Quando l’immigrazione fa vincere tutti: il caso di Israele all’inizio degli anni ’90 secondo Assaf Razin

Marilena Giannetti riprendendo uno studio di Assaf Razin presentato al convegno “Migration and Welfare” tenutosi di recente a Roma spiega perché un particolare evento come quello del grande flusso d’immigrazione che si è verificato dai paesi dell’ex URSS verso Israele negli anni ’90 ha avuto effetti positivi dal punto di vista socio-economico sia per la popolazione già residente sia per i nuovi arrivati. Una delle ragioni è da individuare nella politica, da sempre adottata da Israele, del “libero ritorno”.

I flussi migratori hanno sempre un impatto sociale, politico ed economico nei paesi di destinazione. L’entità e le proprietà di tale impatto non sono però individuabili in modo univoco poiché dipendono da una moltitudine di fattori relativi sia al paese di accoglienza sia alle caratteristiche del flusso migratorio. Per quanto concerne il paese ospitante sono molto rilevanti le politiche d’immigrazione e le caratteristiche del sistema politico, economico e produttivo. Per quanto riguarda, invece, i flussi di immigrati, gli effetti dipendono dalla loro composizione di genere, dalla loro maggiore o minore eterogeneità etnica e dalla loro eventuale vicinanza linguistica-culturale con la popolazione autoctona, dall’età media degli immigrati e last but not least, dal loro livello di istruzione.

Assaf Razin, nel lavoro presentato al convegno internazionale “Migration and Welfare” organizzato dal Centro di Ricerca Interuniversitario “Ezio Tarantelli” (CIRET) e tenutosi a Roma nella facoltà di Economia della Sapienza l’11 e 12 Maggio scorsi, spiega perché il grande flusso d’immigrazione dai paesi dell’ex URSS che ha interessato Israele nel periodo tra il 1989 e i primi anni ’90 rappresenta un esempio positivo di accoglienza e di integrazione socio-economica in grado di produrre effetti positivi per tutti, anche se al prezzo di una crescente disuguaglianza dovuta, peraltro, alle scelte di politica economica effettuate a seguito dell’ondata migratoria.

Negli anni ’90, in seguito alla caduta dei regimi comunisti dell’Europa centrale ed orientale e alla disgregazione dell’Unione Sovietica, un gran numero di cittadini di quelle ex dittature decisero di emigrare verso i paesi economicamente più avanzati dell’occidente come USA, Canada, Australia Germania, Regno Unito ad altri paesi europei. Gli ebrei dell’Unione Sovietica scelsero come destinazione principalmente Israele e in questo paese nel periodo 1989-2001 la percentuale di nuovi immigrati rispetto alla popolazione residente ha sfiorato il 20% (circa 1 milione di persone). Percentuali così alte o anche maggiori si sono avute solo nel periodo della seconda guerra mondiale o in quello immediatamente successivo alla nascita dello Stato di Israele. All’epoca però la popolazione autoctona era molto ridotta.

La rilevanza di tale ondata risiede non soltanto nell’elevato numero di immigrati ma anche nelle loro comuni caratteristiche.

In particolare, guardando alla popolazione di religione ebraica preveniente dall’ex URSS, Razin evidenzia che si tratta di famiglie provenienti principalmente da aree urbane e con un livello di istruzione piuttosto elevato. Il numero medio di anni di istruzione dei capofamiglia di questa coorte di immigrati è di 14 anni contro i 13,3 della popolazione già residente e il 41,1% di loro è laureato contro il 29,5% della popolazione residente. Le famiglie immigrate sono mediamente meno numerose: 2,32 componenti contro i 2,74 delle famiglie residenti.

Grazie al grande ed improvviso aumento di capitale umano, l’immigrazione ha stimolato ingenti investimenti produttivi e residenziali finanziati soprattutto con capitali esteri; infatti la quasi totalità dei nuovi arrivati non disponeva di capitali; anzi, si era indebitata per affrontare il viaggio.

Tale aumento di capitale produttivo e di capitale umano ha portato ad una crescita di produttività che, a sua volta, ha avuto l’effetto di far crescere sia i salari dei lavoratori altamente qualificati sia il rendimento del capitale. Cioè, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, lo shock dal lato dell’offerta rappresentato dall’improvviso aumento dei lavoratori altamente qualificati non ha comportato una caduta dei salari di questi lavoratori già presenti sul mercato: la spiegazione sta nell’aumento del capitale fasico che si è accompagnato all’aumento del capitale umano.

Un’altra caratteristica di questo flusso riguarda la seconda generazione. I figli dei cittadini ebrei arrivati dall’ex-URSS nel periodo 1989-2001 hanno goduto di una mobilità sociale verso l’alto molto più accentuata rispetto a qualsiasi altro gruppo etnico presente in Israele. Anche gli etiopi o gli arabi di seconda generazione presentano una buona mobilità intergenerazionale ma se si tiene conto della posizione di partenza nella distribuzione del reddito dei loro genitori, la loro ascesa verso i decili più elevati appare molto più lenta di quella dei figli degli immigrati dall’ex-Unione Sovietica. Infine, mentre solitamente il tasso di partecipazione civica degli immigrati è molto basso, gli ebrei immigrati dall’ex-URSS hanno fatto registrare un tasso di partecipazione alle elezioni politiche ed amministrative elevatissimo: alle elezioni politiche del 2001 non è risultato diverso da quello dei già residenti.

Questi fatti hanno però contribuito ad aumentare in Israele la disuguaglianza sia nei redditi di mercato sia in quelli disponibili. Infatti, se da un lato questi nuovi cittadini si sono integrati molto velocemente, ottenendo buoni risultati dal punto di vista economico, dall’altro lato c’è una crescita del peso dei due gruppi etnici relativamente più poveri: gli ebrei ortodossi (soprattutto uomini) e gli arabo-israeliani (soprattutto donne). Questi gruppi tendono a restare al margine del mercato del lavoro e inoltre le loro famiglie sono mediamente molto più numerose rispetto agli altri gruppi etnici.

A questi fenomeni si è accompagnato negli anni una mancata crescita della spesa sociale -già molto contenuta rispetto agli altri paesi dell’OCSE- e una ridotta politica redistributiva.

Se infatti, la disuguaglianza nei redditi di mercato, misurata con l’indice di Gini non è eclatante rispetto agli altri paesi OCSE, in quella nei redditi disponibili, cioè dopo gli interventi redistributivi, Israele si colloca al terzo posto dopo gli Stati Uniti e il Regno Unito.

Razin nota che la disuguaglianza nei redditi disponibili era piuttosto stabile in Israele fino all’inizio degli anni ’90 quando ha cominciato a crescere, sebbene la disuguaglianza nei redditi di mercato non abbia seguito esattamente lo stesso processo (si veda Figura 3.5 tratta dal suo Working Paper NBER 23210, marzo 2017).

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Attraverso un modello di political economy, Razin cerca di spiegare come questo risultato possa essere derivato dalle modifiche nell’equilibrio politico conseguenti l’arrivo degli immigrati dall’ex Unione Sovietica negli anni ’90.

Senza entrare nel dettaglio, si può esporre l’idea centrale.

L’arrivo di immigrati altamente qualificati (accompagnati da ingenti investimenti) ha fatto aumentare il salario relativo degli “high skilled” e cadere quello dei “low skilled” che hanno sperimentato anche un aumento del tasso di disoccupazione. E’ anche aumentato il tasso di dipendenza: sono cresciuti i poveri e i disoccupati tra i lavoratori poco qualificati. La conseguenza è stata un rafforzamento della coalizione politica favorevole all’aumento delle tasse. Infatti, i poveri e i disoccupati sanno che i sussidi di cui loro saranno beneficiari netti, dovranno essere sostenuti da maggiori entrate. Quindi inizialmente cresce il fronte politico che sostiene l’aumento delle tasse. Ma l’aumento delle tasse sarà sopportato da chi lavora e non è povero e che è rappresentato dall’elettore mediano. In questo caso, tutta quella parte di popolazione che risulta essere contributore netto – che, cioè, paga costi maggiori dei benefici che riceve da una politica redistributiva si opporrà all’ aumento delle tasse e l’intero sistema redistributivo subirà una contrazione

Applicando questo meccanismo all’evento specifico del flusso di immigrazione dall’ex-URSS verso Israele degli anni ’90, si comprende perché la disuguaglianza dei redditi disponibili in Israele abbia iniziato a crescere proprio in partire dalla fine degli anni ‘90. Infatti, la politica immigratoria israeliana è da sempre governata dal principio del “libero ritorno” cioè del libero accesso per tutti gli ebrei che decidono di tornare in Israele ai quali viene, peraltro, garantita piena cittadinanza immediata. Possiamo allora riassumere gli eventi nel modo seguente:

La libertà di immigrare ha fatto sì che la scelta se tornare o meno fosse fatta senza vincoli o limiti. L’arrivo massiccio dei lavoratori altamente qualificati ha scoraggiato l’immigrazione dei lavoratori poco qualificati. L’aumento di produttività che è seguito all’immigrazione qualificata e ai maggiori investimenti ha di fatto ridotto il peso fiscale per far fronte alla spesa sociale essendo aumentato il valore della base imponibile. Essendo, però, aumentata la quota di persone che sono contributori netti del sistema di welfare, è anche aumentata la quota di votanti favorevoli ad una riduzione delle tasse (ricordiamo l’alta partecipazione al voto degli immigrati), anche se il peso fiscale in termini relativi è diminuito. Peraltro, poiché l’economia è cresciuta anche i lavoratori residenti hanno migliorato il proprio stato economico in termini assoluti. L’effetto finale di questa ondata migratoria è stato, dunque, quello di produrre un diffuso aumento di benessere; una possibilità che oggi sembra essere esclusa dai più. Eppure Razin ci dice che è possibile e ci spiega come possa accadere.gianetta

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