Quel figlio in più: il pianeta Israele rivisitato

Sergio Della Pergola propone due spiegazioni del ben più elevato numero medio di figli per donna (3) in Israele rispetto agli altri paesi sviluppati. La prima concerne l’ eterogeneità etnica e religiosa per cui, malgrado i processi di sviluppo, modernizzazione e convergenza fra maggioranza ebraica e minoranza musulmana, persistono gruppi ad altissima natalità. La seconda si riferisce al miglioramento nel tenore di vita e all’ottimismo nei confronti della vita. Della Pergola conclude sottolineando l’importanza generale di questi possibili meccanismi.

Nel contesto della diffusa denatalità nei paesi occidentali e in Italia in particolare, suscita curiosità e forse anche un pizzico di invidia il caso dello stato d’Israele dove il Tasso di Fecondità Totale (TFT), che sostanzialmente indica il numero di figli per donna, è assestato da molti anni (e in realtà quasi da sempre) attorno ai 3 figli in media. Da che cosa dipende questa stabilità e soprattutto questo surplus di un figlio o anche più rispetto alla norma solidamente stabilita nella totalità dei paesi sviluppati, non solamente in Europa ma anche in America e in Asia?

Israele è una società mediterranea avanzata. Nel 2019 occupava il 19° posto (su 186 paesi) nell’Indice di sviluppo umano (HDI), mentre l’Italia era al 29° posto. La popolazione è eterogenea per etnia e religione: circa l’80% sono ebrei (distribuiti da estremamente religiosi a estremamente secolari) e il 20% sono etnicamente arabi (in gran parte Musulmani). La partecipazione femminile alla forza di lavoro nel gruppo di età 25-54 è molto elevata (nel 2020, 89% per le donne ebree e 40% per le donne arabe), a smentita della supposta incompatibilità fra le aspirazioni a carriera e indipendenza economica, da un lato, e famiglia e maternità, dall’altro.

Nel 2020 il TFT della popolazione israeliana totale era di 2,90, e per ciascuna delle tre religioni principali – ebrei, musulmani e cristiani – la fecondità in Israele risultava superiore rispetto alle persone dello stesso credo residenti in Europa e in Medio Oriente. Per gli Ebrei israeliani il TFT di 3,00 contrastava con valori pari a circa la metà nelle comunità della diaspora ebraica. Fra i Musulmani il TFT di 2,99 superava quello dell’Arabia Saudita (2,42), del Marocco (2,38), o dell’Iran (1,59). Fra i Cristiani in Israele, in gran parte di etnia araba, il TFT di 1,85 sfiorava quello della Francia che a 1,86,è il più alto in Europa, superiore a quello di Svezia (1,71), Svizzera (1.48), Italia (1,27), o Spagna (1,23). Più simile ai paesi europei era la minoranza dei cittadini senza appartenenza religiosa, in gran parte provenienti dalle repubbliche dell’ex-Unione Sovietica, con un TFT di 1,35 nel 2020.

Al di là delle differenze socioeconomiche e socioculturali interne, la straordinaria resilienza di una fecondità molto al di sopra del rimpiazzo delle generazioni fa di Israele una realtà anomala, quasi un altro pianeta. Le interpretazioni possibili coinvolgono fattori nell’ambito sia micro- sia macro-sociale.

La dinamica di differenziazione e convergenza del TFT nel corso degli ultimi 15 anni è illustrata nella Figura 1. Il TFT per la popolazione totale segue modeste oscillazioni attorno ai 3 e riflette una tendenza alla diminuzione nella popolazione musulmana e una debole tendenza all’aumento nella popolazione ebraica. Le due linee (Dist. alto e basso) per ciascun gruppo religioso dimostrano la variabilità fra i diversi Distretti amministrativi (l’equivalente delle provincie italiane). Nella maggioranza dei casi si nota una convergenza quasi perfetta fra ebrei e musulmani, laddove in un passato più remoto le differenze fra i TFT distrettuali potevano raggiungere fino a 6 o 7 figli.

Tuttavia persistono diverse linee di comportamento nettamente fuori dalla media che coinvolgono varie sotto-popolazioni con particolari concentrazioni geografiche distrettuali e soprattutto con proprie caratteristiche socioculturali. Spicca fra tutte l’alto TFT delle donne musulmane del Distretto Sud, in gran parte appartenenti alle tribù beduine con stanziamenti fra il nomade e il baraccato nell’area desertica del Neghev. Il TFT, passato da 10 nel 1996 a meno di 5 nel 2020, testimonia di un tardivo e ancora non completato processo di transizione e di modernizzazione demografica che riguarda in particolare il ruolo e l’autonomia della donna nella società e la diffusione del controllo della natalità.

D’altra parte, all’interno della popolazione ebraica, si nota la persistente alta fecondità nel Distretto amministrativo coincidente con la Cisgiordania (noto anche come Giudea e Samaria). Si tratta degli insediamenti ebraici in territorio palestinese, caratterizzati da forte militanza soprattutto nazionale ma anche religiosa. Il TFT ebraico è alto anche nel Distretto di Gerusalemme che comprende un’alta aliquota di famiglie molto religiose (Haredim = timorati di Dio) una parte delle quali sono ostili, almeno in linea teorica, a qualunque interferenza della modernità con la vita della comunità.

Infine si nota fra la popolazione ebraica il TFT nettamente inferiore della città di Tel Aviv-Yafo. Ma ciò che è più significativo è che perfino nella città israeliana più moderna, più secolare e più edonistica, considerata anche come la più tollerante e amichevole nei confronti delle comunità LGBT, il TFT rimane sulla soglia o poco al di sotto del livello di riproduzione delle generazioni, e comunque al di sopra della totalità delle società europee.

Figura 1. Tassi di fecondità totale (TFT) per principali gruppi religiosi e Distretti – Israele, 1996-2020

Fonte: Israel Central Bureau of Statistics. Elaborazione dell’autore.

Fin qui dunque una lettura dell’elevato TFT israeliano che, al di là di una marcata convergenza nei comportamenti demografici – e induttivamente, nelle norme familiari sottostanti – riflette anche i livelli riproduttivi particolarmente elevati di minoranze ideologicamente molto militanti o non ancora interamente socializzate alla modernità. La piena convergenza di questi gruppi verso la media non è prevedibile nei tempi brevi anche se esiste qualche indizio in tale senso. Ma al di là delle pressioni settoriali verso livelli di fecondità insolitamente alti, non è meno rilevante l’assenza di livelli di TFT veramente minimi, inferiori a 1,5 o anche al di sotto di 1, che invece si rilevano in Italia e in molti altri paesi sviluppati. Da questo si può desumere che l’aspirazione verso un modello di famiglia nucleare con un’ampia conpresenza di adulti e bambini continui ad essere una norma altamente condivisa in tutti i settori della società israeliana.

Una seconda lettura proviene da un’analisi alla ricerca di una traccia di causalità, anche se ancora basata su dati non sufficientemente disaggregati. Tra i fattori da considerare: gli aspetti normativi legati alla fede religiosa ed eventualmente al persistente conflitto regionale; la desiderabilità di una famiglia più numerosa legata ad una visione ottimistica verso il futuro; la sua fattibilità legata al graduale miglioramento del tenore di vita nel Paese; e politiche sociali che rendono disponibili mezzi e strutture. .

La Figura 2 dimostra le relazioni esistenti fra tre variabili: il TFT, i livelli di reddito mensile in Shekel (NIS), e il livello di soddisfazione nei confronti della vita da parte della popolazione israeliana. Il periodo studiato è il decennio 2002-2011 nel corso del quale si sono avute diverse alternanze fra crescita e recessione economica, divese importanti campagne militari, sostanziosa immigrazione, e diversi cambiamenti di governo.

Figura 2. Relazioni fra redditi medi mensili, soddisfazione con la vita, e Tassi di Fecondità Totale (TFT) – Israele, 2002-2011

Source: Israel Central Bureau of Statistics, National Social Survey. Elaborazione dell’autore

Sulla base dei dati annuali (nei grafici ogni punto rappresenta un anno) per le tre variabili e le loro reciproche relazioni, ognuna delle tre equazioni appare estremamente forte. Il valore del coefficiente di determinazione R2 è superiore al 90% in ognuno dei tre casi esaminati. La relazione emergente tra i due principali fattori esplicativi – risorse materiali e ottimismo – e la variabile dipendente – figli – è illustrata graficamente nello schema presentato nella Figura 3 che potrebbe essere di interesse generale, al di là del caso specifico di Israele.

Figura 3. Schema elementare dei livelli di fecondità in Israele

In questa relazione triangolare, ciascun vertice/variabile è supposto influenzare gli altre due. I risultati sono in parte molto prevedibili: è plausibile che vi sia una relazione positiva fra redditi e soddisfazione con la vita. Maggiori risorse economiche disponibili spiegano sia più ottimismo per il presente e migliori aspettatve per il futuro. È anche comprensibile che vi sia una relazione positiva fra soddisfazione con la vita e figli neonati. L’ottimismo influenza la fecondità, anche perché esso risulta essere altamente e positivamente correlato con la religiosità. È invece meno ovvio ma particolarmente significativo che vi sia una relazione diretta fra redditi e numero di figli. Il caso israeliano conferma le recenti osservazioni in diversi paesi sviluppati circa l’inversione della storica relazione fra stato sociale e fecondità – da negativa in passato a positiva oggi.

Ma possono probabilmente funzionare anche le relazioni simmetriche che, se dimostrabili, rafforzerebbero la rilevanza esplicativa di questo modello elementare. Se è vero che l’ottimismo porta a più figli, è anche vero che i bambini possono generare più soddisfazione con la vita. Se maggiori risorse portano più figli anche attraverso la diminuzione del loro costo relativo, l’argomento sui figli come risorsa economica era sicuramente vero in passato nel contesto rurale delle società meno sviluppate. Oggi questo può forse transitare attraverso la macroinfluenza dei bambini come stimolo a maggiori consumi, e di conseguenza maggiore impiego e più alti redditi personali. Infine, se le risorse recano più ottimismo, l’ottimismo può forse generare più risorse attraverso l’assunzione di rischi e maggiore imprenditorialità.

Esistono dunque due chiavi di lettura dell’eccezionalità di Israele nei confronti dei livelli della natalità. Una chiave, come si è notato, è di carattere locale-particolare, in quanto riflette l’eterogeneità socioculturale e socioeconomica del paese. L’alta fecondità deriva in parte dalla “specializzazione” nel produrre maggiori nascite di taluni gruppi particolari – molto militanti in termini di norme familiari e riproduttive, o non ancora pienamente parte del mainstream della modernizzazione e del controllo della fecondità. Questa peculiarità potrebbe essere di applicabilità più generale alla luce delle trasformazioni delle società europee, della globalizzazione e della crescente eterogeneità delle società occidentali in seguito ai notevoli movimenti migratori degli ultimi decenni. Non è da escludere che in seguito all’integrazione degli immigranti nel nuovo contesto, alcuni tra questi diano libero corso alle tendenze pro-nataliste insite nelle rispettive culture d’origine, sebbene normalmente si sostenga il contrario, e cioè che finiscono per prevalere i comportamenti del paese di destinazione.

L’altra chiave di lettura è di carattere analitico più generale ma è forse di difficile applicablilità alla luce delle condizioni reali e obiettive delle società occidentali contemporanee, e in particolare in Italia. Significativamente, un ethos generale a favore della famiglia è ampiamente condiviso dalla maggior parte dei settori della società israeliana. Le persistenti norme sulla desiderabilità dei figli sono rafforzate dal raggiungimento di migliori standard di vita socioeconomici e dalla fiducia in un futuro migliore, che rende più fattibile in pratica la realizzazione del desiderio di quel figlio in più. Le politiche familiari non sono particolarmente sviluppate o efficaci in Israele, ma le misure a sostegno della fecondità tendenzialmente attirano un ampio consenso. Dai sondaggi appare che le famiglie desiderano più figli di quanti non ne abbiano in realtà, e questo non riflette motivazioni di ordine ideologico come “fare figli per la nazione, per l’esercito, o per il buon Dio”, ma soprattutto ragioni intimiste come “fa bene alla vita di coppia, ai piccoli che già esistono in casa, o a me stesso”. Il pubblico non chiede tanto trasferimenti monetari diretti o agevolazioni fiscali, ma semmai una riduzione dei costi del mantenimento e dell’istruzione dei figli, un abbassamento dei costi dell’alloggio, e una più benevola considerazione delle condizioni del lavoro femminile. Ma il grosso problema irrisolto nelle società occidentali resta quello dell’ottimismo e di una prospettiva positiva nella quale sia pensabile prendersi la responsabilità di mettere al mondo un altro figlio. Su questo piano, non è facile trasferire l’esperienza di Israele a quella di altri paesi.

Infine, la crisi del Covid-19 ha permesso di verificare in che misura esista una vulnerabilità del sistema demografico in condizioni di stress estremo e quale sia la sua capacità di riprendersi dopo le pandemie. In Israele, nel 2020, la mortalità è ovviamente aumentata, e nel contempo anche la fecondità è diminuita. Ma nel 2021 è apparsa una ripresa che indica un rapido ritorno ai robusti modelli riproduttivi antecedenti e dunque una forte elasticità nella capacità delle famiglie di conseguire il numero di figli auspicato.

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