Ricchi, poveri e debito pubblico

Civil servant richiama l’attenzione su due conseguenze del debito pubblico poco considerate. La prima è che gli interessi sul debito detenuto dai residenti determinano una redistribuzione del reddito a favore dei più ricchi. La seconda riguarda il debito detenuto dai non residenti e consiste nel fatto che se la crescita del Pil nominale è inferiore agli interessi pagati ai non residenti, l’intero paese si impoverisce. Civil servant sostiene anche che la politica della BCE e delle altre banche centrali ha contenuto solo in parte questo fenomeno.

Quando si parla del debito pubblico si fa riferimento soprattutto alla sua sostenibilità, ovvero al peso sulle finanze pubbliche e alla capacità del mercato di assorbirlo in cambio di una remunerazione ragionevole. In realtà il debito sovrano ha effetti significativi anche sul benessere e sulla distribuzione dei redditi. Il pagamento degli interessi, infatti, comporta un trasferimento di risorse a favore dei creditori, che generalmente sono anche i più ricchi. Quando il debito è contratto nei confronti di operatori esteri i rimborsi e il pagamento degli interessi riducono le risorse a disposizione del mercato interno.

La sostenibilità del debito viene generalmente valutata in relazione alla crescita del Pil nominale, che deve essere superiore ai tassi di interesse se si vuole stabilizzare o ridurre nel tempo il rapporto tra debito e Pil mantenendo il bilancio pubblico in pareggio. Si tratta di una condizione individuata da Domar negli anni Sessanta e posta alla base delle regole fiscali europee. Tuttavia, le politiche di austerità “raccomandate” dall’Europa per ridurre il peso del debito possono portare ad una crescita del Pil nominale talmente bassa da rendere impossibile il rispetto della condizione di sostenibilità, perfino con una politica monetaria che ha portato i tassi di interesse sotto zero. Lo prevedono anche modelli molto ortodossi come quello di DeLong e Summers e soprattutto lo ha dimostrato la disastrosa esperienza greca, che ha convinto perfino il Fondo Monetario a fare autocritica, seppure post mortem (come titola un noto articolo di Alexiou e Nellis. Qualcosa di simile è successo anche in Italia negli ultimi decenni, anche se l’onere complessivo per la gestione del nostro debito (per interessi e rimborsi) è sempre stato abbastanza contenuto e attualmente è pari ad appena il 3.5% del Pil (dopo aver toccato un picco del 5% durante la crisi dei debiti sovrani).

Questo bel gruzzolo (circa 64 miliardi l’anno) viene raccolto tra tutti i contribuenti ma finisce solo nelle tasche dei possessori di BOT, BPT, ecc., che generalmente sono anche i più ricchi, in ossequio al detto secondo cui i soldi producono altri soldi e le zecche solo zecche*. Ovviamente, se il debito pubblico serve a creare infrastrutture ed a finanziare programmi di cui usufruiscono soprattutto i meno abbienti (p. es.: case popolari, scuole, ospedali, servizi sociali, ecc.), ossia se è debito “buono” come si usa dire ultimamente, anche questi ultimi riceveranno qualche vantaggio. Tuttavia è difficile sostenere che questi benefici possano compensare le imposte versate in più dai poveri per pagare gli interessi ai rentier, visto che questi ammontano a circa un sesto del valore complessivo dei servizi pubblici (con un markup che sarebbe decisamente eccessivo).

Finché i titoli pubblici e i relativi interessi rimangono all’interno del circuito dell’economia nazionale, il debito sovrano potrebbe anche essere considerato un prestito che la mano destra fa alla sinistra, come sosteneva l’illuminista Jean-François Melon de Pradou nel ‘700. Ma se una parte del debito è detenuta da non residenti le cose si complicano, perché il pagamento degli interessi e il rimborso del capitale comportano anche un trasferimento di risorse verso l’estero, che finisce per impoverire l’intero paese emittente. Naturalmente è possibile compensare il deflusso di capitali e interessi con investimenti reali o finanziari in altri paesi che rendano altrettanto, ma ciò aggrava gli effetti redistributivi del debito perché sono sempre i più ricchi a trarre vantaggio da queste operazioni. Anche gli investimenti all’estero sottraggono risorse al mercato ed alla crescita interna se non avvengono in regime di reciprocità. Purtroppo non è questo il caso dell’Italia, dove storicamente gli investimenti diretti all’estero superano di gran lunga quelli del resto del mondo nel nostro paese, con un saldo che nel 2019 era pari al 5.5% del Pil e nel 2013 era addirittura del 7.6%. Quindi nel nostro paese l’emorragia di risorse continua da anni e non è affatto compensata da flussi in senso contrario.

La fuga dei capitali ha frenato lo sviluppo o addirittura ha provocato il crollo di parecchi paesi emergenti come l’Argentina. Non a caso Fondo monetario internazionale e Banca mondiale inseriscono il peso degli interessi sul debito estero tra gli indicatori sulla sostenibilità del debito dei paesi in via di sviluppo. Per valutare, almeno in prima approssimazione, a quanto ammonta l’emorragia di risorse legata al debito pubblico, si può moltiplicare il costo complessivo del debito per la quota di debito detenuta dai non residenti, assumendo che la composizione del debito estero sia uguale a quello interno.

Si tratta comunque di una semplificazione, perché parte dei creditori non residenti sono controllati da residenti (ad esempio tramite fiduciarie o incroci proprietari) e viceversa. Inoltre una frazione significativa di titoli pubblici emessi dai paesi dell’area dell’euro è detenuto dalla la Banca Centrale Europea (BCE), che statisticamente è classificata tra i soggetti non residenti e che restituisce parte degli interessi ai paesi emittenti. La BCE, infatti, versa alle banche centrali nazionali, che sono i suoi azionisti, la maggior parte degli interessi sotto forma di dividendi, e queste li retrocedono quasi tutti ai propri governi, come riportano le “Considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia per spiegare l’avanzo di gestione dell’Istituto. Pertanto, all’interno dell’Eurozona la quota di debito attribuito statisticamente ai non residenti potrebbe sovrastimare lievemente l’esborso di interessi netto a loro favore. Ad esempio, i titoli pubblici italiani attualmente nelle casse della BCE ammontano a circa 170 miliardi, pari al 6.4% del debito totale, e fruttano interessi dell’ordine di un paio di miliardi l’anno. Ciò ha consentito di alleggerire il peso netto del servizio del debito italiano posseduto dai non residenti tra 0.1 e 0.4 punti di Pil durante l’ultimo quinquennio. Grazie alla “generosità” della BCE, è probabile che non si sono registrate perdite di risorse reali nel 2018 e nel 2019, contrariamente a quanto appare dal Grafico 1.

Grafico 1 – Crescita reale e interessi sul debito pubblico in Italia

Fonte: Elaborazioni su dati AMECO e BCE

(a) In percentuale del Pil nominale dell’anno precedente.

Pur tenendo conto di queste ed altre imprecisioni, gli interessi attribuiti statisticamente ai non residenti vanno a ridurre l’ammontare del Pil nominale che può essere distribuito a lavoratori e imprenditori nazionali. Se poi questa parte di interessi supera anche la crescita del Pil al netto dell’inflazione, allora si verifica una perdita di potere d’acquisto per l’intera economia, che però si ripercuote solo su chi non ha redditi dall’estero. Invece, per i cittadini che possono contare solo su redditi da lavoro o capitale domestici, gli interessi sul debito estero riducono il reddito che potrebbe essere per loro disponibile a fini di consumo o risparmio. Quindi il benessere materiale della maggioranza dei cittadini, o almeno la loro capacità di spesa, può diminuire anche con un Pil reale in crescita e un debito pubblico giudicato “sostenibile” secondo gli standard europei.

Il divario tra crescita del Pil e la stima deli interessi sul debito pubblico versati all’estero è riportato nella Tabella 1. Dal 1995 al 2019, in tutti i paesi, eccetto Grecia e Giappone, il saldo dei due flussi a prezzi correnti è stato positivo e quindi non si è verificato alcun impoverimento in termini nominali. Tuttavia, se si considera la crescita al netto dell’inflazione, il deflusso di interessi ha provocato una riduzione del potere d’acquisto complessivo anche in Austria, Belgio e Italia. Prima della Grande recessione perfino la Germania è stata lievemente danneggiata dal servizio del suo debito estero. Dopo il 2007 hanno dovuto fare fronte ad un deflusso di risorse Austria, Belgio, Francia, Grecia e Spagna, oltre al nostro paese. Si noti che la lista dei “perdenti” non comprende soltanto i soliti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), ma anche paesi considerati virtuosi come la Germania (prima del 2007), l’Austria e la Francia. Invece l’Irlanda, che ha un debito abbastanza elevato rispetto al Pil e collocato in gran parte all’estero, si è salvata solo grazie ad una eccezionale dinamica dell’attività economica.

 

Tabella 1 – Crescita e interessi sul debito pubblico

(medie annuali)

PaeseInteressi a non residenti (a)Perdita nominale (b)

1995-2019

Perdita reale (b)
1995-20191995-20072008-2019
Austria1.9%1.5%-0.6%-0.4%-0.6%
Belgium2.0%1.4%-0.5%-0.5%-0.5%
Denmark0.8%2.5%0.6%0.5%0.6%
France1.3%1.6%0.1%0.5%-0.3%
Germany1.2%1.3%0.0%-0.1%0.2%
Greece3.0%-0.3%-2.5%0.3%-5.1%
Ireland1.1%5.7%3.7%5.0%2.8%
Italy1.6%0.4%-1.3%-0.8%-1.8%
Netherlands0.8%2.7%1.0%1.7%0.3%
Spain0.8%2.8%1.2%2.7%-0.3%
Sweden0.8%3.4%1.5%1.6%1.4%
United Kingdom0.6%3.1%1.4%2.5%0.3%
United States0.9%3.2%1.5%2.3%0.6%
Japan0.4%-0.2%0.5%0.8%0.2%

Fonte: elaborazioni su dati AMECO, Banca Mondiale, BCE e fonti nazionali.

(a) In percentuale del Pil nominale dell’anno precedente, stima basata sulla quota di debito detenuta dai non residenti.

(b) Differenza percentuale tra la crescita annua del Pil e il peso degli interessi versati ai non residenti. Un numero negativo indica una perdita.

Gran parte di queste differenze dipendono dalla allocazione del debito tra investitori nazionali ed esteri. Ad esempio il Giappone, con un rapporto tra debito e Pil che supera da tempo il 200% è riuscito a contenere le perdite grazie ad una quota di debito estero mediamente inferiore al 16% del totale. Al contrario, Austria, Francia, Germania e Irlanda, che registrano un indebitamento complessivo molto minore, sono penalizzati dalla rilevante quota dei rispettivi titoli presenti nei portafogli stranieri, che va dalla metà a tre quarti delle emissioni totali.

Dal 1995 ad oggi la perdita di potere d’acquisto degli italiani legata al debito (in media 1.3 punti di Pil ogni anno) è stata seconda solo a quella della Grecia ma, come si vede dal Grafico 1, i cali sono concentrati durante la Grande Recessione, la successiva crisi dei debiti sovrani e naturalmente la pandemia. Negli altri anni la stentata crescita dell’economia è stata quasi sempre superiore o vicina al deflusso di interessi verso l’estero. La dei fuga di capitali ha largamente compensato queste perdite, senza creare problemi per la bilancia dei pagamenti, ma i proventi degli investimenti esteri hanno arricchito solo i loro proprietari, aggravando gli effetti regressivi del debito sui redditi interni.

Anche la distribuzione del debito tra le famiglie italiane ha contribuito ad aiutare i ricchi. Secondo l’ultima indagine della Banca d’Italia sulle famiglie, relativa al 2016, il 20% delle famiglie con il reddito più elevato deteneva titoli pubblici per un ammontare pari a circa 9 volte quello del 20% dei nuclei più poveri (Grafico 2). Visto che ormai le famiglie italiane possiedono meno del 6% del nostro debito pubblico, si può stimare che esse incassino circa 3.8 miliardi di interessi l’anno e che la diversa diffusione dei titoli a seconda del reddito generi un flusso di interessi pari allo 0.5% del reddito per il quinto più povero e dello 0.6-0.7% per i più ricchi.

Grafico 2 – Titoli pubblici e interessi delle famiglie italiane

Quindi ogni euro di debito in più determina un vantaggio per le famiglie più abbienti, assimilabile ad un bonus che riduce la progressività del sistema fiscale e aumenta le disuguaglianze tra i contribuenti.

Queste cifre dovrebbero dimostrare che i tradizionali criteri di sostenibilità del debito possono risultare fuorvianti perché trascurano gli effetti macroeconomici sulla crescita e quelli redistributivi sul reddito. Accanto all’aritmetica del debito pubblico, le regole fiscali europee dovrebbero infatti considerare anche gli effetti di retroazione delle politiche economiche sul Pil, che possono rendere controproducente l’austerità fiscale proprio nei paesi sovra-indebitati, e alcuni criteri di sostenibilità “sociale”, come quelli abbozzati in questo lavoro, che incidono sulla praticabilità politica delle strategie di rientro dal debito. Si spera che i governi europei ne tengano conto, anche per non sprecare le dure lezioni impartite da tre crisi economiche epocali e dal risorgere di pulsioni anti-europeiste e populiste che sembravano scomparse da parecchi decenni.

 

*La traduzione italiana non rende la poesia dell’originale molisano “’E z’cchine fann ’e z’cchine, i z’cche i z’cche” o di quello lomellinese “Sòld fa sòld e pög fa pög”.

Schede e storico autori