Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro

Paolo Pascucci esamina la disciplina del reddito di cittadinanza contenuta nel d.l. n. 4/2019 per quanto attiene alla sua dimensione di politica attiva del lavoro, evidenziando, accanto a qualche aspetto positivo, alcune serie criticità ed in particolare la discutibile ricaduta sull’intero nucleo familiare del mancato rispetto del sistema di condizionalitàda parte di un suo componente. La sua conclusione è che sarebbe stata opportuna una maggiore coerenza con la disciplina generale delle politiche attive del lavoro da ultimo contenuta nel d.lgs. n. 150/2015.

1. Sebbene l’art. 1 del d.l. n. 4/2019 lo definisca come una misura di politica attiva del lavoro, il reddito di cittadinanza (Rdc) non è solo questo, ma, come evidenzia la premessa dello stesso decreto, costituisce anche e soprattutto una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale che, in quanto finalizzata ad assicurare un livello minimo di sussistenza, incentiva quella crescita personale e sociale dell’individuo che può conseguirsi mediante il lavoro. Del resto, se nei confronti degli “occupabili” il Rdc può indubbiamente ascriversi anche al sistema delle politiche del lavoro, esso riguarda anche chi, per motivi anagrafici (pensione di cittadinanza) o per peculiari caratteristiche individuali, non è alla ricerca di un lavoro o può essere coinvolto in altre forme di inclusione sociale. In realtà, il Rdc riafferma l’azione assistenziale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale come azione complessa. D’altronde, tra i suoi requisiti non rileva la condizione occupazionale, a riprova che il lavoro può non garantire l’affrancamento dalla povertà, potendo il Rdc riguardare non solo i disoccupati e le persone in cerca di prima occupazione, ma anche i working poor. Analizzando il d.l. n. 4/2019 si ha la sensazione che il rapporto di causa-effetto tra mancanza di lavoro e povertà tenda a rovesciarsi o, meglio, a porsi in una dimensione circolare: se la mancanza di lavoro produce povertà, la stessa povertà, come condizione di emarginazione sociale, rende più arduo trovare un lavoro specie se regolare e di una certa qualità. In questa circolarità e commistione tra contrasto alla povertà e sostegno alla ricerca del lavoro (e all’inclusione sociale) si coglie la natura “ibrida” del Rdc, quale strumento che persegue contemporaneamente e contestualmente entrambe le funzioni.

2. Pur in questa dimensione, il Rdc svolge comunque funzioni di politica attiva del lavoro e in più occasioni la sua specifica disciplina si interseca, anche modificandola, con quella generale risultante da ultimo dal d.lgs. n. 150/2015, attuativo del Jobs Act. Talora le modifiche indotte d.lgs. n. 4/2019 sulla disciplina generale del mercato del lavoro appaiono positive e condivisibili, come quando, per le finalità del decreto «e ad ogni altro fine», si considerano in stato di disoccupazione i lavoratori il cui reddito da lavoro, dipendente o autonomo, corrisponda ad un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni di cui all’art. 13 TUIR (c.d. “no tax area”). Si ripristina quindi, con portata generale, la definizione dello status di disoccupazione che emergeva nell’art. 4, d.lgs. n. 181/2000 prima della sua abrogazione ad opera del d.lgs. n. 150/2015 (nel quale tuttavia permane la vecchia definizione di disoccupazione), sebbene non sia chiaro se, in quanto formalmente “disoccupati”, anche i predetti lavoratori siano annoverabili tra quelli «non già occupati» tenuti agli obblighi di attivazione e in particolare alla stipulazione del Patto per il lavoro.

3. Tuttavia, in altri casi, come misura di politica del lavoro il Rdc presenta aspetti critici, il più rilevante dei quali riguarda indubbiamente il riferimento al nucleo familiare. Infatti, se si può comprendere che tutti i componenti “occupabili” del nucleo familiare siano coinvolti in politiche di attivazione ispirate al principio di condizionalità, è discutibile che la violazione del principio da parte di uno solo dei componenti si ripercuota negativamente sull’intero nucleo (con la decadenza dal beneficio) in contrasto con il principio della responsabilità individuale. Il che è ancor più evidente quando il Rdc si aggiunga a Naspi o Dis-Coll con i quali è compatibile: nonostante la sua diversa natura rispetto a tali strumenti (assistenziale e non previdenziale), quando emerge come strumento di politica attiva del lavoro, sottoposto ad analoghe pur se non identiche logiche di condizionalità, il Rdc dovrebbe soggiacere ad un’analoga disciplina fondata su di un profilo di responsabilità individuale. Il fatto che l’inerzia di un membro del nucleo familiare vanifichi il rigoroso impegno con cui un altro membro sta seguendo il percorso di avviamento al lavoro è ancor più paradossale considerando che si tratta di un percorso personalizzato (il Patto per il lavoro equivale al Patto di servizio personalizzato di cui all’art. 20, d.lgs. n. 150/2015) e che l’erogazione del Rdc è suddivisa – presumibilmente in parti uguali – per ogni singolo componente maggiorenne del nucleo familiare.

Un altro profilo critico, relativo all’interferenza tra la disciplina del Rdc e quella generale delle politiche attive, riguarda l’assegno di ricollocazione di cui all’art. 23, d.lgs. n. 150/2015 finalizzato ad ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro, che il beneficiario del Rdc tenuto a stipulare il Patto per il lavoro riceve automaticamente e non su richiesta. Purtroppo, la presumibile penuria di risorse ha indotto il legislatore a conservare per ora questo prezioso strumento solo per i beneficiari di Rdc, sospendendolo discutibilmente fino al 31.12.2021 per gli altri soggetti coinvolti nelle politiche attive del lavoro, con il rischio di penalizzare ingiustamente chi avrebbe più possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro.

Quanto poi all’attivazione, i beneficiari del Rdc stipulano presso i Centri per l’impiego o i soggetti accreditati un Patto per il lavoro che equivale al Patto di servizio personalizzato di cui all’art. 20, d.lgs. n. 150/2015, il quale, ai fini del Rdc «e ad ogni altro fine» – quindi anche al di fuori del campo di applicazione della disciplina del Rdc – assume la denominazione di Patto per il lavoro. Se la denominazione originaria del Patto evidenziava più correttamente la funzione servente del Centro per l’impiego nella prospettiva della ricerca del lavoro in una logica di “obbligazione di mezzi”, quella attuale pare più proiettata in una logica di “obbligazione di risultato”, trascurando però le scarse risorse occupazionali esistenti. D’altro canto, se nella specifica logica del Rdc la modifica può forse giustificarsi per distinguere il percorso verso il lavoro da quello verso altre forme di inclusione sociale, al di fuori di tale contesto non pare invece necessaria.

4. Per quanto concerne la condizionalità, la congruità dell’offerta di lavoro risulta non solo dalle previsioni del d.l. n. 4/2019, ma anche dalla disciplina dell’offerta congrua ricavabile dal d.lgs. n. 150/2015 e dal d.m. n. 42/2018, dovendosi in particolare tenere conto della coerenza sia delle esperienze e competenze maturate, sia delle tipologie contrattuali evocate nel predetto decreto ministeriale. Il che è in linea con il superamento, operato dal d.lgs. n. 150/2015, delle grette logiche della l. n. 92/2012, che, trascurando la professionalità del lavoratore, imponevano nella sostanza di accettare un qualunque lavoro.

Al di là di questa interazione con la disciplina generale, il sistema di condizionalità del Rdc presenta regole differenti per la congruità dell’offerta di lavoro: mentre nel caso dei disoccupati titolari di Naspi o Dis-Coll, il rifiuto di una proposta di lavoro congrua comporta direttamente la decadenza del trattamento, nel caso del Rdc quest’ultima scatta in un quadro di offerte più articolato, che consente al beneficiario di rifiutarne alcune entro un certo limite. Senonché, a fronte di questa minore severità, la nozione di congruità dell’offerta muta in peius rispetto all’ambito geografico dell’occasione di lavoro, il quale può giungere a coincidere con l’intero territorio nazionale. E, nel caso del Rdc, si rivela speciale anche la dimensione retributiva dell’offerta di lavoro congrua, che sarà tale se superi di almeno il 10% il beneficio massimo fruibile da un solo individuo, per un minimo mensile di 858 euro: una soglia che non costituisce un salario minimo legale di portata generale, bensì solo un’ulteriore caratteristica della congruità dell’offerta di lavoro nel sistema della condizionalità.

Peraltro, stante la compatibilità delle indennità generali di disoccupazione con il Rdc, ci si dovrebbe anche chiedere se, nel caso di un percettore di Naspi beneficiario anche di Rdc, il regime di condizionalità connesso a quest’ultimo “assorba” quello previsto per la Naspi o se i due regimi coesistano: un problema che il legislatore non sembra essersi posto e che potrebbe dischiudere scenari paradossali nei quali l’una condizionalità… “condizionerebbe” l’altra condizionalità! Ragionevolezza vorrebbe che, con la sottoscrizione del Patto per il lavoro – che, ai fini del Rdc e ad ogni altro fine, equivale al Patto di servizio già sottoscritto in relazione alla Naspi – il percorso di attivazione del beneficiario di Naspi e Rdc fosse governato esclusivamente dal regime di condizionalità del Rdc.

5. Per quanto non ideale e per molti versi problematica, tuttavia la congrua offerta riguarda pur sempre un rapporto di lavoro regolare, dotato di tutele impensabili nei rapporti sommersi con cui in certe aree del paese spesso si integrano le modestissime entrate regolari che consentono di ottenere il Rdc. Pur con le riserve tecniche del caso e con la consapevolezza che, senza adeguate politiche industriali e di sostegno alla crescita, quelle del lavoro non possono compiere miracoli, il Rdc e la condizionalità che lo governa tendono a favorire, tramite la ricerca di un lavoro pur non ottimale ma regolare, l’emersione da un sommerso che alimenta l’esclusione sociale e una vita spesso ai margini della legalità. E forse proprio qui sta la sintesi tra le varie anime del Rdc e l’intenzione di farne uno strumento di inclusione sociale, tanto che ci si potrebbe chiedere se, di fronte alla funzione bifronte o ibrida del Rdc, non debba essere ibrida… anche la stessa condizionalità, stimolando l’attivazione delle persone, ma senza vanificare del tutto l’obiettivo di affrancamento dalla povertà. Il che evoca quanto già detto sulle discutibili conseguenze a macchia d’olio della mancata attivazione di un solo componente del nucleo familiare.

6. Fermo restando che la valutazione delle nuove regole dipenderà dalla loro concreta effettività (i beneficiari di Rdc saranno davvero disponibili a gravosi trasferimenti per ottenere il lavoro?), le perplessità su certe “prese di distanza” del d.l. n. 4/2019 dalla disciplina generale delle politiche attive del lavoro consiglierebbero una rimeditazione anche per evitare possibili censure di incostituzionalità che nuocerebbero alla credibilità di un testo normativo già così complesso e non sempre perspicuo: non costituisce forse un’irragionevole disparità di trattamento contraria all’art. 3 Cost. il fatto che, a differenza dei beneficiari di trattamenti di disoccupazione, un percettore di Rdc perda il trattamento pur rispettando le regole solo per la violazione di un altro membro del suo nucleo familiare?

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