Rapsodia in rosso (Il Pci per sentito dire)

Fabio Calè rilegge, nell’imminenza del centenario del Pci, il recente numero speciale del Menabò dedicato a Luciano Barca nel centenario della sua nascita. Prendendo spunto da una frase contenuta in Buscando il mare, e raccogliendo gli stimoli offerti da diversi articoli contenuti in quel numero, Calè ricompone i suoi ricordi, anche personali, sui comunisti italiani e sulla cultura politica che seppero esprimere, avanzando la speranza che il suo significato più originale di quella cultura possa essere ancora trasmesso.

Leggendo il Menabò speciale dedicato a Barca, sono rimasto folgorato da questa citazione di Buscando per il mare con la X Mas: “Ci sono state epoche in cui i confini che appaiono ben netti nei libri di storia e che erano pur segnati, agli occhi di chi non voleva rifiutare l’evidenza, da marcate contrapposizioni fra libertà e tirannia, tra fede nella ragione e fede nella forza, apparivano in alcuni momenti al singolo, soprattutto se giovane, più difficili da individuare.”

Mi sono sentito – per abusare di un’assonanza celebre – coinvolto, non tanto come ex-studente di storia ma in qualità di figlio di un militante del Pci degli anni 70, che intorno al 1944 rischiò un paio di volte (almeno) la propria incolumità per affermare, 17enne, che rifiutava il tradimento delle alleanze e conseguentemente si dichiarava, pur non essendolo mai stato, fedele all’Italia fascista.

Mio padre, come milioni di altri italiani, arrivò al Pci degli anni 70 dopo un percorso lungo e accidentato, non privo di contraddizioni.

A casa mia diversi autori della dissidenza sovietica, pur presenti in libreria, erano (idealmente) costretti a riconoscere la grandezza di Stalin, in quanto autentico vincitore della seconda guerra mondiale.

A casa mia il compromesso storico era una disgrazia, forse neppure necessaria, ma Berlinguer era al di sopra di qualunque critica, specie se proveniente da parenti o amici non comunisti.

Una volta, circa due decenni più tardi, mi domandò incautamente cosa pensassi di fare della mia vita dopo una decina d’anni di militanza politica. Ci misi qualche ora a dire che non ne avevo idea. Mi abbracciò piangendo, spezzato dal senso di colpa per avermi politicizzato dalla prima infanzia; io mi sentivo in colpa per averlo fatto sentire un kulaki ogni volta che si parlava di politica fiscale.

Tutto ciò per denunciare che il mio sguardo sul Pci non è quello di un osservatore neutrale; difetto cui va aggiunta la difficoltà oggettiva, in un tempo schiacciato sul presente come descritto da Rubbettino, di confrontarsi con un’epoca, un partito, un popolo e la sua classe dirigente, dei quali nulla sembra sia rimasto tra noi.

E’ un’illusione ottica, questa cesura radicale con un passato che può apparire, oggi, lontano quanto il Risorgimento; o almeno deve crederlo, magari accendendo un cero a Marc Bloch, chi si occupa di storia, di memoria, di cultura politica.

Pertanto, anche grazie agli stimoli presenti in altri contributi di quel numero, muovendo da questo grumo di memoria e identità ho provato a inoltrarmi nella memoria del Pci, vicini come siamo al centenario del partito comunista italiano, quello “di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer!” (per inciso, negli anni 90 lo slogan da corteo proseguiva ironicamente, almeno a Roma, così: “e quello piccoletto/di Achille Occhetto/ma ora la destra trema/c’è Massimo D’Alema!”; beata ingenuità).

Ha ragione la Urbinati ad avvertire che la visione dell’epoca del partito di massa come un’età dell’oro ha la funzione di rifugio simbolico, nell’odierno deserto di idee e di politica; fanno bene tutti coloro che, confrontandosi con il Pci ed essendo ricercatori, o politici, sentono il bisogno di premettere un rifiuto programmatico della nostalgia, moderno oppio di un popolo di sopravvissuti.

Per parte mia, mi concedo il lusso di deviare dalla strada maestra, anche perché la psicanalisi me l’ha insegnato, la nostalgia non è reato: basta riconoscerla e non lasciare che domini la coscienza. Se è droga, che stia tra le leggere.

Procedendo rapsodicamente, cominciamo da una frase chiave, una scorciatoia per arrivare subito al concetto che mi interessa porre in rilievo:

“Imparammo di nuovo a parlare il linguaggio di tutti, non solo nella forma, ma nella sostanza”: così Palmiro Togliatti, a proposito dell’epoca successiva al VII congresso dell’Internazionale del 1935 (lo stesso anno delle sue Lezioni sul fascismo, riconosciute da Emilio Gentile come uno dei primi esempi di una lettura adeguata del totalitarismo fascista).

A lavorare sulla forma si dedicarono, ad esempio, Rodari e Calvino, giovani cronisti per l’Unità impegnati a raccontare uno il corteo, l’altro il comizio della Festa del 1948, e innumerevoli intellettuali e artisti, anche dopo il 1956, o il 1968, o il 1977, nonostante il Manifesto dei 101 e mille altre occasioni di conflitto tra dottrina e libertà, collettivo e individuo. Insieme a loro, nelle sezioni, nelle feste, nelle scuole di partito, nei comitati di quartiere, nei luoghi di lavoro, di formazione e di svago, milioni di persone hanno partecipato alla costruzione dell’intellettuale collettivo.

Quanto alla sostanza, parlare il linguaggio di tutti significava saper interpretare i bisogni e le aspirazioni del popolo, alimentare e difendere la democrazia (sul serio, e contro nemici decisamente violenti e spregiudicati), istituire gli asili nido a Bologna, mobilitare operai e studenti contro il colera a Napoli, raddoppiare la metropolitana a Roma; per tacere del fatto che la cosiddetta vita di partito era in sé un cambiamento di non poco rilievo nella vita di un individuo.

Tutto ciò definì una cultura politica: un’esperienza integrale, spesso totalizzante, nella quale miti e riti, di certo anche quelli di matrice sovietica e di certo per un periodo più lungo di quanto abbiano voluto ammettere i cercatori di riformismo, svolgevano un ruolo fondamentale; non solo nella mobilitazione emotiva delle masse lavoratrici, ma anche nella selezione dei quadri, della classe dirigente. L’infrastruttura ideologica, infatti, non funzionava a compartimenti stagni: da un lato cultura e riforme, l’intelligenza della ragione illuministica; dall’altro miti e riti della militanza, la forza della religione politica. Oppure, volendo, intellettuali e popolo, riforme e rivoluzione.

L’ideologia funzionava come griglia interpretativa, certo, ma anche come guida etica, paradigma di riferimento per valutare sé stessi e gli altri. Essendo fondata su una sorta di dialettica concentrica, tra mito e realtà, partito e società, storia e presente, le sintesi politiche che ne risultavano non erano la contraddizione, l’eccezione, ma la regola, la famosa linea.

Altrimenti non solo rimangono inspiegabili le grandi svolte, vale a dire gli adattamenti progressivi della dialettica tra autonomia e internazionalismo, democrazia e socialismo; ma anche, ad esempio, il rapporto con intellettuali e artisti, che certo non si può risolvere con la vetusta contrapposizione tra realismo socialista e avanguardie post-belliche, o la visione un pò macchiettistica del Pci bigotto e patriarcale che prima non accetta Pasolini, poi non capisce il 68 e infine perde completamente di vista, con il 77, “i giovani”.

Molte di queste polemiche, ormai mummificate nell’eterno ripetersi dell’ovvio e del banale, soffrono lo stesso difetto di fabbricazione di altre interpretazioni che provengono proprio da quella casa madre, o meglio dai suoi eredi legittimi, che i critici vorrebbero colpire: l’ansia di rintracciare nel passato la giustificazione del presente, la tentazione di darsi sempre ragione.

A proposito di giovani e intellettuali, Luigi Nono, compositore di musica d’avanguardia spinta fino alle sperimentazioni più radicali, nel 1975 partecipa a “Musica per la libertà”, manifestazione concerto organizzata dalla Fgci al palasport romano, che vede in scaletta molti cantautori, gruppi di musica popolare, gli Inti Illimani e i Quilapayun, attori quali Proietti e Volontè. Nono è abituato a uscire dal recinto dell’avanguardia: lo incontriamo in molte feste nazionali degli anni 70, inclusa quella di Venezia in cui un pubblico attento assiste per diverse ore in religioso silenzio a una rappresentazione brechtiana del Berliner Ensemble, in tedesco.

I giovani in blue jeans accorsi a celebrare l’antifascismo al palasport, invece, non sono abituati. E fischiano, contestano “Il canto sospeso”, nonostante sia ispirato alle lettere dei martiri della resistenza europea, nonostante abbiano appena applaudito il messaggio di riscatto di cui Luigi Nono è latore, di ritorno da un incontro con i compagni portoghesi. L’artista, anziché andarsene amareggiato, prende il microfono e ci parla:

“Compagni, c’è un fatto culturale e politico di grande importanza. Mi rendo conto del perché dei fischi, e mi rendo conto anche di una certa difficoltà; ma noi comunisti dobbiamo essere convinti e coscienti (qui cominciano gli applausi) che dobbiamo usare tutti i mezzi a disposizione della cultura. Dobbiamo usare tutti i mezzi, non solo le chitarre; dalle chitarre, dai canti politici, alla musica elettronica, alla musica strumentale; e non abbandonarci a facili trionfalismi, né a semplicismi politici… La cultura comunista è un fatto serio, un fatto che impegna (qui gli applausi scrosciano)… Come dice Gramsci… può essere difficile… ma abbiamo bisogno di tutta l’intelligenza nostra, di tutti i mezzi a disposizione, se vogliamo realizzare l’egemonia culturale della classe operaia (ovazione generale).”

Ecco, questo è il tipo di video che mi suscita commozione e divertimento, insomma nostalgia. Mi induce anche, però, a interrogarmi sul perché un artista “difficile”, appunto, come lui desiderasse costantemente mettersi in discussione, uscire dal recinto (costruire ponti per dirla con Barca e Franzini): rivendicando tanto la necessità dell’autonomia assoluta del segno espressivo quanto la volontà di offrire una testimonianza di impegno civile e politico.

Non è questione di commuoversi per la generosità di grandi nomi dell’arte e della cultura, magari replicando inconsciamente la funzione legittimante dei compagni di strada; è quella esperienza integrale della militanza, invece, che possiamo trovare in mille vicende con protagonisti più o meno sconosciuti, quella concezione organica della cultura politica che sarebbe bello pensare di rendere accessibile, comprensibile a coloro che non l’hanno vissuta, e anche a coloro che l’hanno dimenticata, misconosciuta o relegata nel cassetto delle emozioni perdute.

Tornando, infine, a Luciano Barca, la citazione iniziale prosegue così: “In particolare l’indeterminatezza dei confini pesava su quanti non facevano parte di una comunità organizzata attorno a valori alternativi, ma dovevano costruirsi ogni giorno da soli, o quasi, norme di comportamento. La mia generazione ha vissuto tutto ciò attraversando queste epoche diverse. Ora individuando eroi da emulare, nemici della libertà e della democrazia da combattere senza esitazione; ora inventandosi percorsi individuali non guidati da una bussola certa.”

Forse è il momento di fabbricare bussole: saranno poi altre generazioni, nuove e libere, a decidere come usarle, e dove andare.

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