Reddito di Cittadinanza e Reddito di Emergenza: quale quadro di insieme? (Prima parte)

Giovanni Gallo e Michele Raitano si occupano delle misure di sostegno al reddito dei nuclei bisognosi, il Reddito di Cittadinanza (RdC) e il nuovo Reddito di Emergenza (REM). L’articolo è diviso in due parti. Nella prima, che compare su questo numero del Menabò, gli autori richiamano alcuni limiti dell’architettura del RdC, relativi soprattutto ai requisiti di residenza e alla scala di equivalenza adottata, e valutano, anche attraverso loro simulazioni, l’impatto sul bilancio pubblico e sulla distribuzione dei redditi di una riforma che superi tali limiti.

La pandemia sta sottoponendo il nostro sistema di welfare ad un inaspettato, e indesiderato, stress test. Come già argomentato da FraGRa sul Menabò, nella prima fase dell’emergenza il governo è intervenuto, mediante l’estensione della CIG e l’introduzione di trasferimenti una tantum, cercando di offrire tutela a tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi, in difficoltà occupazionale. Quest’intervento, di per sé lodevole, ha messo in luce i limiti del nostro mercato del lavoro, caratterizzato, da una parte, da una pletora di forme contrattuali atipiche che è estremamente complesso tutelare con forme di assicurazione sociale disegnate per il lavoro dipendente e, dall’altra, dalla diffusione di lavoro nero e grigio che, per definizione, offrono nessuna o scarsa tutela a chi (spesso involontariamente) riceve la maggior parte del proprio reddito da tali forme di lavoro.

Sin dall’emanazione del decreto “Cura Italia” a marzo si era, pertanto, delineata la necessità di intervenire, in aggiunta agli strumenti a tutela dei lavoratori “sospesi” dall’impresa o impossibilitati a svolgere la propria mansione, attraverso misure di reddito minimo (ovvero soggette a test dei mezzi) destinate alle categorie non raggiungibili attraverso la CIG e l’una tantum per gli autonomi, fra le quali rientrano molti lavoratori stagionali o intermittenti, gli ex percettori di sussidi di disoccupazione e i lavoratori in nero. A tale necessità si poteva rispondere rivedendo l’impianto del Reddito di Cittadinanza (RdC; in vigore, come noto, da marzo 2019) in modo da offrire tutela di ultima istanza anche ai “nuovi poveri da Covid-19” oppure introducendo un ulteriore strumento di natura temporanea che coprisse le falle del reddito di cittadinanza e delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori. Il governo ha scelto la seconda strada e, nel decreto “Rilancio” emanato a maggio, ha introdotto una nuova misura basata sulla prova dei mezzi, il Reddito di Emergenza (REM).

Il questo articolo ci proponiamo di offrire alcuni elementi di riflessione su questa scelta. In particolare, in queste note, ci soffermeremo sui principali limiti di copertura del RdC e su come si potrebbe intervenire per attenuarli; nella seconda parte, che sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò, descriveremo le caratteristiche del REM e valuteremo quanti dei suoi potenziali beneficiari sarebbero stati tutelati da un intervento che avesse rivisto quelli che, a nostro avviso, sono i più macroscopici limiti del RdC.

Per essere ammissibile al RdC un nucleo familiare deve soddisfare una serie di requisiti, i cui principali sono:

i. il valore annuo dell’ISEE (l’indicatore delle condizioni economiche equivalenti, che tiene conto sia del reddito che della ricchezza) non deve superare i 9.360 euro;

ii. il reddito equivalente annuo (definito non sulla base della scala di equivalenza ISEE, ma di quella, meno vantaggiosa, che si applica per il RdC) non deve superare i 6.000 euro;

iii. il valore del patrimonio immobiliare (esclusa la residenza principale), valutato ai canoni IMU, non può superare i 30.000 euro, mentre quello della ricchezza finanziaria non può superare i 6.000 euro per un single (aumentati di 2.000 euro per ogni componente fino a un massimo di 10.000 euro, incrementabile di ulteriori 1.000 euro per ogni figlio dopo il secondo);

iv. 10 anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi 2 continuativi.

Se sono soddisfatte le condizioni di accesso, l’importo annuo del RdC per un single è pari alla differenza fra la soglia di 6000 euro e il reddito dichiarato (con un beneficio annuo minimo di 480 euro). La soglia di integrazione cresce col numero dei componenti del nucleo familiare in base a una specifica scala di equivalenza che assegna, ai componenti aggiuntivi al capofamiglia, un valore di 0,4 o di 0,2 a seconda che siano maggiorenni o minorenni. La scala di equivalenza non può però eccedere il valore di 2,1 (2,2 se c’è un componente disabile). Va ricordato che la scala ISEE è definita in base a una formula che considera il numero di componenti elevato a un parametro pari a 0,65 fino al quinto membro, mentre i membri aggiuntivi vengono considerati mediante un esponente pari a 0,35 (per nuclei composti da 2, 3, 4, 5 e 6 membri i valori della scala sono, rispettivamente, 1,57, 2,04, 2,46, 2,85 e 3,20). Pertanto, il numero di componenti equivalenti in base alla scala ISEE è sempre superiore a quello della scala usata per il RdC e, l’importo equivalente per le famiglie con più di un componente è inferiore a quello che si ottiene applicando la scala RdC.

Oltre alla componente monetaria, l’impianto del RdC prevede un ulteriore trasferimento mensile a copertura dell’affitto (con un valore massimo di 280 euro) o del mutuo (fino a 150 euro mensili), indipendentemente dalla dimensione del nucleo familiare. È prevista anche la Pensione di Cittadinanza (PdC) destinata ai nuclei in cui tutti i componenti abbiano almeno 67 anni d’età (o siano disabili, se di età inferiore ai 67 anni), con requisiti di accesso e di importo lievemente diversi da quelli standard per il RdC, come descritto da Baldini, Mazzaferro e Toso sul Menabò. In base agli ultimi dati resi noti dall’INPS, aggiornati all’8 aprile 2020, quindi a metà lockdown, erano beneficiari di RdC o PdC circa 1,23 milioni di famiglie. Di seguito, usiamo il termine RdC, includendo anche la PdC.

Uno schema adeguato di reddito minimo di contrasto alla povertà era assolutamente necessario ma il RdC è migliorabile sotto il profilo dell’efficienza e dell’equità e “la finestra d’opportunità” offerta dalle necessità di rivedere gli strumenti di welfare di fronte all’emergenza Covid-19 avrebbe potuto essere utilizzata per realizzare questi miglioramenti. Le criticità del RdC sono discusse in dettaglio in Gallo e Raitano in CNEL 2019); qui ci soffermiamo sulle tre che appaiono più rilevanti.

La prima riguarda la definizione dei requisiti patrimoniali che non appare fondata su chiare valutazioni delle effettive condizioni di disagio dei nuclei bisognosi, come già sottolineato da FraGra sul Menabò; la questione è rilevante perché tali requisiti incidono molto sulla individuazione dei beneficiari del RdC, poiché se ne tiene conto sia nella misura dell’ISEE, sia attraverso gli eventuali redditi da capitale, sia negli appositi requisiti aggiuntivi. Porre questo problema non equivale, naturalmente, a non condividere l’esigenza di evitare che beneficino del trasferimento famiglie povere di reddito ma ricche di patrimonio a causa di evasione e elusione fiscale.

La seconda criticità riguarda i requisiti di residenza particolarmente stringenti che escludono dal beneficio soprattutto i cittadini extracomunitari (si sono invece eliminati di recente, per quasi tutti i paesi di provenienza, gli ulteriori requisiti vessatori che obbligavano gli extracomunitari a farsi certificare dal paese di origine la propria ricchezza mobiliare e immobiliare). Si ricordi, per confronto, che per il REI si richiedeva la residenza continuativa in Italia da almeno 2 anni.

Infine, come anticipato, una grave criticità è collegata all’applicazione di una scala di equivalenza che, dal punto di vista sia dei requisiti di accesso sia dell’importo delle prestazioni erogate, sfavorisce i nuclei familiari più numerosi. A differenza della scala ISEE – forse più appropriata per gli obiettivi della misura – la “scala RdC”, da un lato, rende meno probabile che una famiglia numerosa soddisfi il requisito di un reddito equivalente non superiore a 6.000 euro annui e, dall’altro, nel caso in cui lo soddisfi, accresce il valore del reddito equivalente e, quindi, riduce l’importo erogato. Va inoltre sottolineata la ben limitata razionalità di uno schema che rende equivalenti i valori di riferimento e calcola l’importo del beneficio applicando scale diverse.

Una riflessione attenta sul ruolo dei diversi requisiti di accesso al RdC – oltre quello di base di un ISEE inferiore a 9.360 euro – appare necessaria per valutare la capacità dello strumento di raggiungere le famiglie in condizioni di disagio. A tal fine abbiamo condotto una simulazione, basata su un modello costruito a partire dai microdati dell’indagine IT-SILC dell’ISTAT, per misurare come si distribuiscono i nuclei familiari con un ISEE inferiore alla soglia prestabilita in base al rispetto o meno degli altri requisiti principali (Tabella 1).

Sulla base dei nostri calcoli circa 5,3 milioni di famiglie ha un ISEE minore di 9.360 euro annui. Di questi, poco più di 1/3 (il 35,4%) rispetta anche gli altri requisiti su reddito, patrimonio (mobiliare e immobiliare) e residenza ed è quindi eleggibile al RdC. Di particolare interesse sono le quote di nuclei che rispettano tutti i requisiti economici, ma non quello di residenza (il 3,7%), o quello reddituale (sul quale incide la particolare scala di equivalenza adottata; il 28,1%) o quello sul patrimonio finanziario (il 15,7%). In fase di valutazione dell’applicazione del RdC una particolare attenzione andrebbe posta proprio su queste famiglie per verificare quante di esse si trovano effettivamente in condizioni di disagio economico e sarebbero, dunque, escluse dal beneficio solo a causa dell’inevitabile arbitrarietà insita in ogni strumento selettivo di welfare (ad esempio, perché superano di poche decine di euro i vincoli patrimoniali).

Va altresì sottolineato che secondo il nostro modello sono circa 1,85 milioni le famiglie eleggibili. Pertanto, coerentemente con altri studi, il take-up della misura (il rapporto fra gli effettivi beneficiari e gli eleggibili) sarebbe pari al momento a circa il 67%. Individuare come è formato quel terzo di eleggibili che non ricevono la prestazione è cruciale per una valutazione della misura: si tratta di lavoratori in nero che non la richiedono per non sottostare a controlli e vincoli di condizionalità; di famiglie con reddito molto vicino alla soglia e che riceverebbero una prestazione di importo molto limitato o nuclei che non fanno domanda perché non hanno sufficienti informazioni o sono erroneamente esclusi dall’INPS?

Come già chiarito, un aspetto particolarmente critico riguarda la scala di equivalenza adottata. La scelta della “scala RdC” è stata in tutta probabilità dettata dalla volontà di massimizzare la platea di beneficiari rispettando, da un lato, la promessa dei 780 euro al mese da garantire ai single (come trasferimento o contributo per l’affitto) e, dall’altro, i vincoli del bilancio pubblico.

Al riguardo abbiamo condotto delle simulazioni, immaginando una riforma del RdC in cui si adottasse la scala ISEE o si eliminasse il requisito di residenza decennale o si introducessero entrambe le modifiche (Tabella 2).

La simulazione dello scenario attuale, basata sull’ipotesi di un take-up al 67% e di un peggioramento delle condizioni reddituali dei lavoratori connesso agli effetti occupazionali del COVID-19, evidenzia come la platea dei beneficiari crescerebbe se queste modifiche venissero introdotte – l’aumento sarebbe di 495.000 nuclei se si adottassero ambedue le modifiche – e come l’importo medio verrebbe sostanzialmente incrementato dalla modifica della scala di equivalenza (l’eliminazione del requisito di residenza avrebbe invece un effetto limitato sugli importi, essendo molto frequenti fra gli immigrati i nuclei con un solo componente). Ne risulterebbero ridotte sia la diseguaglianza dei redditi (con ambedue le modifiche, il Gini scenderebbe di 0,65 punti percentuali rispetto allo scenario attuale) sia la povertà (i nuclei con reddito equivalente inferiore al 40% della mediana diminuirebbero di 1 punto percentuale).

Gli effetti sul bilancio pubblico non sarebbero, però, irrilevanti, dato che, in base a questi scenari, la spesa crescerebbe fino a 4,8 miliardi annui. Si tratta, dunque, di un impegno consistente. Tuttavia, proprio in ragione dell’emergenza che in questi mesi ha portato il Governo a effettuare interventi improvvisi e ingenti, sarebbe stato auspicabile avviare una riflessione approfondita sulla complessiva coerenza e inclusività del sistema di assicurazione e assistenza sociale in Italia, ragionando anche su eventuali modifiche dell’impianto del RdC. Il Governo si è invece mosso con un’ottica di breve respiro, cercando di tamponare temporaneamente alcune falle mediante l’introduzione del REM, le cui caratteristiche e la cui coerenza col complessivo disegno del nostro welfare saranno oggetto di valutazione nella seconda parte di questo articolo.

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