Quando i media si smaterializzano

Enrico Menduni osserva che il XXI secolo è segnato, per i media, da una forte discontinuità (dominanza tecnologie digitali nella comunicazione, connessione in rete continua e ubiqua) e sostiene che occorre aggiornare ogni aspetto del broadcasting: strategie produttive e modelli di business, formati dei contenuti e pratiche di fruizione. Menduni sottolinea che l’intermediazione, il filtro, il gatekeeping non sono più considerati dagli utenti così necessari, appaiono come gratuite commodity, e comunque tendono a spostarsi su altri soggetti, gli Over-The-Top e i social network.

Una grande discontinuità. E’ avvenuto in questo nostro XXI secolo un grande salto nella produzione, diffusione, gestione della musica e degli audiovisivi (che ormai chiamiamo semplicemente “contenuti”), che s’intreccia con la digitalizzazione e la connessione in rete. La musica e i contenuti audiovisivi, ormai dematerializzati, viaggiano via etere, via satellite e via internet per raggiungere una pluralità di dispositivi fissi e mobili (smart tv, computer e tablet, smartphone, ma anche outdoor e urban screen), intrattenendo con pubblici molteplici un ventaglio di rapporti, segnati da varie modalità di fruizione, da diversi gradi di attenzione e partecipazione, dalla ricerca di nuove forme di remunerazione.

Dematerializzazione vuol dire scomparsa dei magazzini fisici e dei sistemi di trasporto materiale: nessun topo rosicchia più gli scatoloni in magazzino, nessuna umidità rovina gli oggetti pronti per la vendita, non c’è più il costo del trasporto, dello stoccaggio dei materiali e l’umiliante resa delle copie invendute, che hanno resistito poco più di una settimana sugli scaffali prima di essere sostituite da altri contenuti più prestazionali. Non si rubano (quasi) più le copie materiali, ma si replicano abusivamente i file, mentre i topi virtuali non sono stati ancora inventati. I contenuti possono essere proposti alla fruizione per un tempo teoricamente illimitato, diminuendo la censura del mercato e ampliando la diversità culturale, con un effetto di “coda lunga” (Cfr. C. Anderson The Long Tail: Why The Future of Business Is Selling Less of More, 2004).

Tuttavia non ci sono più filiali italiane, con decine di dipendenti, bensì società meta-nazionali che stabiliscono la sede legale in Lussemburgo e i magazzini in Irlanda, sfruttando le legislazioni locali in Europa (veramente a macchia di leopardo) e nidificando in quelle più favorevoli. Società che fanno il surf sopra reti di telecomunicazione che non hanno minimamente contribuito a creare, senza investimenti, senza costi di manutenzione, senza problemi fisici di cavi da posare o allacciamenti da mettere in opera, e che pure sono essenziali per la loro attività, con tassi di crescita a due cifre che innervosiscono le grandi Telco, dagli imponenti fatturati ma dai mercati saturi e dunque statiche: perché, si domandano, dobbiamo investire così tanto in reti materiali di telecomunicazioni, a rischio di obsolescenza per l’arrivo di qualche Wi-Max, qualche super Wi-Fi a lunga distanza che le renda inutili, ma anche capaci di generare profitti solo per altri? Un vero paradosso: chi compra un bene materiale e poi lo trova difettoso o non rispondente protesta con chi glielo ha venduto; chi compra un bene immateriale si sente dire che la responsabilità è della sua connessione di rete inefficiente, o poco prestazionale, che ha problematizzato il download e lo streaming: un disservizio che dipende dal suo fornitore di connessione (cui il cliente è invitato a rivolgersi), non dal venditore di quel bene.

Le conseguenze di queste novità sui contenuti sono assai rilevanti: non cambia solo la delivery, cambia la costruzione del prodotto e il modo di consumarlo. La fruizione lineare di un’opera audiovisiva è ormai soltanto uno dei modi possibili. Il ruolo propositivo dei broadcaster (tradizionali aggregatori di contenuti propri e altrui) è rimesso in gioco da utenti che sempre più compongono palinsesti propri, ma anche da altri gatekeeper (i detentori delle piattaforme) che propongono scelte diverse. Quello che fu la somma di due sistemi tradizionali, quello televisivo e quello cinematografico (con le loro gelosie, i corporativismi, i rapporti di cooperazione/competizione) è ormai una piramide a gradoni: la parte bassa e matura è costituita dalla Tv generalista in chiaro ormai digitalizzata (in Italia, il digitale terrestre), quella intermedia da forme di pay per view (via satellite o digitale terrestre), quella al top, ed emergente, dai servizi video on demand che si servono della banda larga e viaggiano in Internet.

Ovviamente ciò che viaggia su Internet ne segue le convenzioni e le culture. I formati, l’offerta e la promozione dei contenuti mutuano sempre più da Internet le forme della loro presenza, cooptando spettatori fidelizzati, nicchie di pubblico, fandom. Inoltre si fa un uso crescente di tag e di algoritmi, rivolgendosi direttamente al potenziale spettatore/cliente. Ogni comportamento degli utenti – potenziali clienti – sulla rete è tracciato, utilizzato per formare “cluster” che consentano poi di fornire proposte, raccomandazioni e pubblicità mirata. I dati di ogni singolo consumatore sono preziosi, anche quando non si sono concretati in atti d’acquisto, perché mettono a disposizione di chi li ha raccolti e archiviati informazioni che nessuna ricerca di mercato potrà fornire con la stessa accuratezza. Google e Amazon sono probabilmente gli Over-The-Top che meglio hanno amministrato e valorizzato questo capitale, considerando l’acquisizione dei dati la loro missione prevalente, giungendo a veri e propri paradossi. Alla società che produce un oggetto o un contenuto che è venduto, o circola gratuitamente, su queste piattaforme, vengono fornite informazioni sugli utenti/clienti assai più sommarie e rozze rispetto a quelle che possono essere distillate dai loro comportamenti e che restano gelosa proprietà degli Over-The-Top.

Una sfida rivolta ai media del Novecento. I contenuti di nuova generazione sono dunque concepiti all’origine come prodotti multipiattaforma; le imponenti library del Novecento (cinema, TV, documentari, video, musica) trovano nuove opportunità di diffusione e valorizzazione, purché siano adeguatamente formattate, sempre all’insegna della “coda lunga” che contraddistingue la distribuzione digitale e della segmentazione sempre più marcata di quello che fu il pubblico generalista.

Questo grande salto, non soltanto tecnologico ma sociale, sfida i media del Novecento e li costringe a rinnovarsi in un ambiente nuovo (una nuova sfera pubblica), di cui essi sono soltanto una parte. Il concetto ormai tradizionale di “sfera pubblica era diventato già nel Novecento “sfera pubblica mediatizzata” ”(Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, 1975); oggi dobbiamo parlare di una sfera pubblica composta di un elemento mediale e di un elemento social, con continui transiti reciproci. La televisione – nel senso tradizionale e convenzionale del termine – non è più lo strumento principale di informazione, intrattenimento, apprendimento, socializzazione. E’ così soltanto per la parte più anziana (e meno colta) della popolazione. Ne abbiamo una riprova nelle tipologie della pubblicità sulla tv generalista: medicinali per i più diversi acciacchi, adesivi per dentiere, apparecchi montascale. E anche nelle figure di molti personaggi televisivi: età avanzata, capelli tinti e volti innaturalmente distesi, uno strano amalgama di padronanza del mezzo, che sconfina nell’arroganza, e di consapevolezza del declino, che si manifesta persino in forme di saggezza. Si chiama ancora “neotelevisione” (il termine lo coniò proprio Umberto Eco, nel lontano 1983, in TV: la trasparenza perduta), ma più di trent’anni dopo è una paleo-tv in piena regola.

I giovani, i ricchi, i colti, si approvvigionano altrove con diverse forme di consumo da schermo che prelevano da un’offerta quanto mai abbondante, selettiva e segmentata, pagando se necessario per vedere ciò che li interessa e li appassiona. Hanno un’attività mediale sempre più attiva, relazionale e protagonistica, che si applica non solo alla scelta di una visione rispetto a molte altre, ma si sostanzia di un vero bricolage operativo, un fai-da-te post-mediale in cui si salta da un medium all’altro e da un dispositivo all’altro, commentando i contenuti e condividendoli con i propri amici, copiandoli, modificandoli, diffondendoli insieme alle foto che si scattano e ai video che si girano. E quando ricorrono alle forme più convenzionali di televisione possono farlo volentieri, e anche a lungo, ma non le attribuiscono più quella funzione centrale nella formazione delle opinioni, degli atteggiamenti e dei comportamenti, che le hanno invece riconosciuto le generazioni precedenti. Sono cresciuti con i videogiochi, i telefonini regalati dai genitori, il computer; non con Heidi, i Puffi e gli altri cartoni della TV commerciale come è avvenuto in precedenza.

Questo non significa che la TV è morta, come qualcuno sbrigativamente comincia a dire. I media difficilmente muoiono, più spesso vengono “spostati” dall’arrivo di altri media e altre pratiche sociali, che li costringono a cercarsi nuove funzioni e pubblici. La televisione ha spostato il cinema, il teatro, la radio, i giornali: ora è lei che deve spostarsi, e lo sta facendo in grande stile. E anche la radio è in piena ridefinizione dei ruoli, l’ha già fatto varie volte ai tempi del transistor e poi con le radio libere, è un suo ruolo ricorrente.

Difficile non collocare questi processi – almeno nei paesi occidentali – all’interno di un complessivo superamento della società di massa contraddistinta da forme di produzione e consumo largamente standardizzate: una società in cui la televisione aveva svolto rilevanti funzioni sociali diffondendo modelli di consumo e di partecipazione. Se le tecnologie digitali hanno cominciato ad affermarsi dagli anni Ottanta, e Internet si diffonde nel decennio successivo, il grande balzo è avvenuto, dopo il trauma dell’11 settembre, verso il 2006, in tutto il mondo. E’ un balzo che si chiama Wi-Fi, smartphone, social network (MySpace, Facebook, poi Twitter e Instagram), YouTube, streaming video, crossmedialità, User Generated Contents (Cfr. H. Jenkins, Convergence culture: Where old and new media collide, 2006).

C’è stato un lungo periodo, in Italia, in cui la radio e la televisione erano considerate una forma di sottocultura, o addirittura di persuasione occulta (Cfr. V. Packard, The Hidden Persuaders, 1957). Il fondamentale testo di Marshall McLuhan, Understanding Media (1964), fu tradotto in Italia come Gli strumenti del comunicare (1967) perché il pubblico non avrebbe ben capito che cosa erano questi media.

Poi anche in Italia, finalmente, si sono sviluppati gli studi sulla televisione e, in misura minore, sulla radio; negli anni Ottanta e Novanta, in significativa coincidenza con l’espansione delle radio libere e delle televisioni commerciali, l’avvento dei corsi universitari Dams e in Scienze della comunicazione ha portato i media audiovisivi nelle aule delle università, purtroppo senza un efficace raccordo con gli studi di economia. Adesso il pericolo non è più quello di ignorare i media, ma non considerarli nel loro significato e ruolo attuale, facendo prevalere un pur dignitoso disegno storico in cui, come in tutte le storie insegnate a scuola, la parte più recente si traccia rapidamente, e non solo perché siamo in ritardo sul programma ma perché il rapporto con la contemporaneità è più difficile: Platone o Leonardo da Vinci non ti querelano e non ti mettono in qualche black list. E’ per questo che mi sono sentito di intitolare questo nuovo libro “Televisione e radio nel XXI secolo”. Perché nulla è ormai come prima.

* Questo articolo sintetizza le tesi del mio libro “Televisione e radio nel XXI secolo”, Laterza, 2016

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