenti nascosti e apparentemente di poco conto, accumulandosi nel tempo, possa portare a un radicale ridimensionamento delle politiche sociali, pur in assenza di qualsiasi cambiamento formale nella loro struttura. A meno di un cambio di rotta da parte del nuovo governo, questo rischia di essere il destino – che Hacker definisce di policy drift (deriva delle politiche) – di una delle principali istituzioni del nostro stato sociale, il Servizio Sanitario Nazionale, istituito esattamente quaranta anni fa.

La richiesta di uno smantellamento esplicito del SSN non è, infatti, all’ordine del giorno. Corroborati dalle reiterate affermazioni circa l’insostenibilità della spesa sociale, sono, però, all’opera diversi processi sotterranei che rischiano di pregiudicarne l’esistenza. Appoggiandomi al bel libro di Marco Geddes (La salute sostenibile, Il Pensiero Scientifico, 2018), ne vorrei richiamare due.

Il primo processo concerne il de-finanziamento del SSN. Limitare una tantum il finanziamento potrebbe, nel breve, non avere alcun effetto sulla qualità delle prestazioni offerte. Addirittura, potrebbe trovare giustificazione nel condivisibile obiettivo della riduzione degli sprechi – dunque, di fare funzionare meglio il servizio sanitario pubblico. Se, anno dopo anno, si continua, però, a non investire in modo adeguato, l’effetto cumulato diventa quello opposto di un peggioramento. Un servizio mal funzionante costituisce un atout formidabile per difendere, nel futuro, una modifica esplicita: il ridimensionamento del SSN a favore della sanità privata. Il timore è che il nostro SSN si stia avvicinando a questa situazione.

Nell’ultimo periodo, la spesa sanitaria pubblica ha, sì, registrato qualche incremento in termini nominali. Nel 2011, come documenta Geddes, essa era pari a 112,8 miliardi di euro, mentre nel 2016 è salita a 115,8 miliardi. Diverso è, però, l’andamento in termini reali e gli importi appena richiamati rappresentano tagli rispetto alle previsioni tendenziali espresse nei diversi Documenti di Economia e Finanza Pubblica (DEF) relativi a quegli anni. Il grosso dell’incremento realizzato concerne poi la spesa farmaceutica, in particolare, per i farmaci oncologici e i farmaci cosiddetti innovativi. Tale spesa è aumentata dell’8% fra il 2013 e il 2016 e ha ancora assorbito quasi tre quarti dell’incremento della spesa per il SSN verificatosi nel 2017. Per il personale, il de-finanziamento si è, invece, associato a un’altra misura nascosta, il blocco del turnover e, per il personale non medico, al ricorso crescente a esternalizzazioni caratterizzate da minori retribuzioni e turni di lavoro più faticosi (cfr. il caso degli infermieri).

Oggi comunque ci troviamo a spendere in media circa il 25% in meno della Gran Bretagna, un paese, simile al nostro per dimensioni del PIL, dove, però, le prese di posizioni sui rischi di tracollo del National Health Service sono all’ordine del giorno. Nel 2016, la Gran Bretagna aveva una spesa pubblica pro capite pari a 3320 dollari Usa, mentre per l’Italia il valore era pari a 2545. La spesa pubblica pro capite in Francia e in Germania era rispettivamente 3626 e 4695 euro.

L’ultimo DEF accentua ulteriormente la strategia del de-finanziamento: anche la spesa tendenziale cessa di crescere. Nel 2020, dovrebbe scendere al 6,2% contro il 6,6% odierno. Il de-finanziamento avviene, peraltro, in una situazione in cui i cambiamenti demografici, l’aumento delle malattie croniche, lo sviluppo tecnologico e le aspettative crescenti di cura congiurano tutti verso l’incremento della spesa. Il che rappresenta un altro limite delle posizioni secondo cui contrastare gli sprechi che ancora esistono garantirebbe l’adeguatezza del finanziamento attuale.

Al de-finanziamento si è poi accompagnato il potenziamento, grazie alle agevolazioni fiscali, della sanità complementare. Anche tale potenziamento, a prima vista, non appare alterare la struttura del SSN, rappresentando un secondo livello di assistenza che si aggiunge – senza toccarlo – al primo. Addirittura, potrebbe essere invocato come aiuto al SSN, in un momento di vincoli stringenti di finanza pubblica, limitandone il sovraccarico. Il potenziamento del secondo welfare è stato, inoltre, presentato, nel nostro paese, come indipendente dalle vicende sanitarie, in quanto finalizzato in via prioritaria all’incentivazione della contrattazione decentrata e, con essa, della produttività. La legge di stabilità per il 2016 limita, infatti, l’agevolazione fiscale per il welfare integrativo (compresa la sanità complementare) ai premi di produttività realizzati in sede d’impresa.

Nonostante l’elemento di addizione possa allontanare i timori di smantellamento e l’incentivazione della produttività porti l’attenzione su questioni che prescindono dalla sanità, anche il potenziamento della sanità complementare potrebbe, tuttavia, mettere a repentaglio il SSN. Da un lato, le agevolazioni fiscali rappresentano una perdita di gettito per il bilancio pubblico (equivalendo a una spesa fiscale, come ben risulta nel termine inglese di fiscal expenditure), che rischia di minare ulteriormente il finanziamento del SSN. Da un altro lato, la disponibilità dell’alternativa privata indebolisce l’interesse nei confronti del SSN, offrendo una facile via di uscita dal servizio pubblico. Da un altro lato ancora, diffusione del welfare privato significa diffusione anche di attori privati, in conflitto d’interesse con la produzione pubblica. Più tali attori privati si consolidano più, nel tempo, potrebbe diventare difficile intraprendere azioni di rafforzamento del ruolo pubblico, come già paventato da Titmuss. Da ultimo, il welfare privato altera radicalmente i criteri di accesso ai servizi sanitari: indebolisce la cittadinanza a vantaggio del censo. Questi tre ultimi effetti negativi persisterebbero anche qualora le agevolazioni portassero a un incremento di gettito attraverso l’incentivazione della produttività e, con essa, della base imponibile.

Agevolare, con le risorse di tutti, il consumo da parte di alcuni (che non sono i più poveri) di beni e servizi che, come quelli sanitari (tranne alcune eccezioni quali i vaccini), non generano effetti esterni diffusi a favore della collettività pone sempre problemi equitativi. Rispetto ai rischi per il SSN contano, tuttavia, anche l’entità dell’agevolazione e il contesto in cui la sanità complementare è inserita. In questi ultimi anni, abbiamo assistito, in Italia, a un sensibile rafforzamento del sussidio.

La legge di stabilità per il 2016 ha previsto la totale detassazione dei premi di produttività fino a 2000 euro (2500 in presenza di coinvolgimento paritetico dei lavoratori) per i lavoratori con retribuzioni entro 50.000 euro. La legge di stabilità per il 2017 ha successivamente innalzato i valori rispettivamente a 3500 (4000 in presenza di coinvolgimento paritetico dei lavoratori) e a 80.000 euro. Tali agevolazioni si possono sommare alla pre-esistente detassazione (per datori di lavoro e lavoratori) dei fondi sanitari, entro un massimale di 3615 euro. Sulla scia di queste norme, il welfare aziendale è ora considerato addirittura parte del salario, come dimostrato dall’ultimo contratto dei metalmeccanici che, nell’accordo del 27 febbraio scorso, ha inserito i servizi di welfare, inclusi appunto quelli sanitari, fra i beni e i servizi che le imprese devono mettere a disposizione dei lavoratori. In concomitanza con il rafforzamento delle agevolazioni, stiamo altresì assistendo a un’entrata tumultuosa di organizzazioni private, non profit e for profit, nel mercato della sanità complementare (per evidenze empiriche, cfr. la newsletter settimanale Secondo Welfare). Ancora, sebbene i riferimenti normativi tendano a riguardare la sanità integrativa, molte delle prestazioni sanitarie assicurate sono sostitutive di quelle erogate dal SSN. Questa evoluzione in associazione con il de-finanziamento pubblico non può non comportare rischi per il Servizio Sanitario Nazionale.

Ora, il SSN mostra certamente carenze non imputabili al de-finanziamento e, dunque, non risolvibili attraverso un mero aumento di risorse. E’ necessaria anche un’azione di “manutenzione” costante delle risorse allocate. Al contempo, gli sviluppi sopra-ricordati che spingono verso l’aumento della spesa impongono e sempre più imporranno scelte difficili al SSN. Queste, però, sono esattamente le questioni di cui discutere, ossia, quanto delle nostre risorse destinare alla sanità e come utilizzarle nei modi più equi e efficienti possibili. Il che investe lo scontro anche fra visioni diverse del tipo di società in cui vogliamo vivere e, con esse, del peso che si vuol dare alla cura e alla capacità per tutti di vivere in condizioni di salute decenti. Aggirare tali questioni, con un’operazione di policy drift, limitandosi ad asserire l’insostenibilità del finanziamento pubblico e agendo al contorno con una pluralità di piccoli cambiamenti nascosti e apparentemente di poco conto, è, invece, assai pericoloso per la democrazia. Parafrasando Schelling, rischiamo di ritrovarci schiavi della tirannia di un cumulo di piccole scelte che conduce a un esito finale che la maggioranza non avrebbe scelto se confrontata con la scelta esplicita di cosa fare del SSN. I piccoli passi al margine sono poi particolarmente ospitali al gioco degli interessi concentrati e delle loro lobby.

Per la sanità, il costo è particolarmente grave. Tutte le evidenze empiriche sono concordi nel valutare il servizio sanitario nazionale come la configurazione istituzionale non solo più coerente con l’universalismo dei diritti, ma anche più efficiente sotto il profilo della minimizzazione sia dei costi amministrativi sia dei costi collegati ai rischi di non appropriatezza delle prestazioni. Non a caso, secondo l’OMS, il nostro SSN, pur con un basso finanziamento pubblico, è finora riuscito a assicurare una delle migliori assistenze sanitarie al mondo. Come conclude Lord Darzi nel suo recente Interim Report sullo stato della assistenza sanitaria e socio-sanitaria in Gran Bretagna: “è un errore fondamentale di logica affermare che qualcosa sia troppo costoso e poi muovere verso qualcosa che è più costoso. Questa è la ragione per qui occorre riaffermare i principi fondamentali del SSN, impegnandoci nella ricerca di un piano a lungo termine di finanziamento e di riforma… una questione che è stata troppo a lungo trascurata..”.

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