Riformatori (fiscali) di tutta l’America Latina, attrezzatevi!

Stefano Filauro e Ludovica Galotto illustrano il paradosso fiscale che caratterizza i paesi dell’America Latina, dove sistemi fiscali regressivi convivono con un’altissima disuguaglianza. Richiamando una pubblicazione del Wilson Center, tracciano la genesi storica delle riforme fiscali latinoamericane concentrandosi sui fattori che hanno favorito alcune recenti riforme progressive. Basandosi anche sui successi di Uruguay, Cile e Colombia, gli autori propongono alcune linee-guida da seguire per realizzare riforme fiscali progressive.

L’America Latina (AL), continente caratterizzato da stridenti e acute disuguaglianze, ha finalmente vissuto a partire dal 2000 un periodo di favorevole crescita economica e di riduzione delle differenze tra ricchi e poveri.

Una recente pubblicazione di Gasparini, Cruces e Tornarello (Chronicle of a DecelerationForetold: Incomeinequality in Latin America in the 2010s, 2016) documenta queste evoluzioni economiche e istituzionali e su questo numero del Menabò Del Buono descrive anche la portata delle politiche sociali che, con diversi gradienti nazionali, hanno aiutato l’area latino-americana a mitigare le secolari disuguaglianze che la affliggono. Del Buono sottolinea che gli interventi nell’ambito dell’istruzione, della previdenza e dell’assistenza sociale attuati a partire dagli anni ‘90 hanno contribuito a ridurre disuguaglianze e povertà, ma nota anche che questa tendenza si è fortemente attenuata negli ultimi anni. In realtà,alle politiche di contrasto alle disuguaglianze è mancato un elemento-chiave: la riforma dei sistemi fiscali diretta ad accrescerne il grado di progressività.

Una pubblicazione del Wilson Center curata da Mahon, Bergman e Arnson (MBA, Progressive tax reform and equality in Latin America, 2015) prova proprio ad illustrare il paradosso di un continente che in venti anni di democrazie finalmente stabili ha ridotto la disuguaglianzama non è riuscito, se non in minima parte, a correggere la struttura regressiva dei propri sistemi fiscali. Con l’intenzione di spiegare questo dilemma, gli autori descrivono la recente evoluzione storica dei sistemi fiscali del Sudamerica; illustrano i recenti tentativi di alcuni paesi di accrescere la progressività di tali sistemi e, infine, offrono un’interpretazione dei loro successi e fallimenti.

Gli autori ricordano che una riforma fiscale è progressiva se sposta il carico fiscale dai più poveri ai più ricchi e ciò può realizzarsi non soltanto agendo sulle aliquote e le detrazione delle imposte sul reddito ma anche spostando il carico fiscale dai consumi i redditi e alla ricchezza, poiché i consumi, soprattutto quelli di beni primari, hanno un incidenza proporzionalmente maggiore sul reddito dei meno abbienti.

In questa cornice normativa, gli autori esaminano il paradosso degli attuali sistemi fiscali latinoamericani alla luce del modello dell’elettore mediano. Tale modello prevede che in una democrazia matura il ceto politico abbia interesse ad attuare le politiche che favoriscono l’elettore che occupa la posizione mediana nella distribuzione del reddito, così da massimizzare il consenso elettorale e assicurarsi la rielezione.

In base a questo modello, che ha avuto molto successo nella letteratura teorica, nei paesi in cui il reddito dell’elettore mediano è molto basso, le riforme fiscali di stampo progressivo sarebbero in grado di ridurre le disuguaglianze accrescendo anche il consenso per le classi politiche al potere.  La ricetta sembra del tutto appropriata per l’AL eppure qui i sistemi fiscali sono ancora oggi profondamente regressivi.  Lo prova non soltanto la quota di entrate fiscali sul PIL che nei paesi dell’AL è minore della media globale (World Development Indicators), ma anche il fatto che tali entrate provengano soprattutto da imposte sui consumi che, come si è ricordato, sono più regressive di  quelle sui redditi (Tabella 1).

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Questo assetto dei sistemi fiscali in AL è il risultato di un lungo processo che, secondo MBA, può essere suddiviso in tre fasi: la prima (1967-1994) ha accompagnato il passaggio trentennale dell’area al neoliberismo con un lieve aumento del gettito fiscale derivante dalle imposte sul valore aggiunto; nella seconda fase (1995-2005) si è avuto  un inasprimento fiscale – raccomandato dal  FMI per compensare  le minori entrate dovute ai bassi prezzi delle materie prime e alle crisi di inflazione – che ha interessato sempre i  consumi; la terza fase (2005-2015) ha invece visto un timido tentativo da parte di alcuni paesi  di spostare il carico di contribuzione in senso progressivo con esiti alterni.

L’effetto complessivo è stato un lieve incremento delle entrate fiscali, partendo da livelli di pressione fiscale molto bassi degli anni ‘60 senza però una decisa modifica in senso progressivo, salvo alcuni recenti casi.

Secondo MBA ciò è dipeso soprattutto dai comportamenti conservatori delle élite economiche che i modelli di voto mediano non considerano. L’economista dello sviluppo M. Best aveva osservato già nel 1976 che le strutture fiscali sudamericane riflettevano le preferenze dei grandi proprietari i quali, al fine di preservare le proprie ricchezze e i propri alti redditi, sono riusciti in maniera piuttosto omogenea sul continente a opporre resistenza alle riforme fiscali progressive. I canali attraverso cui hanno esercitato la loro opposizione sono essenzialmente tre: i) impedire il dibattito pubblico su queste riforme grazie al controllo capillare dei mezzi di informazione, ii) mobilitare le grandi associazioni imprenditoriali e infine iii) avversare lo sviluppo di qualificate agenzie tecnocratiche  di raccolta delle imposte.

Eppure, con il venir meno delle politiche del Washington Consensus e il diffuso successo, a partire dal 2000, della “nuevaizquierdalatinamericana” sarebbe stato lecito attendersi riforme fiscali dirette a contrastare le iniquità distributive, come prescritto anche di recente dalla Banca Interamericana per lo Sviluppo nella pubblicazione “More thanrevenue: taxationas a developmenttool”(2013). Viceversa i tentativi di riforma sono stati poco numerosi e piuttosto timidi e, come documenta Del Buono, sembra che molti governi abbiano preferito affidarsi alle politiche sociali per mitigare le alte disuguaglianze.

MBA censiscono i tentativi di riforma compiuti nella terza fase di evoluzione fiscale (2005-2015), con particolare riferimento a quelli di Uruguay (2006), Cile (2014), Colombia (2012 e 2014), Guatemala (2012) e Messico (2013). Il loro scopo è identificare i fattori da cui è dipeso il successo oppure il fallimento di questi tentativi di riforma.

Gli autori si concentrano sui fattori che hanno condotto ai relativi successi delle riforme mirate ad aumentare le entrate fiscali o atte a spostare il carico dai più poveri ai più ricchi in Uruguay, Cile, Colombia (sebbene in quest’ultimo paese i  risultati siano stati più modesti) rispetto ai relativi insuccessi di Messico e Guatemala. In questi ultimi infatti, le riforme fiscali hanno avuto effetti minimi sul piano economico o sono state persino annullate dai tribunali amministrativi dopo la loro approvazione (Messico).

Innanzitutto MBA mostrano come una riforma fiscale progressiva venga quasi sempre promossa durante i primissimi tempi dall’insediamento di un governo,nella fase in cui l’esecutivo è in “luna di miele” con l’elettorato e può facilmente contrastare l’opposizione delle élite economiche alla luce del forte mandato ricevuto e della coesione interna.

Tra le ragioni del successo rientrano inoltre i) il ruolo di informazione esercitato da agenzie tecniche di raccolta fiscale, che permettono di informare l’opinione pubblica e orientare il consenso degli “elettori mediani” verso riforme progressive; ii) il frazionamento politico e associativo delle élite economiche (nel caso dell’Uruguay) e iii) la possibilità di neutralizzare gli alti tribunali amministrativi, che sono solitamente le leve azionate dalle lobby per minare le riforme una volta approvate.

Infine, un chiaro annuncio governativo della maggior spesa sociale finanziata dai maggiori introiti della riforma fiscale può giocare in favore del consenso popolare e dell’approvazione delle riforme proposte.

Di converso, l’estensione dell’economia informale (come nel caso guatemalteco) o la presenza di un forte e coeso settore imprenditoriale (come in Messico), hanno determinato il fallimento delle riforme fiscali.

Sulla base di questa analisi, MBA si spingono a redigere una sorta di decalogo di  “consigli ai riformatori fiscali” i cui punti salienti sono:

i) i riformatori ottengono maggior successo quando promuovono riforme fiscali contenute e dal perimetro definito piuttosto che riforme epocali poiché quest’ultime generano sentimenti di incertezza sugli esiti economici e aggregano le opposizioni;

ii) è importante identificare vincenti e sconfitti della riforma e guadagnare il consenso dei ceti sociali meno abbienti, che sono quelli più favoriti dalle riforme progressive;

iii) per attuare i punto precedente è quindi cruciale avere alte competenze tecniche, nei ministeri e nelle agenzie fiscali oltre che un’ampia disponibilità di dati fiscali;

iv) gli aumenti di tassazione vincolati a particolari obiettivi di spesa sociale sono solitamente quelli più popolari e di maggior successo (Cile);

v) una vigorosa lotta all’evasione fiscale risulta più popolare di ambiziosi tentativi di riforma;

vi) sono opportune contestuali e credibili riforme sul lato della spesa (Messico e Guatemala) per evitare che maggiori introiti fiscali vengano percepiti come balzelli per spesa pubblica improduttiva;

vii) occorre identificare i benefici derivanti dalla riforma per l’elettore mediano, o la middle class, a cui la maggioranza dei cittadini, spesso a torto, immagina di appartenere.

E’, dunque, sulla scorta di questo “decalogo” che MBA concludono il rapporto, senza dimenticare tuttavia l’importanza di fattori extra politici e non direttamente controllabili come il trend economico e la composizione sociale.

Le riforme hanno infatti avuto più successo e sono state emanate più facilmente in tempi di crescita economica, che non quando dovevano servire a coprire i buchi di bilancio provocati dalla contrazione dell’attività economica e delle entrate fiscale, come sperimentato nella seconda fase di riforme fiscali (1995-2005).

Infine, MBA concludono con una nota di ottimismo sul miglioramento dei sistemi fiscali latino-americani, la quale si basa sulla seguente considerazione: sebbene il quadro macroeconomico stia peggiorando e la riduzione delle disuguaglianza si stia arenando, l’emersione di ampie sacche di popolazione dalla povertà e l’ingrossamento del ceto medio avvenuto del decennio 2000-2010 porteranno molto probabilmente a una domanda pubblica di sistemi fiscali più equi e progressivi.

Nel frattempo però, visto che “nunca se sabe” e l’opinione pubblica sudamericana è stata influenzata spesso e volentieri dai forti interessi di conservazione delle élite economiche, i riformatori economici farebbero bene a tenere in considerazione il “decalogo” proposto dagli autori.

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