Può l’impresa essere responsabile rispetto alla sfida del clima, della disuguaglianza, della pandemia? Teoria e pratica dell’”impresa integrale” (prima parte)

Federico Butera, in un articolo diviso in due parti, sostiene che crisi ambientale, povertà, disuguaglianze, strisciante terza guerra mondiale e pandemia richiedono una riconsiderazione del ruolo delle imprese. In questa prima parte illustra i limiti delle imprese ‘irresponsabili’ e, anche ricostruendo l’esperienza dell’Olivetti negli anni ’60, inizia a delineare i caratteri distintivi dell’impresa integrale, ossia quella “impresa normale che sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una strategia e azioni concrete”.

Imprese irresponsabili e imprese responsabili di fronte alle grandi emergenze. Vi sono fenomeni inquietanti dei modi d‘essere e di comportamenti di grandi imprese che mettono in pericolo lo sviluppo economico e sociale, l’ambiente e perfino la democrazia. Conosciamo innumerevoli casi del peggio del capitalismo “sfruttatorio”, del capitalismo iper-finanziario, del capitalismo che ha violato ogni rispetto per la sostenibilità fisica e sociale del pianeta, del capitalismo golpista in America latina e in Africa, imprese irresponsabili come le chiamava Gallino (L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi 2005 ). L’origine di questi casi risiede in fenomeni generali come la finanziarizzazione che ha messo in secondo piano la creazione del valore industriale, gli approcci di criteri di gestione che privilegiano solo lo shareholder value, l’operare su obbiettivi short term trimestrali e annuali (P. Perulli Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020). Ma anche altre cause interne alla natura dell’impresa di antica origine stanno alla base di questa irresponsabilità dell’impresa. Innanzitutto la predominanza di modelli organizzativi burocratici e taylor-fordisti, modelli rigidi basati sulla divisione spinta del lavoro e sui meccanismi di coordinamento basati, a loro volta, su programmi e gerarchia. In secondo luogo una classe dirigente industriale formata per raggiungere obiettivi economici e non per tener conto del bene comune.

Il nostro pianeta, la nostra società, l’economia ora sono in pericolo per il riscaldamento globale, per la crisi ambientale, per la strisciante terza guerra mondiale in corso, per l’emergenza delle povertà e delle disuguaglianze. E ora anche per la pandemia del Covid 19.

Al di là della retorica e della pubblicità sulle imprese verdi, human centered e altre buzzword che si vanno diffondendo, le domande sono: come impedire o limitare la diffusione delle imprese irresponsabili; che ruolo potrebbero al contrario avere imprese che contribuiscano effettivamente ad affrontare queste emergenze; e in generale ci possono essere (e se si, come dovrebbero essere) imprese responsabili verso il bene comune, l’ambiente fisico, sociale, istituzionale, verso i territori in cui operano, verso i lavoratori, verso gli utenti ? Sono queste le domande a cui cercherò di rispondere in questo articolo, la cui seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò.

L’obiettivo dell’impresa: non solo il profitto. Le strade per realizzare gli obiettivi di cui si è detto, in linea di principio, sono due:

  1. Maggiore regolazione: rafforzare l’asse dello Stato regolatore e sanzionatore, che ponga norme e limiti all’azione delle imprese irresponsabili. Se ovviamente maggiori regolazioni sono necessarie e possibili soprattutto in materie ambientale, sanitaria, informatico, di diritto del lavoro, questa strada non è sufficiente sia per la magnitudo dell’impatto potenziale delle imprese sull’ambiente, sull’economia, sulla società sia per la limitatezza delle capacità sanzionatorie di ogni tipo di Stato Rimane un’altra strada che, insieme a un quadro regolatorio sempre più efficace, susciti la responsabilizzazione delle stesse imprese.
  2. Sviluppo di imprese responsabili, o come preferisco chiamarle “imprese integrali”: imprese che perseguano e realizzino obiettivi economici e sociali per sé e per la collettività, sulla base della loro constituency, delle loro strategie autonome, del rispetto di regole coraggiose fissate da uno Stato disponibile a trovare soluzioni concordate e anche a cambiare se stesso. E’ una strada utopica? Proveremo a mostrare che è una strada assai impegnativa perché implica un cambiamento dei modi di produzione, ma è possibile oltre che necessaria.

La responsabilità delle imprese è stata recentemente oggetto di varie iniziative che hanno ricevuto una eco mediatica. Una, ad esempio, è la presa di posizione del Business Roundtable, un think tank di 200 Ceo nord americani contro la tesi che la creazione di valore per gli azionisti deve essere l’unico fine delle aziende. Le imprese, infatti, devono anche “investire nei loro dipendenti, proteggere l’ambiente, comportarsi correttamente ed eticamente con i fornitori, creare valore di lungo termine per gli azionisti. E concentrarsi sulla qualità dei prodotti e dei servizi offerti. E impegnarsi per continuare a generare valore per tutti questi soggetti, per il futuro successo delle nostre aziende, delle nostre comunità e della nostra nazione”.  Ma queste affermazioni sono prive di qualsiasi impegno concreto in termini di obiettivi, strumenti, tempi, azioni.

Un caso diverso è quello delle B Corp (Certified B Corporation) in cui alcune aziende si impegnano a rispettare determinati standard (performance, trasparenza e responsabilità) e operano in modo tale da ottimizzare l’impatto positivo verso i loro dipendenti, le comunità nelle quali operano e l’ambiente. Il profitto è considerato uno solo degli scopi di queste realtà aziendali; l’altro è appunto quello di un impatto positivo sulla società e quindi, in ultima analisi, sul nostro pianeta. La differenza con il manifesto della Round table è che le aziende che aderiscono si fanno certificare con procedure, la cui indipendenza e sicurezza è tuttavia da verificare.

Imprese con lunga storia e imprese recenti hanno oggi il problema di assicurare la propria competitività e sopravvivenza in un quadro di incertezza senza precedenti: solo il loro rafforzamento economico e la loro innovazione a 360° la può ridurre, anche se non assicurare. Esse devono non solo tentare di evitare diseconomie esterne, ma soprattutto fornire attivamente contributi concreti alla sostenibilità ambientale, allo sviluppo economico dei territori, alla qualità della vita di lavoratori e clienti, allo sviluppo culturale, in mancanza della quale anche le aziende stesse finirebbero travolte. Il caso del Covid , che come sappiamo non è stato solo una inevitabile fatalità ma un fallimento organizzativo di livello planetario in cui imprese e istituzioni non hanno fatto quello che potevano fare, sta colpendo più duramente le persone e le imprese fragili ma anche le grandi e medie imprese, con l’eccezione di quelle farmaceutiche e digitali.

Le imprese, come le persone, non sono quello che dicono di fare ma quello che fanno effettivamente: prassi e struttura devono generare e confermare un modello diverso da quello che ha dominato il secolo passato e il primo ventennio di questo. Io chiamo tale modello diverso “impresa integrale”, ossia integra e integrata. Imprese che hanno un’anima, come diceva Adriano Olivetti. La integrità di queste imprese implica quattro dimensioni: integrità di economia e socialità, integrità verso l’ambiente, integrità verso tutti gli stakeholder, integrità etica.

Prima di delineare i caratteri di un’impresa integrale dove modello e prassi convergono conviene ricostruire due esempi storici iniziando da quello dell’Olivetti.

Il caso Olivetti degli anni ‘60. La Olivetti degli anni 60 integrò felicemente una organizzazione industriale molto robusta con elevate responsabilità sociali e ambientali. Adriano Olivetti era morto da poco e l’azienda gli sopravvisse mostrando tutta la forza del modello e della prassi su cui si era sviluppata da aziendina di provincia a colosso internazionale di 40.000 dipendenti. Fino alle vicende avverse degli anni 70 e 80 sotto la direzione di Ottorino Beltrami prima e di Carlo De Benedetti dopo.

Qual era questo modello? Nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea.

A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto, c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale. Poi, c’erano i laboratori di Ricerca e Sviluppo che, dopo aver prodotto insieme con l’Università di Pisa il primo Calcolatore elettronico italiano, anche dopo la forzata dismissione della divisione elettronica continuavano a studiare prodotti geniali come il Programma 101, il primo personal computer del mondo. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, assai efficienti per quel tempo. Sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo, con un cuore nascosto nella campagna toscana che batteva a Villa Natalia dove aveva sede la scuola commerciale, in cui tutti i dirigenti e i quadri imparavano a conoscere i prodotti e le problematiche di vendite.

A destra di via Jervis vi era un complemento integrato a tanta razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che connettevano fra loro persone, territorio e impresa. Un’anticipazione del welfare aziendale oggi in auge.

Era un modello basato sulla valorizzazione della risorsa più preziosa, la persona vera, la persona integrale, come scriveva Maritain, che “sporge” oltre il posto di lavoro e che va incoraggiata a sviluppare il proprio workplace within, ossia quel proprio mondo interno di esperienza, cultura e intelligenza che rappresentano loro patrimonio.

La dignità di ogni lavoratore, anche il più umile, era il focus del modello. I vecchi operai che lavoravano all’unità montaggio dei gruppi dicevano: «Vede, questo pilastro è mio. Io lavoro qui da trent’anni e ho contribuito». Gli uffici del personale offrivano a tutti counseling ad hoc su problemi di lavoro e personali. Le esigenze sanitarie, culturali, di cura dei figli erano prese in carico in toto.

C’erano tante persone notevoli, molti dirigenti a 29 anni, molte in panchina. Tutte persone pronte a cambiare progetti, sedi, lavoro. Tutte impegnate in una conversazione senza limiti fra loro e con i dati e i fatti dell’impresa, del territorio e del nostro Paese. Si imparava e si discuteva su tutto ma al momento di fare vi era una grande disciplina, oggi diremmo un forte senso dell’execution.

L’Olivetti degli anni 60 che io ho conosciuto era un’impresa con una straordinaria capacità di imparare, di cambiare, di innovare. Quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/50 del costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna dell’Olivetti, quest’ultima fu capace di ripensare radicalmente la sua Ricerca e Sviluppo, sviluppando un modello che oggi chiameremmo “agile”; la sua produzione, passando dalle lunghe catene di montaggio alla isole di produzione; la sua struttura commerciale in soli tre anni, realizzando uno dei più leggendari processi di change management, a cui ebbi la fortuna di partecipare come responsabile del Centro di Studi Organizzativi, l’internal consulting che l’Olivetti aveva costituito in “tempo di pace”.

In sintesi, quali erano i capisaldi di quel modello? Forte responsabilità sulla protezione e sviluppo della comunità del Canavese preservando l’ambiente e le produzioni agricole e artigiani tradizionali; forte responsabilità sui processi produttivi; ruoli “a geometria variabile” e centrati sui risultati; verifica continua della leadership sui risultati; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza intellettuale; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il gemba, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro. E , come aveva imposto Camillo Olivetti, non si licenziava nessuno.

Nella seconda parte di questo articolo ricostruirò il caso della Toyota e poi mi soffermerò sulle caratteristiche che dovrebbe avere un’impresa integrale.

*Una diversa versione di questo e del prossimo articolo è contenuta nel volume Federico Butera Organizzazione e Società. Innovare le organizzazioni per l’Italia che vogliamo, Marsilio, 2020.

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