Ricordando Luciano

E’ stata la corruzione a farmi incontrare Luciano Barca. Circa  venti anni fa,  lui aveva in animo  di organizzare un convegno  su quel tema (che poi si tenne, a giugno del 1993) e qualcuno gli fece il mio nome. Credo, dunque,  di avere un debito con la corruzione.  Un debito enorme, a dire il vero. Perché è enorme quello che ho potuto prendere  da Luciano. I suoi racconti, che lui pescava con naturalezza nella sua  prodigiosa memoria, sono stati per me come favole fuori tempo massimo.  I  suoi progetti, quelli che esondavano dalla sua energia creatrice, sono stati  sfide che  è stato bello raccogliere. Il suo  sguardo sul mondo, che non sapevo capire da dove venisse, è stato come uno specchio che rifletteva piccole meraviglie. Il suo modo di costruire ponti, un’arte – appunto!– che  ho ammirato. E la sua risata,  un piacere che infinite volte mi ha alleggerito l’animo.  A Luciano, uomo straordinario, vorrei chiedere di far risuonare ancora molte volte, almeno nella memoria di quanti  gli hanno voluto bene, quella risata,  limpida e gentile.

Maurizio Franzini

Penso a Luciano e vedo i suoi occhi. Svelti, profondi, ironici. Da combattente. Comunista, certo. Ma prima ancora, ufficiale della Regia Marina.
L’altro giorno, riordinando la libreria, mi è capitato tra  le mani il suo libro più rivelatore – Buscando il mare con la Decima Mas (Editori Riuniti, 2001). Ho riletto le pagine drammatiche sull’8 settembre, quando Luciano si trovò d’improvviso a dover scegliere e scelse bene. La sua comunità militare sbandava senza ordini. La maggioranza puntò verso casa; alcuni irriducibili vollero salvare l’”onore”, scambiando per onore la fedeltà all’”alleato” nazista, che già stava invadendo la patria; altri, tra cui Luciano, mossero contro il nuovo nemico.
Chissà quante altre volte, da dirigente del Partito comunista italiano che tuttavia restava un intellettuale e uno studioso, Luciano affrontò il dilemma fra appartenenza e indipendenza. Fino all’ultimo, Luciano è rimasto un combattente per le sue idee, non per il gusto di aver ragione, ma perché voleva avere ragione insieme. E sono sicuro che avrà spesso ripensato, nei momenti della scelta, a quell’8 settembre in Corsica. Egli stesso volle confessarsi il 21 novembre 1980, di fronte alle gerarchie di partito riunite per festeggiarlo a Botteghe Oscure, debitore verso la Regia Marina: “Per il peso che ebbero, nel determinare il mio carattere, la guerra, il mare, la durezza di certe scelte, la disciplina, e, soprattutto, la responsabilità della vita di altri uomini”. Così sei stato, Luciano, così ti ricordo.

Lucio Caracciolo

Di Luciano ho conosciuto bene l’intelligenza e la passione, e soprattutto la capacità di coltivare assieme, sino alla fine, l’una e l’altra. Qui vorrei dire, per la modesta parte che mi riguarda, solo della sua civiltà umana e intellettuale, e del suo senso dell’amicizia. Mi diede riparo, lui, berlingueriano, a Rinascita, quando vivere sotto roventi accuse di scarso berlinguerismo a Paese sera (direttore Peppino Fiori, condirettore Piero Pratesi) mi era divenuto impossibile. I rapporti di Luciano con la redazione erano tesi, il mio arrivo di sicuro non li migliorò. Ma tra noi civilmente, amichevolmente, convergemmo e divergemmo in una stagione nel Pci difficilissima, quella del Berlinguer della “seconda svolta di Salerno” e dello scontro senza quartiere a sinistra: ricordo molte discussioni, nessuna censura. E civilmente, amichevolmente ci separammo (e all’epoca la cosa non era affatto ovvia) quando io decisi che per me il tempo del Pci e del giornalismo di partito era finito. Anche per convincermi a restare (non ci riuscì, e naturalmente non se ne fece un dramma), volle che lo accompagnassi in Unione Sovietica, per restituire una visita del Kommunist, nel dicembre del 1981, pochi giorni prima dello strappo di Berlinguer. Conservo di quel viaggio, di cui c’è traccia nei diari di Luciano, ricordi incredibili, e una foto che volle scattarmi facendo fermare l’autista in aperta campagna in mezzo alla neve, come si fa con gli amici e i compagni cui si vuole bene. Adesso che non c’è più, mi addolora pensare che rapporti simili con persone simili appartengano ormai quasi inesorabilmente al passato.

Paolo Franchi

Quando cominciai la mia esperienza parlamentare Luciano Barca era, da molto tempo, un punto di riferimento per le politiche economico-sociali: era membro della Direzione (che non era, come ora, un’assemblea popolare ma un ristretto organo di decisione reale), dirigendo la Sezione di politica economica. Era anche, come emerge dai suoi diari, uno dei protagonisti del dialogo, riservato, con i cattolici.
Il lavoro parlamentare non era per quei dirigenti un fastidioso adempimento burocratico. A prescindere dalle disposizioni formali su L’Unità (“presenza senza eccezione alcuna” impegnava anche il Segretario generale del Partito) i dirigenti frequentavano l’Aula e le Commissioni ritenendoli la sede del confronto, dell’affinamento delle posizioni. Il loro lavoro non consisteva soltanto nel trasferire in una sede pubblica elaborazioni compiute in altre sedi ma anche nella formazione di un gruppo dirigente che quelle politiche potesse contribuire ad elaborare.
Fu così che fui “arruolato” da Luciano per collaborare alla sua sezione di lavoro, in materia di politiche industriali e di bilancio. Nel PCI, che era assai meno monolitico di quanto si racconti, le nostre posizioni (pur nella sproporzione dei ruoli) non furono coincidenti ma la scelta dei collaboratori era fatta privilegiando non la “fedeltà” ma il lavoro. Luciano contribuì ad insegnarmi che le differenze di posizioni politiche erano un valore ed un arricchimento dell’elaborazione complessiva del Partito e, in questo quadro, mi stimolò sempre ad esprimere posizioni senza reticenza. Mi aprì la strada alla partecipazione alle sedi più ristrette di elaborazione parlamentare di provvedimenti fondamentali (la riforma della contabilità di stato, la legge di riconversione industriale). Fu tra i quadri decisivi della mia formazione parlamentare.
Così lo ricordo con affetto e nostalgia.

Giorgio Macciotta

Io Luciano l’ho conosciuto tardi. L’ho incontrato la prima volta forse quando era all’ultimo mandato di senatore. Solo diverso tempo dopo, ho avuto la fortuna di partecipare agli incontri e alle riunioni di Etica e Economia, la sua Associazione. Mi piaceva molto e mi incuteva soggezione, così che non ebbi mai il coraggio di dirgli una cosa, anche se probabilmente gli avrebbe fatto piacere. Gliela dico adesso. Così magari quando ci rivediamo ne parliamo.
La cosa è questa. E’ lo stupore, quasi lo sconcerto, nel vedere come riusciva a parlare e capire i giovani, quelli che ogni tanto venivano alle riunioni. Io da almeno quindici anni non ci riesco più. Lui sì, lui che aveva esattamente ventisei anni più di me, e che era stato ed era ben più importante.
Ho cercato di capire come mai. Ho letto i suoi scritti e, adesso, credo di aver capito. Tale sua capacità si spiega, penso, leggendo questi due passi tratti da un suo scritto autobiografico. Il Primo è questo:
“Novembre 1945 […] Congresso grammatico. […] finalmente la tesi prevale. A maggioranza, dopo ripetuti appassionati interventi di Rodano, viene approvata la mozione favorevole alla scioglimento [del Movimento dei Cattolici Comunisti] firmata da Franco Rodano, Felice Balbo, Luciano Barca, Gabriele De Rosa, Mario Motta, Filippo Sacconi. Ognuno sceglierà il futuro secondo coscienza. Io mi reco alla sezione Salario in via Sebino e presento domanda di iscrizione al PCI sottolineando nel testo della domanda che lo faccio anche grazie al nuovo statuto che assicura libertà filosofica e religiosa.”
E questo è il secondo:
“Ci sono generazioni che hanno vissuto in epoche in cui la geografia socio culturale, politica e perfino antropologica era nettamente delineata. I confini tra l’una e l’altra area erano nettamente segnati […]. E ci sono state epoche in cui i confini che appaiono ben netti nei libri di storia e che erano pur segnati […] da marcate contrapposizioni […] apparivano in alcuni momenti al singolo, soprattutto se giovane, più difficili da individuare. […] In particolare l’indeterminatezza dei confini pesava su quanti […] dovevano costruirsi ogni giorno, o quasi, norme di comportamento. La mia generazione ha vissuto tutto ciò attraversando queste epoche diverse”.

Gilberto Seravalli

Ho voluto bene a Luciano.
Per la capacità di esprimere l’affetto, per l’impegno morale, per la passione politica, per la curiosità intellettuale, per la libertà interiore, per la coerenza, per l’ironia.
E per altro ancora che non so spiegare.

Marco Magnani

Ho incontrato Luciano Barca nel giugno 1977. Il Ministro del Tesoro, Stammati, aveva organizzato un incontro molto riservato per presentare il progetto di Certificati di credito del Tesoro (CCT). Stammati venne accompagnato da me, che ero il suo Consigliere, e Barca da Luigi Spaventa. Ricordo ancora  che l’incontro avvenne in una stanza che faceva parte del Teatro Eliseo, alla quale si accedeva per una porticina laterale, dalla strada. Era pur sempre un incontro tra Governo e opposizione…..
Nel 1977 collocare titoli di stato a medio lungo termine era praticamente impossibile; il Tesoro riusciva a vendere solo BOT a tre e sei meni , e la montagna dei rinnovi cresceva ogni mese, con effetti destabilizzatori. Era stato perciò progettato, d’intesa con la Banca d’Italia, un titolo indicizzato ai BOT, che si sperava potesse incontrare il favore delle famiglie. Si voleva che anche il PCI fosse d’accordo.
Spaventa e Barca ci ascoltarono con attenzione; fecero domande molto tecniche; apparvero subito favorevoli, ma si riservarono un giudizio finale.  Questo fu dato in un successivo incontro tra Barca e Stammati, ed era positivo..
Il mio ricordo di Luciano Barca è quello di una persona che parlava poco, che usava termini appropriati, che non faceva riferimenti a pregiudiziali politiche, e che un poco mi intimidiva con un riserbo cortese, ma fermo.
La sua pronta approvazione del progetto contribuì certamente a far nascere quello che negli anni seguenti sarà per le famiglie l’impiego finanziario più sicuro e  di maggior successo, e per lo Stato una prima via d’uscita dai suoi problemi.

Maria Teresa Salvemini

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