Quando il metro conta più della misura: lo strano caso delle regole fiscali europee

Civil servant si occupa della significatività del rapporto tra debito pubblico e PIL. Dopo aver osservato che, essendosi accumulato nei secoli, il debito pubblico andrebbe rapportato al patrimonio accantonato nello stesso periodo di tempo e non al reddito di un solo anno, Civil servant sostiene che sarebbe comunque meglio confrontare il debito con le entrate fiscali, da cui provengono le risorse per la sua remunerazione e restituzione. Questo cambiamento suggerirebbe di ricorrere alla lotta all’evasione e all’espansione della spesa sociale, invece che all’austerity, per ridurre il debito.

Il rapporto tra debito pubblico e Pil è forse uno degli indicatori più citati nel dibattito economico corrente, spesso a sproposito e a fini strumentali. Un’economia molto indebitata è più vulnerabile, soprattutto se la sua banca centrale non può finanziare lo stato battendo moneta, come è previsto nell’Eurozona, e se gran parte dei titoli pubblici sono nelle mani di investitori (non solo stranieri) che in qualsiasi momento possono decidere di liquidarli o di non sottoscriverli più. In realtà il rischio di default di uno stato dipende da molte condizioni, alcune delle quali sembrano create ad hoc per aggravarlo. Ad esempio, le attuali regole fiscali europee prevedono obblighi soffocanti e sanzioni per dei paesi che sono già in difficoltà: è come se si chiedessero a un naufrago i documenti e un saggio di nuoto prima di ripescarlo (…ma forse oggigiorno questo è un esempio impopolare). Procedure del genere rischiano di peggiorare il rischio di default perché alimentano il sospetto di un possibile ritorno alla valuta nazionale, con tanto di ristrutturazione e ridenominazione del debito in una moneta in forte svalutazione. La flessibilità prevista dal Patto di stabilità e crescita può solo attenuare questo effetto, non essendo in grado di condizionare troppo le aspettative del mercato. Invece alcuni punti della riforma del Meccanismo europeo di Stabilità (il cosiddetto fondo salva-stati), rendendo più facile la ristrutturazione del debito, rischiano di aggravarli, come ha riconosciuto perfino il governatore Ignazio Visco.

Regole di questo tipo non esistono in paesi come il Giappone, che infatti convive tranquillamente da decenni con un debito pubblico che supera abbondantemente il doppio del Pil senza che ciò generi continui attacchi speculativi, perché laggiù la banca centrale può finanziare il governo con moneta frusciante anche nel caso di una crisi di fiducia nel debito sovrano e soprattutto è minima la quota di debito collocata all’estero. Tutto ciò sembra tranquillizzare anche gli investitori più aggressivi e spregiudicati molto più delle regole europee.

Al contrario, il presunto “vantaggio di legarsi le mani”, su cui si fonda tutto il castello delle regole di Maastricht, si può trasformare in un boomerang non appena gli investitori realizzano che le politiche di austerity sono talmente pesanti da minare la coesione sociale, divenendo così politicamente insostenibili, come ci ricorda ad esempio Roberto Tamborini (“Heterogeneous market beliefs, fundamentals and the sovereign debt crisis in the Eurozone”, Economica, 2015).

Il debito pubblico implica comunque seri problemi allocativi e distributivi, in quanto costringe i governi a mettere da parte somme ingenti per pagare gli interessi invece di utilizzarle per investimenti, servizi pubblici e spesa sociale. Nel 1997, prima dei cambi fissi, gli interessi sul debito italiano assorbivano quasi un decimo del Pil, ora solo il 4%. Come se non bastasse, i maggiori beneficiari di questi interessi sono i contribuenti più ricchi (che presumibilmente possiedono più titoli), le banche e altri investitori istituzionali. Così il circuito degli interessi sul debito pubblico genera un meccanismo perverso di redistribuzione dei redditi a danno dei ceti medi (che pagano il grosso delle tasse senza possedere troppi titoli pubblici e senza usufruire dei benefici riservati ai più poveri) e a favore dei più abbienti, che invece detengono una quota relativamente maggiore del debito sovrano.

Il rischio che il debito pubblico scarichi sulle generazioni future il costo della spesa sociale corrente è invece tutto da dimostrare. Si tratta di un’idea molto in voga di questi tempi ma che, a ben vedere, è basata su un’impostazione ideologica piuttosto datata, secondo la quale tutto ciò che è pubblico rappresenta solo uno spreco di risorse. Se fosse davvero così, i nostri figli e nipoti avrebbero tutte le ragioni per avercela con noi, invece il debito serve a finanziare operazioni che vanno anche a loro vantaggio. Ad esempio, il loro livello di vita dipende in larga misura dalla spesa in deficit attuale che, sostenendo la crescita dell’economia, riduce lo sperpero di risorse irrecuperabile provocato da qualsiasi crisi: meno debito significherebbe livelli di produzione ed occupazione definitivamente inferiori in futuro. Il debito serve anche a migliorare le infrastrutture materiali di un paese, di cui (se non crollano) usufruiranno anche i nostri pronipoti. E gli stessi beneficeranno del sistema formativo, sanitario e di sicurezza pagato almeno in parte con i debiti che stiamo accumulando oggi. Per non parlare della redistribuzione del reddito, che consolida la coesione sociale e accelera la crescita sostenendo il potere d’acquisto delle fasce di popolazione a reddito più basso, che hanno una maggiore propensione al consumo e dunque contribuiscono più che proporzionalmente a sostenere la domanda. In fondo, chiunque preferirebbe nascere in un paese ricco, ben dotato di case, scuole, ospedali e strade e abitato da gente ben istruita e solidale, anche se indebitato, piuttosto che in una landa desolata senza oneri finanziari.

Se si esamina il bilancio di qualsiasi impresa, alla colonna delle passività si contrappone quella delle attività per determinare il patrimonio o l’indebitamento netto. Tuttavia questo approccio viene inspiegabilmente disatteso nella contabilità pubblica e nel dibattito economico, nonostante la comparazione impropria del settore statale a quello privato (secondo la visione dello stato come “buon padre di famiglia”) sia un punto centrale della divulgazione del pensiero economico mainstream. Nel caso del settore pubblico, infatti, un ponderoso manuale e le regole di Maastricht impongono di considerare solo le passività, concedendo al massimo la detrazione dei versamenti ad alcuni fondi internazionali come quello salva stati. Il patrimonio pubblico finanziato dal debito è invece completamente trascurato, come se non valessero nulla le opere pubbliche, i beni demaniali inalienabili (come il Colosseo) ed anche il capitale sociale del Paese.

Sfortunatamente, abbondano manuali e dati sul debito dei governi, mentre sono rare le stime del corrispondente patrimonio. Per esempio, in Italia abbiamo dovuto attendere la Legge n. 191/2009 per avviare un censimento annuale dei soli beni immobili delle Amministrazioni Pubbliche, che però riguarda soltanto gli edifici alienabili. Il DL 90/2014, ha previsto anche una sintesi centralizzata delle partecipazioni pubbliche e l’ultima relazione sullo stato di attuazione della norma confessa candidamente che circa il 15% di amministrazioni hanno ritenuto superfluo fornire informazioni al Tesoro. Come dire che la PA non conosce esattamente neanche la propria ricchezza. Comunque il solo patrimonio immobiliare vendibile sul mercato è stimato in poco meno di 500 miliardi di euro. Le partecipazioni delle amministrazioni centrali e locali ammonterebbero invece a circa 55 miliardi, almeno aggregando i dati resi disponibili dal Tesoro. A questo ammontare si dovrebbe aggiungere il valore dei beni culturali (per fortuna non cedibili), che una ventina di anni fa valevano circa il 13% del Pil secondo uno famoso studio di Modigliani e Kostoris (Sostenibilità e solvibilità del debito pubblico in Italia, Il Mulino, 1998). A tutto questo si dovrebbe aggiungere il valore di altre infrastrutture e beni non cedibili, gestiti direttamente o dati in concessione, su cui mancano cifre certe. Per non parlare del capitale umano costruito anche grazie ai disavanzi accumulati dal sistema formativo pubblico, che in un’impresa privata sarebbe certamente incluso nel valore del “marchio”. Al di là delle difficoltà di stima, la posizione patrimoniale netta del settore pubblico italiano dovrebbe dunque risultare molto più leggera di quanto prospetterebbero le cifre sulle sole passività. Oltre tutto, è proprio l’esistenza di questo patrimonio che, in condizioni normali, garantisce il debito sovrano rendendolo sostanzialmente privo di rischio, come sembra ormai riconosciuto perfino dal FMI.

Ma non basta. Il debito è uno stock di titoli e altre passività, accumulato nel tempo (probabilmente a partire dai governi dei primi abitanti della penisola in poi), mentre il Pil è un flusso di redditi prodotti nell’arco di un solo anno. E’ chiaro che si tratta di un confronto del tutto impari, seppure legittimo, se non altro per il diverso arco di tempo cui si riferiscono le grandezze che si trovano al numeratore e al denominatore del rapporto. Sarebbe come rapportare il peso di una persona alle calorie assunte in un solo mese, eventualmente pieno di feste e ricorrenze come dicembre. Solo un ciarlatano prometterebbe di riportare qualcuno al peso forma in poche settimane e nessun finanziatore lungimirante (e forse neanche uno strozzino professionista) pretenderebbe il rimborso di un debito accumulato per secoli sacrificando la produzione di un solo anno. Anche su un piano strettamente matematico, Paolo Canofari ed altri hanno mostrato che la stabilizzazione del rapporto tra debito e Pil non è coerente con una situazione di equilibrio di lungo periodo, in cui quel che conta davvero è il bilanciamento tra gli stock di attività e passività e non tra questi e i corrispondenti flussi annuali di produzione, risparmio e investimento che li alimentano.

C’è poi un ulteriore aspetto critico nella misurazione del debito pubblico che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, viene evidenziato raramente. Quando non c’è una banca centrale pronta a finanziare lo stato, il debito sovrano può essere rimborsato e remunerato solo a carico del bilancio pubblico, mentre il Pil è la somma di tutti i redditi prodotti in un paese. Quindi, anche mettendo da parte tutte le critiche sul confronto tra uno stock di debito e un flusso annuale di redditi, sarebbe molto più corretto rapportare l’ammontare del debito a quello delle entrate fiscali, dalle quali possono provenire realisticamente le risorse per la sua remunerazione e restituzione. Non a caso, qualsiasi banca calcola il massimo ammontare di un fido in base ai proventi del debitore e non di quelli di tutta la sua famiglia, perché questi ultimi sono più difficili da “aggredire” in caso di default del cliente.

Se si trattasse solo di stilare una graduatoria dei paesi più indebitati, prendere come riferimento le entrate dello stato o il Pil sarebbe quasi la stessa cosa, come mostra la tabella successiva. L’unica eccezione significativa è rappresentata dall’Irlanda, che scende di tre posizioni rispetto alla classifica tradizionale, anche a causa della perdita di gettito derivante dal generoso “fiscal ruling” a favore delle multinazionali concesso da Dublino. Ovviamente i parametri di Maastricht dovrebbero essere rimodulati, portando la soglia massima del debito a circa il 130% delle entrate pubbliche, che corrisponde approssimativamente a quella tradizionale tenuto conto dell’attuale incidenza media delle entrate sul Pil. Tuttavia le strategie di rientro suggerite dal rapporto tra debito ed entrate sarebbero radicalmente diverse da quelle raccomandate dal più noto rapporto tra debito e Pil.

Entrambi i criteri incoraggiano a ridurre l’ammontare assoluto del debito attraverso tagli di spesa e dismissioni patrimoniali. Ma mentre i governi possono perseguire il criterio europeo lasciando crescere il Pil senza troppe preoccupazioni per la sua origine (pecunia non olet), la riduzione del rapporto tra debito ed entrate richiede la crescita dei soli settori in regola col fisco e con la previdenza sociale. Per aumentare il Pil un governo può essere tollerante verso illegalità ed evasione perché nel Pil entra malauguratamente anche l’economia sommersa e criminale. Ad esempio, oggi il denominatore del rapporto tanto caro alla Commissione Europea potrebbe essere ridotto concedendo una bella amnistia riservata a spacciatori, ladri, ricettatori, mondo della prostituzione e contrabbandieri (escludendo però quelli di armi ed esseri umani, fortunatamente ancora esclusi dal Pil). Invece, se il debito fosse rapportato alle entrate fiscali, lo stesso governo sguinzaglierebbe finanza e ispettori del lavoro a caccia di evasori, renderebbe più efficienti i tribunali, garantirebbe la certezza delle pene, ecc. Inoltre a nessuno verrebbe in mente di tagliare tasse e contributi sociali, che sono le fonti di finanziamento del welfare, e di ricorrere troppo al dumping fiscale a favore delle grandi imprese. Così, grazie ad una modesta ridefinizione degli obiettivi fiscali europei, i governi sarebbero spinti “gentilmente” ad attuare politiche molto diverse da quelle attuali.

Come se non bastasse, il rapporto tra debito ed entrate coinvolge risultanze contabili ragionevolmente affidabili (se si escludono i veri e propri falsi come quelli scoperti a suo tempo in Grecia e alcune forzature riscontrate perfino nella virtuosa Germania), mentre il Pil è il frutto di stime e approssimazioni statistiche soggette anche a consistenti revisioni ex post, che possono mettere in discussione anche l’appropriatezza delle politiche economiche dettate dalla Commissione e necessariamente basate sui dati statistici disponibili al momento, come mostrano Andrea Boitani e Lucio Landi per l’Italia.

Insomma inseguire la riduzione del rapporto tra debito e Pil a tutti i costi può sollecitare cattivi pensieri e politiche anche peggiori. Mentre porsi obiettivi in termini di rapporto tra debito ed entrate sembra più salutare. Forse nel dibattito sulla revisione delle regole fiscali europee si dovrebbe partire proprio da questi aspetti puramente contabili perché, alla fine della storia, la misura la fa sempre il metro. Cambiare le regole in questa direzione richiederebbe un piccolissimo passo della Commissione, ma rappresenterebbe un grande balzo verso un modello di sviluppo più equo, efficiente e sostenibile.

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