Quanto è costoso essere poveri: il “rent to own” negli Stati Uniti

Michele Raitano, dopo aver segnalato come in USA le recenti ottime performance macroeconomiche si accompagnino ad un'ulteriore crescita della diseguaglianza, racconta lo sviluppo del "rent to own" - uno strumento che la grande distribuzione americana ha pensato per permettere di acquistare beni durevoli anche alle fasce di popolazione meno abbienti che non possono accedere al credito - e sottolinea come lo sviluppo del "rent to own" presenti aspetti particolarmente problematici che possono determinare un ulteriore peggioramento della diseguaglianza.

In base ai dati diffusi recentemente, e ripresi con grande risalto dalla stampa internazionale, gli Stati Uniti sembrano essersi definitivamente messi alle spalle gli effetti della recessione avviata dalla crisi finanziaria del 2007 e sembrano proiettati verso un nuovo American dream.

L’economia statunitense sta infatti registrando ottime performance, come confermano lo strabiliante 5% di crescita reale registrato nel corso del terzo trimestre del 2014 (il più alto tasso di crescita trimestrale dal 2003) e la continua riduzione del tasso di disoccupazione che, in base ai dati più recenti, si attesta al 5,6% (il valore minimo registrato da giugno 2008, mentre il saldo netto di posti di lavoro creati dall’economia statunitense nel 2014 è il più alto dal 1999).

Tanto ottimismo si attenua, però, quando l’attenzione si sposta dalla crescita verso le diseguaglianze. Nulla segnala, infatti, che negli Stati Uniti le diseguaglianze si stiano riducendo; anzi emergono segnali di una loro ulteriore crescita. Nel 2014, la crescita del PIL e la riduzione della disoccupazione si sono accompagnati a una riduzione di circa 0,2 punti percentuali dei salari orari e molta della crescita occupazionale sembra legata all’aumento di contratti part-time “involontari”. I principali indici di diseguaglianza  (fermi al 2012) segnalano, inoltre, che dal 2007 al 2012, negli Stati Uniti, la forbice distributiva ha continuato ad allargarsi: il coefficiente di Gini dei redditi lordi equivalenti è cresciuto dal 44,4% al 46,3%, le quote di reddito detenute dal top 1% e dal top 0,1% (anche senza considerare i capital gains) sono aumentate, rispettivamente, dal 18,3 al 19,3% e dall’8,1 all’8,8% e il rapporto fra la retribuzione del 90° percentile e del lavoratore mediano è cresciuto da 2,30 a 2,44.

Crescita del PIL e della diseguaglianza continuano, quindi, ad andare a braccetto negli Stati Uniti. Della crescita economica si appropriano soprattutto, se non esclusivamente, i più abbienti mentre le retribuzioni dei restanti lavoratori ristagnano o diminuiscono. Ma, allora, cosa sarebbe cambiato dal periodo pre-crisi? A ben vedere, una differenza c’è e riguarda il tenore di vita dei nuclei meno abbienti, che sembrerebbe a rischio di un’ulteriore riduzione, anche al di là di quanto mostrano le statistiche ufficiali.

Fino al 2007, all’interno di un sistema economico-finanziario “drogato”, in presenza di redditi reali stagnanti o decrescenti, i nuclei meno abbienti riuscivano a realizzare i propri obiettivi di consumo (imitando, in un certo modo, i comportamenti di consumo dei più abbienti) tramite il facile accesso al credito (necessario, spesso, anche per fruire di sanità e istruzione di buona qualità). Tuttavia, come sostenuto da illustri economisti (fra i quali Rajan, Stiglitz, Fitoussi), l’aumento della domanda di credito dovuto alla crescita delle diseguaglianze e l’estrema facilità di ottenere credito anche per chi non poteva offrire adeguate garanzie, accompagnate dall’assenza di un’efficace regolamentazione dei mercati finanziari, avrebbero contribuito ad accrescere la fragilità del sistema avviando, di conseguenza, la crisi. In seguito alla crisi, le necessarie strette nella regolamentazione dei mercati finanziari hanno reso molto più difficile l’accesso al credito al consumo dei meno abbienti senza, però, che i loro redditi siano tornati a crescere sensibilmente (come visto, molta crescita occupazionale avviene tramite contratti part-time involontari, a bassa retribuzione complessiva).

La forbice del tenore di vita fra abbienti e meno abbienti sembra quindi accrescersi a causa dell’impossibilità di questi ultimi di mantenere i precedenti livelli di consumo in quanto impossibilitati a ottenere credito e ad ottenere redditi più elevati. La risposta a tale problema non risiede, finora, in una compressione delle diseguaglianze e una crescita dei salari, ma nel forte sviluppo di uno strumento finanziario in precedenza marginale nell’economia statunitense, il “rent to own” (affitta per possedere).

Come chiarito in un’interessante inchiesta del Washington Post , tramite il rent to own una serie (in ampia crescita) di negozi offre ai nuclei familiari con poco reddito e poche garanzie per accedere al credito la possibilità di consumare beni durevoli (mobili, elettrodomestici, prodotti elettronici, vestiti) pagando un numero predefinito di rate di affitto (settimanali o mensili, solitamente con un periodo di pagamento biennale), finite le quali si diviene proprietari del bene. Nel momento in cui non si riesce a pagare anche solo una rata il bene viene riconsegnato al negozio senza nessun rimborso di quanto sborsato in precedenza e, al contempo, i consumatori non incorrono in nessuna penale aggiuntiva (alternativamente, si può sempre riscattare il bene a un prezzo predefinito prima del termine del periodo di rateazione). Si stima che, al termine del 2012, i negozi che offrivano transazioni tramite il rent to own fossero 10.400 e che ad esso si rivolgessero almeno una volta nell’anno circa 4,8 milioni di famiglie con un flusso di ricavi di circa 8,5 miliardi l’anno.

Allora tutto bene? La grande distribuzione statunitense ha sviluppato un nuovo strumento per superare i vincoli nell’accesso al credito e ampliare le possibilità di consumo delle famiglie? A ben guardare, il quadro che viene fuori è tutt’altro che roseo. Il prezzo dei beni di cui si spera di entrare in possesso tramite il rent to own è, infatti, straordinariamente maggiore del loro valore di mercato in caso di acquisto diretto o del costo complessivo di un normale piano di finanziamento per accedere al quale sono richieste garanzie reali: per divenire proprietari, una volta terminato il pagamento delle rate, l’esborso totale risulta, infatti, in gran parte dei casi, addirittura triplo del prezzo di mercato. Il valore delle rate è, quindi, estremamente alto, mentre chi “affitta per poi possedere” ha nella gran parte dei casi un reddito limitato e volatile. Di conseguenza, in circa il 75% dei casi il bene viene restituito dopo poche settimane dalla stipula della transazione.

D’altro canto, pagare a rate per due anni un bene al triplo del suo valore di mercato equivale, concettualmente, a ricevere un credito al consumo a tassi di interesse da usura. In base alla normativa statunitense, il rent to own non si configura però come un prestito (viene concesso senza guardare a nessuna caratteristica individuale e patrimoniale degli individui) e, al momento, non è soggetto ad alcun tipo di regolamentazione. L’imperioso sviluppo del rent to own sembra, quindi, una risposta della grande distribuzione americana per continuare a fare affari con le famiglie poco abbienti, sottraendosi alla regolamentazione nell’accesso al credito e mantenendo alti i profitti.

D’altra parte, chi è disposto a effettuare una transazione con il rent to own spesso non ha alternativa. Forti vincoli di liquidità impediscono di acquistare il bene direttamente (eventualmente anche usato e, quindi, un bene di peggior qualità, ma a minor prezzo), mentre l’assenza di sufficienti garanzie di reddito o ricchezza impedisce di aderire a un piano di credito al consumo. Per i meno abbienti, dunque, l’unica opzione percorribile per consumare diventa pagare rate molto elevate, scommettendo nella crescita futura dei propri redditi, che permetterebbe di riscattare il bene prima del termine delle rate di affitto o, quantomeno, di riuscire senza difficoltà a rispettare le rate.

Se le vendite tramite il rent to own prendessero ulteriormente piede, il principale cambiamento degli Stati Uniti in seguito alla crisi sarebbe, dunque, quello di muoversi da una società di indebitati poveri verso una società di poveri che si trovano di fronte all’alternativa tra rinunciare a consumare beni durevoli o accedervi solo a fronte di costi crescenti, così riducendo ulteriormente, in misura sostanziale, il reddito che effettivamente hanno a disposizione per risparmi o altri consumi.

Insieme al nuovo miracolo della crescita economica, emerge, dunque, il quadro di una società che non riesce a risolvere, né nel mercato del lavoro, né con l’azione del welfare, i suoi problemi strutturali di crescente povertà e vulnerabilità, anche fra i lavoratori, e che, come soluzione “di mercato”, offre ai meno abbienti la possibilità di accedere ai beni di consumo unicamente a prezzi straordinariamente più alti di quelli disponibili per chi non ha problemi. In un’economia in cui “chi meno ha più paga” la diseguaglianza effettiva nel benessere economico degli individui è, dunque, molto più alta di quella, già straordinariamente elevata, che emerge guardando ai soli redditi.

Più in generale, anche pensando al caso italiano e di altri paesi occidentali, per valutare la distribuzione del benessere economico delle società non ci si può limitare a guardare unicamente ai redditi disponibili (di mercato o da trasferimenti pubblici in moneta), ma si dovrebbe indagare quanto rimane nel bilancio familiare una volta sostenute alcune tipologie di spesa (per la casa, per beni di consumo o per servizi essenziali, quali l’assistenza a minori o anziani), che possono risultare di diverso importo per chi si posiziona nei vari punti della scala distributiva. E, come insegna la preoccupante esperienza statunitense del rent to own, il quadro di sperequazione e vulnerabilità potrebbe risultare ancora più grave.

 

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