Ridare dignità al lavoro: è il momento di intervenire*

Claudio Treves discute alcune proposte del Gruppo di lavoro ministeriale sul contrasto al lavoro povero e sostiene che è urgente andare verso la combinazione di una soglia minima legale di garanzia e di retribuzioni definite nel loro valore generale dai contratti collettivi, sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori. Sui sostegni pubblici diretti a integrare i salari insufficienti, Treves ritiene che non dovrebbero essere alternativi ai miglioramenti salariali di origine contrattuale.

Le proposte del Gruppo istituito dal Ministro Orlando per indagare sulla povertà lavorativa in Italia sono importanti e meritano di essere valutate con molta attenzione. Specie se contribuiranno a invertire la tendenza alla stagnazione salariale che dura in Italia da troppi anni: fa un certo effetto vedere la tabella dell’OIL che descrive l’andamento dei salari medi in Europa nel periodo 1990- 2020: solo un Paese mostra un andamento negativo (-2,9%), ed è l’Italia.

Il trentennio preso in esame copre da un lato gli interventi per governare l’inflazione (i Protocolli del biennio 1992-93), e dall’altro le “riforme” del mercato del lavoro (dal 1997 col “Pacchetto Treu” al 2015 con il Jobs Act). Alla moderazione salariale si è sovrapposta la moltiplicazione delle tipologie d’impiego e la maggiore possibilità di frantumare i cicli produttivi con il ricorso alle esternalizzazioni, alla catena di appalti/subappalti/cessione a cooperative non tenute ad osservare il contratto dell’impresa cedente fino alla sostanziale sterilizzazione del reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Aldilà delle due crisi dell’ultimo decennio (2008-2012 da bolle immobiliari e 2019-2021 da pandemia), tutto ciò non ha sortito l’auspicato consistente incremento dell’occupazione, specie giovanile e femminile. Infatti, il tasso di occupazione in quei trent’anni è aumentato pochissimo (circa due punti e mezzo, dal 56,5 al 59 attuale) e resta molto al di sotto di quello dei paesi a noi più simili (in Francia arriva al 67% , in Germania al 76!. Eravamo indietro nel 1990, restiamo ancora più indietro nel 2020. Ma nel frattempo abbiamo indebolito il tessuto occupazionale, con il sensibile aumento della quota del lavoro precario che è il primo a risentire di ogni oscillazione del mercato, e che molto parzialmente si stabilizza nei periodi di crescita.

Aggiungo che la regolazione della contrattazione collettiva dal 1993 esclude dalla base di calcolo degli aumenti salariali l’inflazione importata dovuta al costo dell’energia, che è la principale causa dell’attuale fiammata inflazionistica, – oltre a quelle di natura strutturale dovute a carenza di materie prime – per cui il sistema contrattuale fa strutturalmente fatica a compensare autonomamente le spinte inflazionistiche esterne.

 Della qualità dell’occupazione non si occupa neppure il PNRR che invece insiste ancora sugli incentivi per incrementare l’occupazione e propone, utilmente ma troppo parzialmente, la condizionalità del 30% di assunzioni di donne e giovani per gli investimenti finanziati con le risorse europee. Altri Paesi, come la Spagna, hanno invece “approfittato” dei fondi europei per inserire nel loro Piano (approvato dalla Commissione, il che significa che si sarebbe potuto fare anche in Italia…) un disegno di riforma del mercato del lavoro di grande interesse, incentrato su tre punti connessi – forte limitazione della possibilità di ricorrere a rapporti a termine; primato della contrattazione collettiva nazionale su quella aziendale derogatoria; normativa più stringente sul ricorso all’appalto fondata sul principio (da noi esistente dal 1960 e poi cancellato nel 2003…) che chi svolge lavori in appalto applica il contratto dell’impresa appaltante.

Eppure, qualcosa potrebbe muoversi in questi mesi che ci separano dalla fine della legislatura. L’elezione del Presidente della Repubblica ha inferto un colpo allo schieramento moderato sia interno che esterno alla maggioranza di Governo, e aperto spazi – almeno potenziali – per un’azione riformatrice. Del resto, lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil il 16 dicembre 2021 aveva al centro, oltre al contrasto all’intervento fiscale, proprio i temi della lotta alla precarietà e all’”inverno salariale”. Perché il dato nuovo e drammatico è l’espandersi del lavoro povero per il congiunto operare di rapporti a tempo parziale involontario, di rapporti di breve durata nel mese e nell’anno, di rapporti intrinsecamente precari (si pensi alle collaborazioni autonome occasionali, esentate perfino da obblighi contributivi e fiscali nel limite di €5000), e così via. A ciò si aggiunge un progressivo sfaldarsi della rappresentatività delle associazioni datoriali, vera causa del proliferare dei Contratti collettivi nazionali registrati dal CNEL, che superano ormai la cifra incredibile di 950, di cui meno di un terzo sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil. La riforma delle aliquote fiscali contenuta nella legge di bilancio è pure controproducente e iniqua, in quanto non favorisce proprio le fasce reddituali fino a 26mila Euro annui.

In questo scenario si collocano le proposte del Gruppo di lavoro, pubblicate nel n°165 del Menabò. Anche se correttamente il Gruppo sottolinea che l’efficacia delle misure richiede la loro interoperatività, mi limiterò a considerare l’estensione erga omnes dei salari previsti dalla contrattazione collettiva sottoscritta da soggetti comparativamente più rappresentativi e il salario minimo legale. Consapevole dei problemi politici e giuridici connessi a queste proposte, il Gruppo di lavoro si propone anche di individuare in via sperimentale salari minimi per settori di particolare problematicità (è lecito pensare al turismo e alla ristorazione, alla logistica, ecc.). Inoltre, per livelli salariali che restassero al di sotto della soglia di povertà relativa (fissata al 60% della mediana dei salari) il Gruppo propone l’erogazione di sostegni pubblici.

Sull’estensione erga omnes dei CCNL, il sindacato confederale ha, come noto, posizioni contrapposte, difficilmente superabili, specie dopo la rottura della Cisl lo scorso dicembre. Tuttavia si dovrebbe approfittare della discussione della Direttiva Europea sui salari minimi per far compiere al nostro Paese un decisivo passo avanti: in Parlamento giace un disegno di legge della ex Ministra Catalfo che per stabilire se la retribuzione è “proporzionata e sufficiente” (articolo 36 della Costituzione) suggerisce di riferirsi alla contrattazione collettiva nazionale sottoscritta dai soggetti rappresentativi e, inoltre, detta le regole per misurare la rappresentatività delle organizzazioni in caso di pluralità di contratti esistenti. Il DDL Catalfo, infatti, recepisce quanto definito pattiziamente dal 2014 con le associazioni datoriali, introduce nuove regole per la rappresentatività delle organizzazioni datoriali e fissa un tetto minimo di tutela pari a € 9/ora per i compensi inferiori. Proprio perché la Direttiva chiede implicitamente ai Paesi membri di scegliere tra i due modelli presenti in Europa penso sia giunto il momento di assumere l’impianto concettuale del DDL Catalfo, pur sapendo che si tratta di un passaggio delicatissimo, perché finora il legislatore ha lasciato che fosse la magistratura ad indicare (quasi sempre) come utile riferimento i CCNL sottoscritti dalle organizzazioni confederali . E tuttavia, nonostante i diversi tentativi (da ultimo l’impegno unitario con Confindustria nel 2018) non solo non si è avanzato verso l’estensione erga omnes dei CCNL sottoscritti da soggetti rappresentativi, ma è proliferata la produzione di CCNL da parte di soggetti privi di alcuna rappresentatività che – aldilà della poca rilevanza delle adesioni esplicite, agiscono come “magnete negativo” verso la contrattazione confederale per la minaccia sempre più diffusa di fuoriuscita dal recinto delle associazioni datoriali (la lezione di Marchionne agisce in modo carsico). Per queste ragioni, l’idea di sperimentazioni settoriali del salario minimo è a mio giudizio inadeguata, a meno che non si sia già rinunciato in partenza ad interventi “di sistema”, che pure sarebbero coerenti con il recepimento della Direttiva Europea.

Detto questo, sul sostegno pubblico per salari inferiori alla soglia di povertà giustamente i membri del Gruppo, temendo che la misura si traduca in un sostegno indiretto alle imprese – che potrebbero anche ridurre i salari confidando sul sostegno pubblico al lavoratore – sostengono che l’in-work benefit dovrebbe cumularsi ai salari che restassero inferiori ai livelli giudicati compatibili con l’articolo 36 della Costituzione, anche se previsti dai CCNL o compatibili con il minimo legale. Il rischio è fondato e lo prova la più grande operazione di stabilizzazione di lavoro precario del passato: mi riferisco agli effetti della “circolare Damiano” del 2006 diretta a combattere l’uso abnorme delle collaborazioni nei call centers. Ebbene, le operazioni di trasformazione a lavoro dipendente (il più delle volte a part-time) ebbero certamente effetti positivi sul piano normativo, ma del tutto trascurabili sul piano salariale per effetto dell’(allora) differenziale contributivo e fiscale tra lavoro autonomo e dipendente che venne “compensato” limitando la quantità di ore del rapporto dipendente. La questione delicata, già sperimentata con i percettori di reddito di cittadinanza, è l’effetto negativo che una misura analoga potrebbe avere sull’impegno collettivo o individuale per incrementi salariali il cui effetto fosse la semplice riduzione del sostegno pubblico (e qui ritorna la giusta preoccupazione di pensare lo strumento come integrativo di salari ritenuti adeguati sia contrattualmente che legalmente). Come molte esperienze anche europee hanno dimostrato, l’efficacia degli in-work benefits è tale se si prevede un’area reddituale di integrazione e non di esclusività tra il salario e il sostegno pubblico; e comunque il sostegno pubblico non può certamente supplire o peggio sostituire l’iniziativa sindacale per retribuzioni adeguate.

Il tema della qualità (e della dignità) del lavoro non può poi essere eluso, in particolare a fronte delle trasformazioni presenti e future, che richiedono manodopera sempre più qualificata ma – soprattutto – in grado di prendere decisioni e non solo di eseguire mansioni predefinite. Il tratto dominante delle misure succedutesi nel corso di questi trent’anni è rappresentato dalla ricerca di “flessibilità” ottenuta sia indebolendo l’eccezionalità del ricorso a forme di lavoro non stabili (l’abolizione delle causali per l’attivazione del contratto a termine o di somministrazione), sia moltiplicando le forme d’impiego, sia rendendo sempre meno stringenti i vincoli alla esternalizzazione di attività o di parti del ciclo produttivo: penso sia giunto il momento di fare i conti con questa “tradizione” che non solo nega il valore del lavoro come realizzazione della persona previsto dalla Costituzione, ma si dimostra inefficace e controproducente rispetto al fine dichiarato – la crescita dell’occupazione. Ho richiamato i dati che mostrano impietosamente il fallimento su tale fronte, ma effetti negativi si sono avuti anche rispetto alla produttività. Senza ipotizzare nessi esclusivi di causalità possiamo dire che si è scelto di scaricare sul lavoro quanto non si è potuto (o voluto) fare sul piano della struttura produttiva, degli investimenti e della riconversione dell’apparato economico; in altre parole si è scelto di scaricare sul lavoro il costo della globalizzazione. Del resto, nell’Introduzione al Libro Bianco del 2001 è scritto con chiarezza quanto si sarebbe poi sviluppato. Bene, è giunto il momento di tirare una riga, scegliere un’altra strada.

Per concludere, alcuni timidi segnali possono essere colti: ne indico tre, avvolti da totale silenzio, ma presenti nell’ultima legge di bilancio. Il primo è l’introduzione dell’obbligo nelle procedure degli appalti pubblici di applicare in tutta la catena del subappalto il CCNL dell’attività prevalente e applicato dall’impresa appaltante; il secondo è l’annuncio di una riforma dello stage che chiarisca definitivamente la sua natura di attività formativa e non lavorativa, che va comunque tutelata dai rischi insiti nell’ambiente di lavoro, come drammaticamente provato dalla vicenda di Lorenzo Parelli e giustamente ricordato dal Presidente Mattarella in Parlamento; il terzo è il riconoscimento ai lavoratori (più spesso lavoratrici) a part-time verticale di un sostegno per i periodi di non lavoro. Voglio soffermarmi su quest’ultimo punto, perché potrebbe aprire prospettive nuove ed interessanti. La norma pone fine al contenzioso che ha visto negli anni contrapporsi il sindacato in rappresentanza delle lavoratrici e l’Inps riguardo a come considerare il periodo di non lavoro delle inservienti delle mense scolastiche, costrette oggettivamente (chiusura dei luoghi di lavoro) a non svolgere la prestazione in alcuni mesi: per l’Inps e, ahimè! anche la Corte Costituzionale, questi periodi di forzata inattività non potevano essere indennizzati con la NASpI perché…”i lavoratori sapevano che sarebbe successo” e pertanto la loro disoccupazione non era involontaria! Ora – a distanza di oltre venti anni! – si ammette che quei periodi di forzata inattività sono periodi in cui le lavoratrici restano a disposizione, e pertanto vanno coperti non solo previdenzialmente ma anche dal punto di vista economico. Possiamo, da questa specifica vicenda, trarre un insegnamento più generale? Ci viene raccontato che il futuro sarà sempre più caratterizzato da trasformazioni continue e profonde dell’organizzazione del lavoro, che bisognerà rafforzare sempre più la formazione continua, che la vita lavorativa sarà sempre più fatta di pieni e di vuoti, ecc.: bene, perché un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e quindi stabile, ma con possibilità di definire, attraverso la contrattazione, la prestazione lavorativa in termini variabili e debitamente predeterminati (calendari annui) e, in ogni caso, con copertura del reddito e della previdenza per tutti i periodi, non dovrebbe essere l’ipotesi di riferimento per il futuro, al posto della congerie di misure che ci portiamo appreso da oltre venti anni?

 

*Una versione più ampia di questo articolo è in via di pubblicazione sul numero 1/2022 di Critica Marxista

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