Può l’impresa essere responsabile rispetto alla sfida del clima, della disuguaglianza, della pandemia? Teoria e pratica dell’”impresa integrale” (seconda parte)

Federico Butera proseguendo la riflessione avviata nello scorso numero del Menabò sui limiti dell’impresa ‘irresponsabile’ e sulla necessità dell’impresa ‘responsabile’ o ‘integrale’, ricostruisce, dopo il caso dell’Olivetti quello della Toyota mettendone in luce le caratteristiche più rilevanti. Successivamente Butera individua una serie di caratteristiche che dovrebbe avere l’impresa ‘integrale’ per poter svolgere la sua essenziale funzione sociale e, nelle conclusioni, avanza qualche riflessione sugli ostacoli all’affermarsi dell’impresa ‘integrale’.

Queste note, proseguendo la riflessione avviata nello scorso numero del Menabò, si propongono di precisare la differenza fra il vago concetto di impresa responsabile e il modello strutturato dell’impresa integrale. A questo scopo è utile prendere le mosse dall’esplorazione, dopo il caso dell’Olivetti, di quello della Toyota.

Il caso Toyota. Adriano Olivetti disse che anche l’impresa ha un’anima. Venne preso per un sognatore. Ora Takeuchi, Osono, Shimizu (Osono E.; Shimizu; Takeuchi H.  Extreme Toyota Wiley & Sons, 2008) ci spiegano che lo straordinario successo della Toyota, la più grande azienda automobilistica del mondo, deriva in gran parte dalla sua anima, innestata su un corpo robusto costituito dai suoi sistemi organizzativi e operativi e abilitata dal suo straordinario sistema nervoso costituto da relazioni comunitarie e di networking.

Tutti hanno cercato di copiare il potente sistema operativo di Toyota, il Toyota Production System (TPS) fatto di Total Quality Management, kanban, kaizen, 5S, ecc.; competitori, aziende aeronautiche, medie imprese, enti pubblici hanno reclutato eserciti di consulenti di lean production, ma pochi hanno avuto il successo di Toyota. Ossia, il TPS è necessario, ma non sufficiente.

È, in realtà, l’anima dell’impresa che dà visione, orientamento, senso al lavoro di tutti e genera la loro motivazione. L’anima dell’impresa è data dai suoi valori e dalla sua cultura trasparente, praticata a tutti i livelli. Essa non è data da “carte dei valori” patinate ma da vere e proprie “forze”, fonti di energia, “forze di espansione” e “forze di integrazione”.

Tra le “forze di espansione” ci sono gli impossible goals, ossia gli obiettivi di lungo periodo e i sogni che il vertice propone, che esso stesso persegue quotidianamente e in cui le 350.000 persone si identificano. Essi sono i driver che parlano alla loro ambizione, al loro orgoglio e alla loro etica. Quando Kiichirō Toyoda nel 1950 annunciò di voler costruire la prima azienda automobilistica del mondo partendo da una mediocre impresa con bassissima produttività sembrava farneticare, ma poi operò in modo corrispondente a quella visione e tutti la condivisero. Toyoda fece leva su una visione del futuro ma anche sulla valorizzazione del passato. La Toyoda Automatic Loom (così si chiamava) aveva una storia di cento anni di primaria fabbrica di macchine tessili, un’esperienza cioè nelle macchine operatrici e una tradizione a impegnare le persone, perché “nel tessile” l’intervento anche manuale del conduttore di macchina è essenziale.

Quando recentemente Toyota ha dichiarato di voler fare le auto che “migliorano la qualità dell’aria” ha affermato un controsenso: ma questa “follia” ha un grande peso, insieme al continuo miglioramento dei processi di progettazione e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, nella velocissima progettazione e messa in produzione delle auto ibride come la Prius, che fu un primo passo per una futura auto a combustione senza o con pochissime emissioni (non l’auto full electric che l’AD ha recentemente snobbato).

Un’altra forza di espansione propria del Dna della Toyota sono le pratiche di miglioramento continuo: dallo sforzo innovativo degli ingegneri che hanno fatto nascere la Prius, alle 740.000 proposte di miglioramento che sono state suggerite in un solo anno dai 350.000 dipendenti ed effettivamente realizzate (ossia 2 proposte approvate per ogni dipendente!).

Le “forze di integrazione” sono praticate nella quotidianità: l’umiltà, l’ossessione per la qualità, la concretezza dell’agire artigiano dentro un’impresa gigantesca, il rispetto per le persone, l’attenzione al cliente, lo stare sempre sul campo (gemba), l’andare a vedere le cose con i propri occhi (genchi genbutsu) a tutti i livelli. Questo “stare sul pezzo” si manifesta in pratiche diffuse, dall’andon, ossia la work authority assegnata a ciascuno di poter fermare un processo difettoso (anche una catena di montaggio), che costringe tutti ad accorrere quando sorge un problema.

La formazione sul lavoro e l’apprendimento continuo sono un’altra forza di integrazione: il lavoro è il vero libro di testo, la vera aula di formazione, complesso o umile che sia. La open communication consente di far convivere una forte burocrazia e gerarchia con la possibilità di critica, di condotta fuori dai silos e con la diffusa disponibilità a rischiare.

In una parola, l’anima dell’impresa è fatta dei sogni perseguiti pervicacemente, dalla sua cultura praticata a tutti i livelli, dai suoi valori condivisi e soprattutto dalla applicazione di questi sogni e valori nella pratica quotidiana. Alla base di questa anima c’è il grande rispetto del Ceo per l’ultimo operaio della catena e c’è la fiducia dell’ultimo operaio della catena nei propri capi, perché essi condividono il fatto che lavorano all’interno degli stessi processi che, prima ancora che nei flow chart, sono nella testa delle persone.

Toyota vive gestendo contraddizioni, come tutti gli organismi viventi, scrivono Takeuchi, Osono, Shimizu: è stabile e frenetica, è sistematica e sperimentale, è formale e franca. In una parola, un esempio di quello che ho definito come la radice dell’innovazione: “genio e regolatezza”.

I caratteri dell’impresa integrale. Olivetti e Toyota sono casi isolati e irripetibili? No. In questi esempi va cercato un modello generalizzabile, forse simile a quello che hanno tentato di fare   in Italia Ferrari, Brembo, Ferrero, Luxottica, Zambon, Cucinelli, Loccioni e altre.

Come ho anticipato, credo che questo rappresenti l’idealtipo, il modello della “impresa integrale”, un’impresa “normale” che sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una strategia e azioni concrete. Lo fa attraverso un processo energico e faticoso per definire valori e strategie, per “render conto”, e soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e per tutti.

Questo concetto consente di andare oltre le nozioni di “responsabilità sociale” e di “impresa responsabile”, “impresa illuminata”, “impresa umanistica”, nozioni criticate e criticabili per le loro connotazioni moralistiche e idealistiche o per la loro incerta sostenibilità economica.

L’impresa integrale è il risultato di quell’efficace duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori cittadini di una società della conoscenza. Essa è in qualche modo una istituzione che contribuisce al bene comune (S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova, 2007)

Le caratteristiche chiave dell’impresa integrale. Provo ora ad elencare le caratteristiche che dovrebbe avere una “impresa integrale”. L’impresa integrale:

  1. fonda la sua identità su sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi socialmente utili per i clienti e le comunità. Esclusi i casi di prodotti ostensibilmente dannosi come la droga o le sigarette o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il “pizzo”, in ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o dannoso. La definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è naturalmente del tutto contingente ai valori, alla cultura, all’economia di ogni specifica società. Produce bene e servizi che migliorano la società e la vita delle persone.
  2. poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo mercato, è capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne, rafforzando la propria competitività anche in ragione del contributo che dà, assieme alle istituzioni, al miglioramento del contesto in cui opera: pensiamo al miglioramento dell’ambiente fisico, all’intervento positivo sui processi di istruzione pubblica, alla reazione al “pizzo” di imprese meridionali, in sintonia con le istituzioni. Contribuisce a creare bene comune della società intera.
  3. è eccellente nel processo di concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: valori come l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la valorizzazione delle competenze. Ciò rimanda alla utilizzazione e alla valorizzazione del “capitale sociale” e del “capitale intellettuale” dell’impresa. Crea innovazione.
  4. ha una organizzazione non burocratica che funziona bene e che è internamente coerente e strategicamente appropriata: sviluppa cioè un’efficace integrazione di strategie, processi, organizzazione, ruoli, valori, leadership. Crea sistemi sociotecnici e reti organizzative efficaci e efficienti.
  5. attiva reti di soggetti economici, istituzionali e di persone che interagiscono positivamente: comunità che interagiscono, dialogano, lavorano, confliggono, convergono, decidono, operano sul territorio e che oggi si possono avvalere delle straordinarie potenzialità delle tecnologie digitali per creare comunità planetarie. Crea comunità.
  6. assume spontaneamente impegni e responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la clientela, i membri dell’organizzazione e misura la realizzazione di questi impegni. È capace di rispettare e sviluppare l’ambiente fisico e sociale.
  7. accumula nel tempo un consistente “capitale sociale” che può diventare anche capitale economico spesso reso visibile nel brand; in essa investono possessori di capitali finanziari, fornitori e clienti; fertilizza comunità, sistemi economici territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre imprese. Crea asset materiali e immateriali fruibili da tutti.
  8. produce persone vere formate e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. Product of work is people.
  9. ha un governance system, una organizzazione interna, una cultura di impresa nonché relazioni stabili con le istituzioni e con le organizzazioni del territorio caratterizzate da valori non solo dichiarati ma effettivamente praticati a tutti i livelli, fra cui trasparenza, correttezza, collaborazione, fiducia, passione, energie e altre ancor. Ciò ne determina l’identità. Ha una governance trasparente e in diversi modi partecipata.
  10. si avvale per il suo funzionamento di soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi sono soggetti che svolgono funzioni economico-sociali di straordinaria importanza: l’imprenditore che fa fare nuove cose o fa fare in modo nuovo cose che si stanno già facendo (innovazione); gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa invece di parcheggiarle nei titoli di Stato o esportare capitali nei paradisi fiscali; i dirigenti che portano ad unità elementi dispersi e promuovono il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che creano prodotti e servizi e ricchezza; i clienti che sono parte ineliminabile dell’impresa. Dà valore e dignità a tutti quelli che lavorano e ai clienti.
  11. dispone di una vasta serie di solidi indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della vita di lavoro, etc.): essi sono strumenti per l’azione a tutti i livelli. Misura il raggiungimento degli obiettivi.

Non è una organizzazione perfetta ma è una struttura economica e sociale nella continua evoluzione impressa dalle forze sociali che operano liberamente per scopi condivisi senza pretese di dominio.

L’impresa integrale, in sintesi, è quella impresa che rispetta e promuove l’ambiente, i consumatori, i lavoratori, le comunità locali, non considerandoli un costo ma parte della sua strategia e della sua struttura, con la quale acquisirà maggior vantaggio competitivo e divenire una “impresa costruita per durare” (J.C. Collins, J.I. Porras, To Last: Successful Habits of Visionary Companies, Harper Business, 1994).

Ma allora perché l’”impresa integrale” non è così diffusa? Essa è possibile ma non è facile. Senza vincoli esterni o senza crisi da inadeguatezza interna il capitalismo farebbe volentieri a meno dell’impresa integrale. La storia del capitalismo industriale del secolo scorso ha pervicacemente privilegiato la generazione di plusvalore a vantaggio dei proprietari dei mezzi di produzione. Negli anni recenti la teoria del perseguimento dello shareholder value è stata largamente prevalente rispetto a quella dello stakeholder value. La crescente finanziarizzazione dell’economia ha spesso teso a trasformare l’impresa in un puro “veicolo”. L’impresa integrale ora non è solo un modello possibile e desiderabile ma è necessaria per affrontare la crescente complessità ecologica, economica, sociale a cui abbiamo accennato all’inizio: può essere un modello di riferimento sia per una regolazione pubblica efficace sia per l’autoregolazione e sviluppo autonomo dell’impresa stessa. Cioè, un percorso necessario ma difficile il cui esito dipende dagli attori sociali.

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