Ricostruire il passato, decostruire il presente. Stefano Fenoaltea (1943-2020)

Alberto Baffigi e Giacomo Gabbuti ricordano Stefano Fenoaltea, economista e storico economico, tra i pionieri della cosiddetta “cliometria”, scomparso il 14 settembre 2020. In particolare, Baffigi e Gabbuti si soffermano sul suo meticoloso "ricostruire il passato" e ricordano le sollecitazioni metodologiche di Fenoaltea, che negli ultimi anni aveva sistematizzato una profonda riflessione lunga mezzo secolo sul rapporto tra realtà e misurazione, e sull’idea stessa di progresso.

Stefano Fenoaltea, economista e storico economico, è mancato improvvisamente il 14 settembre 2020. Figlio di Sergio – partigiano azionista, dopo la guerra ambasciatore in Cina, Canada, Belgio e Stati Uniti – Stefano si era formato come economista negli States degli anni ‘60. Dopo la laurea a Georgetown, si sposta ad Harvard dove, nonostante accesi dissidi con un gigante della storia economica mondiale come Alexander Gerschenkron, otterrà il PhD (1968). La sua tesi, Public Policy and Italian Industrial Development, 1861-1913, sarà il primo di una serie di contributi che lo avrebbero consacrato tra gli storici economici più importanti della sua generazione, e tra i pionieri della “new economic history”, volgarmente detta cliometria. Dopo aver insegnato in diverse università statunitensi e italiane (nel decennio prima della pensione, dal 2003 al 2013, all’Università di Roma “Tor Vergata”), Fenoaltea era Fellow della Fondazione Einaudi di Torino, che poche settimane prima della sua scomparsa, aveva dato alle stampe e reso disponibile gratuitamente online il suo ultimo lavoro, Reconstructing the Past. Revised Estimates of Italy’s Product, 1861-1913.

Dopo i primi lavori di Kuznets, negli anni formativi di Stefano la statistica economica aveva mosso i primi passi verso la formazione di standard internazionali per la misurazione dell’attività economica, utili come strumento di confronto tra paesi e per studiare l’evoluzione storica di una singola economia. La storia economica si trovava invece in uno stato secondo alcuni arretrato. Nel nostro Paese, in particolare, gli storici economici ritenevano di poter fare a meno della teoria economica – quella che, come Stefano non si stancava di ricordare a chi pensava che bastasse applicare metodologie econometriche alla moda, costituiva la vera essenza della “rivoluzione cliometrica”; e ciò nonostante diversi ne avessero già spiegato l’importanza (a lui piaceva ricordare Luigi Einaudi, fondatore di quella Rivista di Storia Economica su cui molti suoi contributi avrebbero trovato spazio). Stefano ha combattuto questa “battaglia” lungo l’intero corso della sua vita fino agli ultimi anni, in cui all’instancabile attività di revisione delle stime del Pil e dell’industria italiana nell’età liberale aveva affiancato una esplicita, profonda riflessione sulla metodologia e l’evoluzione della storia economica. Una riflessione che aveva stimolato un vivace dibattito, come testimoniato dal numero speciale degli Annali della Fondazione Einaudi pubblicato lo scorso anno, e che aveva appena trovato una sistemazione felicissima proprio nella prima parte del suo ultimo libro.

Quello del rapporto tra fonti storiche, dati e teoria economica è il primo, forse principale insegnamento metodologico di Stefano. Qualsiasi cliometrico non avrebbe difficoltà a sostenere che la storia economica si fa coi dati, e che i dati debbano essere interpretati con la teoria economica; ma la questione non è così semplice, e forse è anche fuorviante vederla in questo modo. Per Stefano, un “cliometrico” di questo tipo non è uno storico, ma un economista che usa i numeri di ieri invece che quelli di oggi: pretendere di separare rigorosamente i “fatti” dalle teorie che servono per interpretarli era per lui un residuo paleo-positivista, orgogliosamente e rozzamente coltivato dagli economisti, che aveva influenzato anche i cliometrici. Questi, secondo Stefano, avevano accettato, anzi perseguito, l’obiettivo di divenire studiosi che applicano una scienza, un sapere ritenuto scientifico come l’economia, a “fatti” accaduti nel passato: dimenticando le difficoltà metodologiche connesse alla codifica di tali fatti e non riconoscendo l’indispensabile creatività richiesta nel trasformare le vicende economiche in cifre, i cliometrici fallivano come storici. Per Stefano, la storia economica era invece prima di tutto l’arte dei dati: il maggior delitto degli storici era di lasciare la loro “raccolta” agli studenti o agli assistenti di ricerca; così come quello degli economisti è farsi fornire i dati da enti governativi senza mettere mai in discussione convenzioni statistiche nate da precise finalità, da esigenze storicamente determinate (e farebbe bene chi, proprio in questi giorni, derubrica a pseudo-scienza la critica del Pil a leggere cosa ne pensava uno studioso che ha passato la vita a ricostruirne la serie storica). La vicenda della Review of Economic Statistics, fondata per individuare i più corretti “barometri” dell’andamento economico, ma poi rinominata più “modestamente” Review of Economics and Statistics, appariva come metafora esemplare del fallimento dell’economia, “scienza” che rinunciava alla costruzione e alla validazione della propria evidenza empirica.

Stefano ricordava le lezioni di Paul Samuelson, che già negli anni ‘60 si vantava di far leggere ai propri studenti solo articoli scritti negli ultimi tre anni, e sosteneva che ogni graduate student presente fosse un economista migliore di Keynes. Una visione che Stefano giudicava passatista, degna di un positivista ottocentesco; con i postmodernisti francesi, Stefano credeva che molti di quelli che consideriamo “fatti” sono, in ampia misura nostre convinzioni. La riflessione di Stefano investiva ovviamente anche la storia economica quantitativa, pur avendo scelto di dedicare alla ricostruzione minuziosa della contabilità nazionale e della produttività dell’Italia liberale gran parte della sua vita e di quello che non possiamo che definire il suo genio. Un genio capace di spaziare tra i grandi temi della disciplina mondiale, tanto da vincere i più prestigiosi premi con un articolo, Slavery and Supervision in Comparative Perspective: A Model, che gli valse l’offerta di un importante editore accademico internazionale di scrivere una storia globale della schiavitù (tema al quale si erano già dedicati non pochi cliometrici statunitensi, a partire da quel Robert Fogel insignito qualche anno più tardi del Nobel per l’economia).

Non era un eterodosso in economia: i suoi riferimenti teorici erano rigorosamente neoclassici, ma la maestria con la quale maneggiava la logica economica rendeva i concetti economici strumenti duttili nelle sue mani di storico. Influenzato dalla ricerca in campo antropologico – con cui si era confrontato profondamente nell’anno trascorso come visiting all’Institute for Advanced Study – Stefano aveva ben chiaro che le “scienze sociali” (rigorosamente fra virgolette) non sono costituite dall’accumulazione di conoscenza obiettiva. Anche la storia economica, pure quando ben combina fatti e teoria, era per lui la versione contemporanea di quelle che i nostri antenati usavano raccontarsi attorno al focolare; la proiezione, in ultima istanza, dell’immagine che abbiamo di noi stessi, modellata da timori e aspirazioni contemporanee, come scriveva nell’introduzione alla versione internazionale del libro sull’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra. I racconti che Stefano non poteva proprio sopportare, però, erano quelli che, soprattutto dall’Ottocento, hanno cercato di dimostrare che la storia coincide con il progresso, in particolare di quello tecnico, orgoglio e miracolo del mondo occidentale, elevato a vera e propria religione in nome della quale distruggere culture e giustificare conquiste coloniali: era il racconto della cosiddetta Whig history – l’ottimismo ideologico al servizio della storiografia – per molti versi simile all’interpretazione “fideistica” del marxismo, che vedeva nel socialismo l’ultimo stadio di un’ascesa continua. Nell’introdurre il suo corso di European Economic History, una vera e propria pièce affinata in decenni, Stefano metteva i suoi studenti in guardia da questo vizio, di cui eran preda gran parte degli economisti (veri e propri sacerdoti della religione del progresso), annunciando la sua adesione al gruppo di chi pensava che, letteralmente, dal Giardino dell’Eden in poi la storia umana fosse stata una storia di regresso. Dalle ricerche sul peggioramento delle condizioni di vita seguite all’introduzione dell’agricoltura, al classico dibattito sulle conseguenze della rivoluzione industriale, la storia che insegnava Stefano metteva in guardia dal vedere il mondo come esito inevitabile delle magnifiche sorti e progressive; per questo, era rimasto tra i pochi a far leggere Polanyi in una facoltà di economia, pur contestandogli l’idea stessa di una “nascita” dell’economia di mercato (che nel suo modo tutt’altro che riduzionistico, Stefano vedeva però presente in tutta la storia umana).

Le riflessioni di Stefano non sono però un attacco alla cliometria, come pure hanno creduto alcuni cliometrici, quanto piuttosto una acuta difesa di quella che riteneva la sua vera essenza. Sono critiche “dall’interno”, fondate empiricamente – su fonti storiche, e sulla stessa pratica estenuante di questa disciplina. Per Stefano, l’applicazione rigorosa della teoria e il vincolo delle fonti restringono il campo delle narrazioni storiche possibili, ma non lo determinano univocamente; lo orientano, ma poi, ricordava sempre, deve entrare in campo l’opera del narratore, lo storico, con le sue sensibilità e idiosincrasie. In una nota a piè di pagina, osservava che non sapremo mai se Copernico fu il primo scienziato dotato del genio necessario a comprendere la capacità esplicativa del modello eliocentrico, o il primo a combinarla con un desiderio misantropico di rimuovere l’umanità da quella posizione privilegiata, al centro del creato, che l’aveva confortata per tanti secoli. In fondo, Stefano ha agito come un Copernico della storiografia: ha passato una vita a dimostrare che il progresso è un concetto evanescente, che l’uomo (il maschio, ebbe a scrivere) occidentale ha inventato per autoglorificarsi. Per spodestarci, Stefano ha usato il suo genio, mostrando come centinaia di migliaia di numeri, sparsi in centinaia di pubblicazioni, nei formati più vari, potessero trovare un senso. Ma nel farlo ci ha mostrato che la storia in ampia misura procede per un cumularsi di eventi non prevedibili, incontrollabili, di cui forse nessuno può attribuirsi il merito; soprattutto, non scaturiscono in posizioni finali, acquisite una volta per tutte (contrariamente a certa letteratura sulla “persistenza”). Va letta in questo senso la polemica più importante che ha destato la sua ricerca, quella sull’interpretazione dello sviluppo economico italiano nel periodo giolittiano: Stefano ha sempre sostenuto con le sue ricostruzioni statistiche e interpretazioni che non vi fu un take-off, un passaggio a una nuova fase dello sviluppo. Ritornava qui la sua polemica contro una tipica Whig history, la filosofia della storia rostowiana, che postulava l’esistenza di cinque “stadi” ineludibili nel cammino dell’industrializzazione: una specie di imprescindibile sentiero. Nel caso italiano, prima negando empiricamente il ruolo della “banca mista” (l’”agente sostitutivo” posto da Gerschenkron alla base del decollo italiano), poi spiegando come tutte le accelerazioni e ricadute del ciclo economico prima della Grande Guerra fossero interamente spiegabili dall’andamento, in ampia misura erratico, del mercato britannico dei capitali, Stefano puntava il dito contro l’umana pretesa di ricondurre le nostre sorti a scelte e azioni ben identificabili – l’imperizia di un Crispi, il pragmatismo di un Giolitti. Da uomo laico, Stefano detestava tutto ciò che non traesse origine dalla realtà concreta; voleva abbattere i costrutti artificiosi, metafisici, cui è pericolosamente facile adattarsi per pigrizia mentale o per interesse. A tutto questo è riconducibile qualsiasi filosofia della storia. Per questo ci ha indicato continuamente il mondo economico nei suoi dettagli più reconditi, perché solo il corpo a corpo con la realtà può renderci consapevoli della immensa difficoltà nella quale inevitabilmente ci imbattiamo per conoscerla.

Il lavoro di Stefano, forse paradossalmente, ha dato dignità scientifica alla cliometria, innalzando l’umiltà nel conoscere storico a necessaria sostanza metodologica. Il suo lavoro, il suo insegnamento, le sue riflessioni, sono stati fonte inesauribile di sfida intellettuale per generazioni di suoi studenti. Lo sono certamente stati per chi come noi ha avuto la fortuna di stabilire con lui un rapporto di amicizia negli ultimi anni romani, accompagnando la combustione di uno dei suoi inseparabili sigari all’ombra delle palme di Villa Hüffer, in Banca d’Italia. C’è da augurarsi che i suoi insegnamenti rimangano una lezione per le generazioni future, di economisti e di storici, cliometrici e non.

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