Reddito vs. lavoro: una contrapposizione infondata

Il Contrappunto di Elena Granaglia è dedicato a confutare una posizione radicata nel nostro paese, e recentemente ribadita dal Presidente del Consiglio: quella secondo cui assicurare a tutti un reddito rappresenterebbe una misura inevitabilmente assistenzialistica. Le argomentazioni presentate da Granaglia fanno leva sulla natura di opportunità fondamentale che il reddito ha a prescindere dal lavoro e sulla presenza di una pluralità di complementarità fra i trasferimenti monetari e la promozione dell’occupazione.

“Il reddito di cittadinanza? È la cosa meno di sinistra che esista.. Approvarlo significa negare che l’Italia non è il paese dei furbi.. E’ anche incostituzionale, perché la nostra Costituzione stabilisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” (Il presidente del Consiglio Renzi)

“Accompagnare: la parola che il Papa ha detto a noi vescovi, la diciamo alla società. Accompagnare alla formazione, a un lavoro, evitando progetti di assistenzialismo…” (Monsignor Bregantini, Cei)

 

Sono queste solo due fra le più recenti espressioni di quello che è un convincimento radicato nel nostro paese. Anche se non ci si spinge fino a negarne la costituzionalità, i trasferimenti di reddito sono ampiamente avversati in quanto considerati assistenzialistici. Come tali, essi non solo sarebbero fonte di sprechi, ma finirebbero anche per lasciare gli svantaggiati al loro destino, violando di fatto l’uguaglianza di opportunità di inclusione sociale. Non sarebbe, invece, così se si assicurasse a tutti un lavoro.

Lascio da parte la facile constatazione che, a seguito anche di questo convincimento, quasi 10% dei nostri concittadini è, comunque, in condizioni di povertà assoluta e ben 18% in condizioni di povertà relativa secondo l’indicatore europeo. Di fronte a questi dati il reddito minimo, anche se fosse un male, potrebbe essere il male minore!

Piuttosto vorrei portare l’attenzione su due gravi rischi che si corrono contrapponendo il reddito al lavoro. Il primo è che si sminuisca il valore del reddito, ignorando il carattere di opportunità fondamentale che il reddito ha a prescindere dal lavoro, il secondo è che si trascurino le possibili complementarità fra trasferimenti monetari e promozione dell’occupazione.

Comincio dal carattere di opportunità fondamentale del reddito. Come ci ricorda Atkinson (2014), all’inizio del secolo scorso, l’attenzione degli studiosi della povertà era prevalentemente centrata sulle carenze nel consumo. Con il trascorrere del tempo, “tuttavia, l’attenzione cominciò a mutare a favore di una definizione di povertà basata sulla capacità di partecipare alla vita della società e, con essa, aumentò l’interesse per il concetto di diritti a un minimo di risorse, l’utilizzo delle quali deve essere lasciato alle scelte individuali”. Ebbene, affermare il carattere di opportunità fondamentale del reddito significa esattamente fare rientrare la disponibilità di un qualche reddito all’interno diritti di cittadinanza.

Il sospetto è che chi si oppone ai trasferimenti monetari non riconosca, invece, tale diritto. Al fondo della frequente affermazione secondo cui i poveri andrebbero “accompagnati”/“presi in carico”, è, infatti, difficile vedere altro se non l’assunto che essi sarebbero incapaci di scegliere e, dunque, sia necessario che qualcuno paternalisticamente scelga per loro. Un simile assunto implica, però, la negazione dell’uguale considerazione e rispetto (“noi” sappiamo e “loro” no). Torna alla mente l’imperitura immagine del povero non meritevole che, invece di comprare il latte al figlio, spende il suo sussidio al bar, bevendo gin. L’eventualità non si può escludere, ma appare davvero eccessivo considerarla la norma di comportamento di tutti i poveri. I Questi ultimi, esattamente come i ricchi, sono un gruppo alquanto eterogeneo di individui. Nell’esempio appena fatto, un antidoto ci sarebbe e sarebbe anche molto semplice: dare i soldi alle madri.

Rispetto alle possibili complementarità fra trasferimenti monetari e promozione dell’occupazione, riconoscere il carattere di opportunità del reddito non implica in alcun modo ignorare il carattere di opportunità anche del lavoro e, con esso, la necessità di politiche per l’occupazione (il che vale anche per l’accesso a un insieme di servizi fondamentali). Le opportunità importanti sono molteplici e non si vede perché vi debba necessariamente essere tensione fra di esse.

Saraceno nell’articolo su questo numero del Menabò ci ricorda con forza che è diffusa la presenza di lavoratori poveri, siano essi tali a causa di basse remunerazioni e/o di carichi familiari. Dunque, l’occupazione, da sola, non sempre è un antidoto efficace alla povertà. A tal fine, servono anche trasferimenti aggiuntivi di reddito.

Da parte mia, vorrei portare l’attenzione su altre due possibili ragioni di complementarità fra trasferimenti di reddito e lavoro. Una ragione concerne il fatto che non tutto quello che riceviamo partecipando al mercato del lavoro dipende da noi, dal nostro sforzo e dalle nostre abilità. Molto dipende dalle condizioni di domanda e di offerta con le quali ci confrontiamo nonché dalla più complessiva cooperazione sociale. Oggi, ad esempio, ci troviamo di fronte a una drammatica caduta della domanda di lavoro e, in particolare, di buoni lavori. Se così, è proprio il riconoscimento del valore del lavoro come opportunità fondamentale a richiedere che parte del valore aggiunto prodotto dai fortunati che trovano un lavoro e ancor più da coloro che trovano un buon lavoro sia condivisa fra tutti.

Si noti: non vi è nulla di assistenzialistico in questo ragionamento. Al contrario, la difesa di trasferimenti monetari discenderebbe proprio dal valore attribuito al lavoro. Se, nonostante tutti gli sforzi, le occupazioni decenti restano largamente insufficienti rispetto alla domanda di lavoro, allora i redditi che esse generano devono, in parte, essere condivisi con coloro che a tali lavori non riescono a accedere (inclusi, ovviamente, coloro che non possono entrare nel mercato del lavoro in quanto esercitano altri lavori, in primis, attività di cura).

L’altra ragione è forse più banale, seppure ampiamente sottovalutata nel dibattito pubblico. In breve, se il lavoro è un’opportunità, perché una qualche disponibilità di reddito dovrebbe ostacolarne il godimento? Tanti di noi vivono in famiglie non povere eppure desiderano lavorare. Se così, la possibile dipendenza dai trasferimenti andrebbe imputata a fattori diversi da quelli richiamati nelle accuse di assistenzialismo. Diventa cruciale la natura delle occupazioni disponibili per i più svantaggiati e la struttura dei trasferimenti, la quale potrebbe essa stessa disincentivare il lavoro con aliquote marginali troppo elevate, (esattamente come potrebbe accadere nella parte alta della distribuzione, a riprova della compresenza di problemi simili nella parte alta e in quella bassa della distribuzione

Non posso in questa sede entrare nel dettaglio delle implicazioni istituzionali dei trasferimenti di reddito che conseguirebbero dalla prospettiva appena delineata. Ad esempio, la difesa della condivisione di parte del valore aggiunto richiederebbe un reddito di partecipazione, mentre la difesa del valore del reddito in sé potrebbe essere compatibile con altre forme di trasferimenti, inclusi schemi di reddito minimo (indirizzato alla universalità dei poveri).

Ciò che vorrei sottolineare è che le osservazioni presentate sono tutte compatibili con la richiesta di una generale disponibilità a lavorare, ovviamente, per chi può lavorare. La compatibilità dovrebbe risultare evidente nella prospettiva del reddito di partecipazione. Se il reddito è la contropartita dell’impossibilità di fruire dell’opportunità di lavorare/di avere un buon lavoro, allora esso va erogato a tutti coloro che lavorano o vorrebbe lavorare. Non essendo tecnicamente possibile verificare il desiderio di lavorare, l’introduzione di un vincolo alla disponibilità a lavorare (per chi può lavorare) appare inevitabile. Considerazioni simili si applicano ai redditi minimi: se il diritto al reddito sorge quando i singoli ne sono privi, allora occorre verificare tale privazione e il modo ovvio per farlo è, di nuovo, quello di richiedere una disponibilità a lavorare. Il che, peraltro, rappresenta una forma ulteriore di complementarità fra reddito e lavoro.

Riconoscere il diritto a un reddito influenza, tuttavia, le forme della richiesta della disponibilità a lavorare. Ad esempio, anche un eventuale abuso dei trasferimenti di reddito non sarebbe titolo valido per negare la responsabilità pubblica nella tutela del diritto. Diversamente, parafrasando Locke, sarebbe come essere legittimati a rubare perché gli altri rubano. Al contempo, il lavoro richiesto dovrebbe essere un lavoro decente e non solo una qualunque attività da effettuare come contropartita dell’aiuto altrui. Le procedure di verifica della disponibilità a lavorare dovrebbero, altresì, guardare ai possibili beneficiari del trasferimento come portatori di diritti, nel pieno riconoscimento dei possibili ostacoli all’accesso al mercato del lavoro.

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