Regionali e astensionismo: cronaca di un risultato annunciato

Cecilia Biancalana trae spunto dalle prossime elezioni regionali per trattare il tema dell'astensionismo elettorale italiano. Dopo avere esaminato le diverse spiegazioni che sono state proposte per spiegare il fenomeno Biancalana riflette sul legame che sussiste tra l'astensionismo elettorale, da un lato, e sfiducia nei partiti politici, dall’altro e si interroga sulle ragioni per cui le elezioni regionali sono particolarmente soggette al rischio di astensionismo

Le elezioni regionali e comunali si avvicinano e un interrogativo – tra i tanti che avvolgono il voto del prossimo 31 maggio – è se sarà battuto nelle sette regioni chiamate al voto (Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Campania e Puglia) il record di astensionismo della tornata precedente, che ha coinvolto Emilia-Romagna e Calabria.

Ma, non essendo quello dello scienziato sociale il mestiere del mago, possiamo (per adesso) solo tentare un’analisi dell’andamento dell’astensionismo in Italia e di alcuni possibili motivi che sono stati individuati per spiegare il fenomeno, al fine di meglio interpretare i risultati che verranno.

Dell’astensionismo elettorale si possono dare e sono state date molte e contrastanti interpretazioni: è stato collegato alla mancanza delle risorse materiali e simboliche per poter partecipare alla vita politica, e dipinto quindi come fenomeno tipico di categorie sociali marginali, che si sentono lontane dal mondo politico; è stato interpretato come segno di protesta nei confronti della politica in generale, o del governo in carica, o persino nei confronti del proprio partito, e quindi legato alle motivazioni di settori più centrali della società; l’astensionismo è stato anche analizzato come implicito e tacito accordo nei confronti di qualsiasi partito prenda il potere, indicatore quindi di totale fiducia nei confronti della politica; infine, l’astensionismo è stato considerato la conseguenza di un totale disinteresse per la politica, associato però non alla marginalità sociale ma a un interesse per questioni altre, private o comunque legate a sfere diverse della vita.

Astensionismo come fatto positivo o negativo, quindi, segno di apatia o di protesta. Come per ogni fenomeno politico, le interpretazioni contrastanti rivelano differenti approcci e preferenze normative. E come per ogni altro fenomeno politico, è difficile – se non impossibile – fornirne una spiegazione unica e univoca, data la complessità del mondo sociale e politico e le molteplici possibili motivazioni dell’agire umano.

In questo articolo mi concentrerò su un versante particolare della questione, legando l’astensionismo elettorale italiano al tema dei partiti, della loro evoluzione e della loro legittimità. La nostra tesi è che i partiti, allo stesso modo in cui sono stati centrali nell’integrare i cittadini nel sistema politico del dopoguerra, sono diventati la maggior causa di insoddisfazione nei confronti del funzionamento della democrazia, di cui l’astensionismo elettorale è un indicatore.

L’Italia, dal secondo dopoguerra e fino agli anni ottanta, ha sempre avuto tassi altissimi di partecipazione al voto, anche in relazione agli altri paesi europei. Dagli anni ottanta in poi, invece, il calo è stato costante e sempre più sostenuto, manifestandosi a tutti i livelli di governo ma con particolare forza nel caso delle amministrazioni locali.

È interessante notare come, al tempo di una delle prime analisi (quella di Almond e Verba del 1963, The Civic Culture) che descrivevano la cultura politica degli italiani come particolaristica – caratterizzata, cioè, da scarsa fiducia sia nel sistema politico che nelle capacità percepite dagli stessi cittadini di riuscire a influenzarlo, in contrapposizione a quella partecipante, in cui invece entrambi i fattori erano positivi – la partecipazione dei cittadini al voto fosse straordinariamente elevata. E un altro dato andava a braccetto con quello dell’affluenza alle urne: l’elevatissimo tasso di iscrizione ai partiti.

Il consolidamento democratico italiano è stato infatti definito come “consolidamento attraverso i partiti”. Sono i partiti – forti di legittimità e risorse – che guidano la transizione italiana alla democrazia, ed è questa loro forza che renderà ancor più fragoroso il crollo del sistema partitico della prima repubblica, nei primi anni novanta.

Non che i cittadini italiani in precedenza fossero acritici nei confronti dei partiti. È che l’insoddisfazione per questi attori politici non si poteva esprimere pienamente, bloccata com’era dalla bipolarizzazione ideologica, dal controllo dei partiti sulle domande dei settori sociali e dall’articolazione clientelare del rapporto tra cittadini e istituzioni. Ma quando alcuni di questi fattori di contenimento sono venuti meno, a seguito del crollo del muro di Berlino, della deideologizzazione e della secolarizzazione, e quando il regime democratico si è consolidato per mancanza di alternative praticabili, la legittimazione diffusa – quella per la democrazia in generale – è cresciuta, riducendosi invece progressivamente la legittimazione specifica, quella che riguarda l’operato dei governi e dei partiti (si veda il capitolo La società insoddisfatta e i suoi nemici. I partiti nella crisi italiana nel volume di Morlino e Tarchi Partiti e caso italiano). I partiti, quindi, non perdono forza nel corso del tempo (anzi, secondo alcuni essa aumenta, aumentando il grado di integrazione tra partito e stato) perdono invece sempre di più quella risorsa immateriale che è la fiducia dei cittadini.

Diversi studi enfatizzano questo doppio binario dell’insoddisfazione, e sottolineano che in Italia manca non il sostegno alla democrazia ma quello alle istituzioni. E se i partiti sono una delle istituzioni che più si identifica, nella percezione dei cittadini, con la democrazia, allora non è difficile comprendere come l’insoddisfazione per i primi sia strettamente legata con quella per la seconda. Anzi, l’insoddisfazione nei confronti del funzionamento della democrazia potrebbe dipendere proprio dal fatto che le aspettative, molto elevate, nei confronti di questa forma di governo vengono frustrate dall’immagine del processo democratico data dai partiti. Di conseguenza, questi ultimi vengono votati sempre meno.

Quello italiano è dunque un sistema politico il cui collante (anche in maniera non virtuosa) sono stati i partiti, e in cui una delle maggiori cause di insoddisfazione sono ancora i partiti, sempre più deboli in quanto a legittimità ma percepiti come sempre più potenti dai cittadini. E un sistema in cui, quasi paradossalmente, anche le nuove alternative che incarnano prepotentemente l’insofferenza verso i partiti sono sostanzialmente strutturate in forma partitica.

Come si è già detto, il trend astensionista si manifesta sia a livello di elezioni politiche sia, ancor di più, a livello di elezioni regionali. È a partire dagli anni novanta che l’affluenza alle elezioni regionali inizia a calare molto più velocemente rispetto a quella alle politiche. Sono state date molte spiegazioni per questo fenomeno, vale la pena riepilogarne brevemente alcune.

Innanzitutto, siamo in presenza di una diversa “struttura della competizione”: rispetto alle elezioni politiche, in cui la posta in gioco è il governo nazionale, nel caso delle elezioni regionali il risultato viene percepito come meno importante. Questo nonostante il fatto che le regioni sono enti più vicini ai cittadini, e dovrebbero quindi essere percepiti come quelli in cui il proprio voto può contare di più, anche perché i risultati incidono in modo più rilevante e prossimo sulla propria vita. Inoltre, non coinvolgendo il livello nazionale, ed essendo la posta in gioco meno prestigiosa, quelle regionali sono elezioni meno mediatizzate, fattore che viene connesso a un minor interesse dei cittadini e di conseguenza a un minor stimolo a recarsi alle urne.

Questo trend ha raggiunto il suo culmine nel novembre 2014, quando in Emilia-Romagna l’astensionismo ha raggiunto il massimo storico per questo tipo di elezioni: solo il 37,7% degli aventi diritto ha partecipato al voto. E anche se quello emiliano-romagnolo può essere considerato un caso limite per alcuni fattori contingenti, come la percezione di non contendibilità della regione e gli scandali politici che erano emersi, non per questo esso può essere sottovalutato. Come noto, l’Emilia-Romagna non è l’unica regione toccata da scandali politici, anzi sembra che le regioni siano sia diventate negli ultimi anni il luogo privilegiato dello scandalo. Per rendersene conto basta digitare su Google le parole “scandalo regione”: il motore di ricerca suggerisce metà delle regioni italiane, da nord a sud. E gli avvenimenti recenti delle regioni chiamate al voto (Liguria e Campania, ad esempio) non serviranno certo a invertire la direzione di marcia.

Anche gli scandali, come le critiche ai partiti, non sono cosa nuova; essi sembrano, però, essere sempre più centrali nella vita politica contemporanea. Manuel Castells in Comunicazione e Potere avanza alcune interessanti ipotesi per spiegare questa centralità, che riguardano le trasformazioni dei media (la logica dell’infotainment e la commercializzazione imperante) e quelle della politica (il fatto che la fiducia venga accordata sempre più alla persona del politico rende lo scandalo un’arma potentissima). Ma non bisogna sottovalutare nemmeno il ruolo della crisi economica nel rendere i cittadini sempre più insofferenti nei confronti di scandali che riguardano l’uso sconsiderato di risorse pubbliche.

Tornando, quindi, all’interrogativo menzionato in apertura dell’articolo, non serve essere dei maghi per constatare che ci sono tutte le premesse perché il trend astensionista non si arresti.

Quali conclusioni si possono trarre da queste riflessioni?

Votare è una delle più semplici manifestazioni della partecipazione politica, considerata da molti come il grado zero del coinvolgimento nella vita pubblica. Nonostante ciò, le persone votano (o non votano) per molti, diversi e meno semplici motivi. In questo articolo si è cercato di seguire una pista – una delle tante possibili – quella che lega l’astensionismo elettorale al ruolo dei partiti. L’abbiamo visto a uno dei livelli dove questa tendenza si manifesta in modo più forte: quello delle regioni, per le quali tra meno di un mese i cittadini saranno chiamati a votare.

Con il voto i cittadini scelgono di dare una delega a chi governerà il territorio in loro rappresentanza; al di là delle interpretazioni, non si può negare il semplice dato oggettivo che questa scelta viene fatta da sempre meno persone, soprattutto nei livelli di governo più vicini al cittadino. E questo dovrebbe far riflettere coloro che si apprestano a ricevere (perché in ogni caso la riceveranno) quella delega.

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