Reddito di Cittadinanza: poveri finti e poveri vinti. Correttivi utili per non fare di tutta l’erba un fascio

Anna Alaimo ragionando sul presunto fallimento del Reddito di Cittadinanza sostiene che l’emergenza pandemica ha pesantemente influito sul (mal)funzionamento del sistema. La conseguente paralisi dei servizi e la sospensione della “condizionalità” prevista dal decreto “cura Italia” hanno inibito lo sviluppo della componente “dinamico/promozionale” del modello di inclusione “attiva” sotteso alla disciplina del RdC. Alaimo propone alcuni correttivi, in particolare più investimenti nei servizi per l’impiego e norme di maggior favore per gli stranieri.

1. Sono passati appena diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge che ha definito la versione italiana del Reddito Minimo Garantito (RMG) – impropriamente definito Reddito di Cittadinanza (RdC) – e si fa presto a parlare di fallimento.

Secondo i critici sarebbero almeno due le ragioni del presunto flop.

La prima è legata alle numerose indebite percezioni del sussidio. Nell’immaginario critico il beneficiario del RdC è per lo più un disonesto, autore di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento (o al mantenimento) del RdC, che percepisce il sussidio approfittando del malfunzionamento del sistema.

E in effetti, occorre riconoscere che neppure la robusta dotazione di sanzioni che la legge aveva predisposto, attirando a sé critiche di eccessiva severità, è valsa ad impedire che nuclei familiari proprietari di beni di lusso o con componenti adusi a delinquere – come le famiglie degli uccisori di Willy Monteiro Duarte – rientrassero nella schiera dei beneficiari del sussidio. Né ad evitare che tanti lavoratori in nero cominciassero a percepire il Rdc rimanendo in nero per scelta, proprio per non compromettere il diritto al sussidio.

Ma occorre anche rammentare che i comportamenti opportunistici di fronte alle provvidenze del welfare non sono una novità e non possono motivare decisioni di drastica demolizione dei sussidi per abbandonare gli abusi. Lo si è scritto bene qualche settimana fa: prima del RdC, una certa politica e professionisti compiacenti si inventavano la concessione di pensioni di invalidità a chi invalido non era; o i sussidi di disoccupazione agricola a chi nei campi non aveva mai messo piede (F. Riccardi, Correggere sì, cancellare no, L’Avvenire, 1 ottobre 2020).

La seconda ragione del presunto fallimento risiederebbe nell’”anima lavoristica” del sussidio.

Accanto al “contrasto alla povertà”, la “garanzia del diritto al lavoro” era una delle finalità del sussidio dichiarate sin dal primo articolo della legge.

Il sussidio era stato giustamente pensato come base virtuosa per la realizzazione del diritto al lavoro e per l’adempimento del dovere di lavorare, secondo i nobili dettami della nostra Costituzione (art. 4), ma anche nella prospettiva del “welfare attivo” (o del welfare to work).

La legge istitutiva prevede, infatti, che i beneficiari del RdC debbano “attivarsi”, aderendo ad «un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale». E che debbano sottoscrivere un “patto” – per il lavoro o per l’inclusione – da cui discendono, nel primo caso, obblighi di ricerca attiva di lavoro e di sua accettazione (qualora l’offerta di lavoro sia “congrua”, pena la perdita del sussidio dopo il rifiuto di tre offerte); e, nel secondo caso, obblighi di partecipazione a progetti utili alla collettività, da svolgere presso il comune di residenza.

Proprio sulla doppia anima – assistenziale e lavoristica – dell’istituto, già sottolineata da Pascucci sul Menabò, si appuntano, oggi, molte delle critiche.

Per qualcuno si tratterebbe di un difetto genetico: aver voluto garantire un reddito a chi non lavora, anche per consentirne la transizione verso lavori regolarmente retribuiti sarebbe stata una pessima idea, degna di un “paese delle meraviglie” (P. Garibaldi, Nel Suddistan il reddito di cittadinanza non fa trovare lavoro, La Stampa, 1 ottobre 2020). La legge avrebbe generato un monstrum, non un virtuoso ibrido; una misura concepita “di pancia” ma non dotata di gambe (MBott, La misura “di pancia” che non è stata dotata di gambe, Il Giornale, 8 ottobre 2020).

Posizioni più realistiche parlano di un difetto di funzionamento: il tanto atteso potenziamento dei servizi per l’impiego, anche dopo l’istituzione dei discussi navigators, non è mai diventato realtà. Né ha funzionato l’utilizzo dei percettori del RdC in progetti di pubblica utilità, ad oggi non formalizzati neppure in grossi Comuni a guida M5stelle (Roma e Torino).

Malgrado le indubbie disfunzioni e gli abusi, i toni del dibattito di queste settimane appaiono più semplicistici che articolati.

Nessuno nega che qualcosa non ha funzionato. Ma cosa e perché? Il RdC è tutto da rifare o sono possibili dei correttivi?

2. Se si fa presto a parlare di fallimento, non bisogna intanto dimenticare che la povertà non poteva restare negletta, tanto è vero che il RdC ha come precedenti svariate misure di contrasto alla povertà, inaugurate, già alla fine degli anni Novanta, dal “Reddito minimo di inserimento” e culminate, prima del RdC, nel “Reddito di inclusione” (ReI).

Nella trama dei principi costituzionali c’è un filo rosso che lega lavoro, assistenza sociale e povertà ed un altro che rende indissolubile l’integrazione fra libertà, uguaglianza e solidarietà (C. Tripodina, Ius existentiae e reddito minimo garantito: a che punto siamo in Italia?, La cittadinanza europea, 2018).

Da quella trama si ricava un progetto di eguagliamento sostanziale che attribuisce allo Stato il compito di “livellare il campo di gioco”, contrastando l’ereditarietà sociale dello svantaggio e creando uguaglianza di opportunità (E. Granaglia, Non solo opportunità e contrasto alla povertà, Riv. pol. soc., 2016).

Malgrado le “strettoie” imposte dall’art. 38, co. 1, Cost., al «diritto al mantenimento e all’assistenza» la prospettiva del “diritto all’esistenza” – un’esistenza libera e dignitosa –, come basic right da riconoscere a chiunque si trovi in condizioni di debolezza sociale ed economica sprovvisto di mezzi necessari per vivere (S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2012, cap. IX), è in linea con quella trama costituzionale.

Né va dimenticato che sino all’anno di introduzione del ReI (2017) l’Italia era, assieme alla Grecia, fanalino di coda, fra i Paesi dell’Unione, per l’assenza di stabili misure di RM. Non a caso, l’introduzione di un’apposita disciplina veniva a gran voce sollecitata dall’Ue, anche attraverso le Raccomandazioni specifiche rivolte all’Italia a partire dal 2014.

Non si pensi, dunque, che la sua introduzione sia stata solo l’effetto degli slogan mediatici lanciati nel periodo pre-elettorale nel 2018.

Cosa e come occorre, dunque, migliorare?

3. Iniziamo dal discusso legame tra RdC, lavoro e attività di pubblica utilità.

Condizionare la percezione di sussidi assistenziali e previdenziali alla “attivazione” del beneficiario è una ricetta che il legislatore italiano somministra già da un ventennio ai soggetti titolari di strumenti di sostegno al reddito; da quando, anche l’Italia ha aperto il cantiere del “welfare attivo” con il decreto che ha ridefinito condizioni e obblighi relativi allo stato di disoccupazione (d.lgs. n. 181/2000).

L’idea di costruire un ponte solido tra le politiche passive e le politiche attive del lavoro, un ponte che assicurando il passaggio dalla percezione dei sussidi all’integrazione attraverso il lavoro eviti lo “stazionamento” nell’area dell’assistenza, non è neppure un’invenzione italiana; si tratta di un adeguamento a modelli e best practices di matrice europea.

Il cd. active inclusion approach è impiegato in quasi tutti i Paesi Ue, nei quali il RM è una misura “condizionata”, come si legge in un Rapporto del Parlamento europeo di qualche anno fa (Minimum Income Policies in EU Member States, 2017).

La sfida è complessa, soprattutto per un Paese che sino a tempi recenti si è mostrato avaro di risorse da destinare alle politiche attive del lavoro (PAL); ma l’idea è tutt’altro che malvagia.

Il legame tra RdC, lavoro e attività di pubblica utilità non può essere, dunque, considerata un vizio genetico.

4. Ma veniamo al malfunzionamento.

Anche qui occorre non trascurare un fattore decisivo. Dei diciotto mesi trascorsi dall’entrata in vigore della legge sul RdC (30 marzo 2019) e dall’erogazione dei primi sussidi, nove sono stati dominati dall’emergenza epidemiologica.

La paralisi dei servizi che ne è conseguita ha inciso non poco sulla componente “dinamico/promozionale” del modello di inclusione “attiva” che avrebbe dovuto accompagnare, a regime, il RdC, bilanciandone la componente “vincolistico/punitiva”.

Né va dimenticato che, a causa della crisi pandemica, il corredo del welfare italiano è stato massicciamente dispiegato negli ultimi mesi, con un palese ritorno alla matrice assistenziale degli interventi (dall’introduzione del Reddito di emergenza, alla proroga dei sussidi di disoccupazione, alla introduzione della causale Covid-19 per la CIG, al “bonus autonomi”). E che una delle disposizioni più significative del cd. decreto “cura Italia” è stata la sospensione degli obblighi connessi al RdC e delle misure di condizionalità previste per i sussidi di disoccupazione e di CIG. Il welfare state pandemico ha insomma rinunciato alla condizionalità.

È allora evidente che i problemi del RdC sono stati prevalentemente applicativi.

Come dire che il progetto era complessivamente buono, i correttivi da apportare sono pochi; ancora una volta, si tratta di fare i conti con le inadeguatezze e lo storico (e territorialmente diversificato) tasso di efficienza delle amministrazioni che presiedono alla organizzazione dei SPI.

Quali correttivi sono allora possibili?

Primo. Occorre scommettere sul reale funzionamento del sistema delle PAL, dei SPI e della stessa Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (ANPAL).

 Al di là degli attuali dissidi istituzionali e dei problematici rapporti con il Ministero del lavoro, il ruolo dell’ANPAL è stato, sin dall’inizio, condizionato dal mancato passaggio delle competenze in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” e “politiche attive” dalle Regioni allo Stato; passaggio proposto dal disegno di legge costituzionale bocciato dal referendum del 2 dicembre 2016.

Anche l’ANPAL è da rifare o da abolire? (F. Seghezzi, Non aboliamo il reddito di cittadinanza, aboliamo l’Anpal, 5 ottobre 2020). O anche in questo caso sono possibili correttivi, nell’ottica di una maggiore efficienza?

Probabilmente si, se è vero, come è vero, che la riforma dei SPI varata dal Jobs Act, con la costruzione dell’Agenzia come “cabina di regia” centrale, era una riforma “anfibia”, in grado di sopravvivere sia all’approvazione che alla bocciatura della riforma costituzionale.

Occorre agire, dunque, sul funzionamento. Molti buoni progetti sono rimasti inattuati, a partire dalla tanto decantata App Italy Works. Lo stesso vale per il promesso potenziamento dei Centri per l’impiego (CPI) pubblici e la loro cooperazione con le agenzie private. I CPI hanno bisogno di risorse adeguate e, soprattutto, di competenze reali. Gli stessi navigators andrebbero inseriti all’interno del loro organico (una volta scaduti i contratti di collaborazione, come in parte si sta già facendo in alcune regioni) ma, soprattutto, andrebbero formati e coordinati; è ovvio che la pandemia – non solo l’inefficienza attuativa della riforma – ha congelato questo percorso.

Secondo. La legge non contiene meccanismi premiali per chi integra il sussidio con attività lavorative; il che disincentiva l’accesso al lavoro regolare.

L’incremento del reddito del nucleo familiare rischia di far perdere il diritto al sussidio o di ridurlo drasticamente; circostanza che può “intrappolare” i beneficiari del RdC intorno alla soglia di povertà, incentivandone la disoccupazione (poverty trap). Per contrastare questa “trappola”, la Relazione della Commissione Onofri istituita alla fine del secolo scorso già suggeriva (e il suggerimento potrebbe essere ancora colto) di prevedere franchigie fiscali per le prime quote di reddito guadagnato (cosiddetti income disregards), schemi di imposta negativa sul reddito o forme di sussidio ai salari più bassi (in work benefits).

Terzo: il problema dei controlli e delle sanzioni.

Come si è detto, la legge dispone di un robusto apparato sanzionatorio (già rafforzato nel passaggio dal decreto alla legge di conversione).

Anche su questo punto occorre lavorare sul buon funzionamento.

La maggior parte delle sanzioni (escluse, ovviamente, quelle penali) sono irrogate dall’Inps, a sua volta allertato dai CPI e dai Comuni, che dovrebbero comunicare «le informazioni sui fatti suscettibili di dar luogo alle sanzioni» attraverso il “Sistema informativo del Reddito di cittadinanza” e le due piattaforme digitali istituite presso l’ANPAL e il Ministero del lavoro.

 L’efficiente funzionamento dei CPI ritorna, dunque, cruciale, nel controllo degli abusi.

Le sanzioni ci sono, anche per i CAF e per i professionisti, ma occorrerebbe una collaborazione più stretta e tempestiva tra INPS, Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza per i controlli sulla veridicità delle dichiarazioni presentate (C. Saraceno, Reddito di cittadinanza, i poveri non sono colpevoli, La Repubblica, 25 settembre 2020).

Quarto. Sia dal punto di vista dei requisiti di accesso che dell’importo delle prestazioni, l’applicazione dell’attuale scala di equivalenza sfavorisce i nuclei familiari più numerosi, in particolare quelli in cui sono presenti soggetti minori, come ha più volte sottolineato negli ultimi mesi l’Alleanza contro la Povertà.

Quinto ed ultimo punto. I requisiti di accesso per i cittadini extra-Ue sono eccessivamente restrittivi, non solo per la lunghezza del periodo di residenza previsto (10 anni contro i 2 del ReI), ma anche per la necessità che i richiedenti il sussidio siano titolari del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo.

Nella richiesta di questo requisito si annida, però, un paradosso: per ottenere il permesso è necessario un requisito reddituale: un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale (che, per il 2020, per esempio, era pari ad euro 5.977,79). Il cittadino di un Paese terzo che voglia accedere alla versione italiana del reddito minimo (il RdC) dovrà, dunque, disporre…. di un reddito minimo, il cui importo è abbastanza vicino al valore massimo dell’ISEE richiesto per l’accesso al RdC (euro 9.360).

È allora evidente che, per i cittadini extra-Ue, il RdC è solo un’integrazione di reddito già esistente. Poco più di una briciola, ininfluente sull’obiettivo (semmai lo si vorrà perseguire) di una virtuosa integrazione degli immigrati nel tessuto sociale; un magro risultato per una buona e solidale politica inclusiva.

Eppure, nessuno scandalo, denuncia e dibattito suscita il fatto che molti stranieri regolarmente residenti – molti “poveri veri” – siano esclusi dal RdC (C. Saraceno, Reddito di cittadinanza, cit.; FraGRa sul rischio di “falsi negativi” )

Per evitare che anche l’attuale crisi lasci, allora, sul terreno molti poveri vinti (ma non finti), bisognerà ammettere che qualcosa per il sostegno al reddito andava fatto e che la legge sul RdC del 2019 non lo ha fatto neanche tanto male.

Ciò che occorrerà abbandonare è invece lo stereotipo retrivo che la povertà sia un problema di pigrizia dei poveri o una bugia di ricchi evasori (C. Saraceno, Reddito di cittadinanza, cit.). È la narrazione del finto povero che approfitta del sistema assistenziale, che è una narrazione che certamente può portare risparmi alla collettività, ma che non accoglie né riscatta i poveri veri.

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