Protezionismo vs globalizzazione: brevi note sugli effetti del commercio internazionale

De Arcangelis e Mariani riflettono sulle ragioni del consenso verso le politiche protezionistiche che si stanno diffondendo a livello mondiale. Dopo aver ricostruito il dibattito sugli effetti dell’apertura commerciale, evidenziandone i benefici attesi in termini di efficienza e l’impatto sulla distribuzione del reddito, essi sostengono che questo impatto insieme alla limitazione della sovranità nazionale indotta da alcuni accordi commerciali, sembra essere la principale causa della crescente ostilità verso l’apertura delle frontiere a merci e servizi.

Il dibattito sugli effetti benefici dell’apertura di un paese agli scambi commerciali risale ad almeno duecento anni fa, quando David Ricardo cercò di convincere il Parlamento inglese a non imporre dazi sul grano importato. David Ricardo è anche il “padre” della teoria dei vantaggi comparati, secondo la quale lo scambio commerciale tra due paesi può essere benefico per entrambi anche se in uno di essi i costi di produzione sono minori per tutti i beni scambiati. Paul Samuelson (International Economic Relations: Proceedings of the Third Congress of the International Economic Association, Londra, 1969) ha definito la teoria dei vantaggi comparati come una delle poche teorie economiche che possa definirsi “vera e tuttavia non ovvia per persone intelligenti”.

Nella teoria economica si possono identificare tre importanti canali attraverso cui lo scambio internazionale comporta benefici per un paese.

Il primo è l’effetto pro-competitivo dell’apertura delle frontiere: permettere ad altre imprese di vendere i propri prodotti nell’economia nazionale, aumenta la concorrenza e porta a una riduzione dei prezzi. Questo meccanismo è particolarmente rilevante quando i mercati non sono perfettamente concorrenziali e l’apertura commerciale porta all’erosione di rendite ottenute da imprese nazionali in posizione dominante.

Il secondo effetto è quello dell’aumento, grazie all’importazione, della varietà di beni offerti ai consumatori. Il grado di differenziazione dei prodotti e la percezione della loro varietà sono elementi essenziali per valutare il vantaggio dei consumatori rispetto alla situazione di autarchia. Tale vantaggio dipende anche dalle dimensioni del paese e dei suoi mercati; infatti, in economie di grandi dimensioni l’offerta di varietà è già molto ampia, quindi, sotto questo aspetto, l’apertura agli scambi internazionali porterà a vantaggi minori, rispetto a economie piccole.

Il terzo effetto si ricollega all’efficienza. Attraverso gli scambi internazionali siamo in grado di consumare di più impiegando le stesse risorse nazionali nella produzione attraverso due meccanismi. Importando beni il cui prezzo è più basso rispetto alla produzione interna, si configura un accesso a tecnologie o a fattori produttivi più efficienti rispetto a quelli nazionali, che in autarchia sarebbero gli unici a disposizione. In secondo luogo, la ristrutturazione industriale che avviene con l’apertura commerciale screma il mercato dalle imprese meno efficienti e, rimanendo ad operare solamente le imprese più produttive, la produttività media dei settori esposti aumenta.

Uno dei tentativi più interessanti di studiare i miglioramenti di benessere permessi dal commercio internazionale è quello di Costinot e Rodriguez-Claire del 2018, in riferimento agli Stati Uniti (“The US Gains from Trade: Valuation Using the Demand for Foreign Factor Services” in Journal of Economic Perspectives). I risultati, ottenuti con diverse ipotesi sulla funzione di utilità, ovvero sulle caratteristiche della funzione di domanda, sono riportati in Figura 1. L’ordine di grandezza è di pochi punti percentuali annuali, ma che cumulati portano ad aumenti notevoli di benessere, soprattutto se si pensa, come argomentano gli autori, che la stima è distorta verso il basso.

 

Figura 1: Vantaggi comparati per gli Stati Uniti (diverse ipotesi per la funzione di utilità)

Fonte: Costinot e Rodriguez-Claire (2018)

Vincitori e vinti della globalizzazione. Ma gli effetti appena ricordati non si manifestano in modo uniforme, permettendo a “tutti” di ottenere benefici. Infatti, la teoria tradizionale del commercio internazionale, basata sull’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali, originata dal contributo di Paul Samuelson e Wolfgang Stolper (teorema di Stolper-Samuelson) che risale agli anni ‘40 del secolo scorso, identifica un rilevante effetto redistributivo dell’apertura commerciale: la variazione dei prezzi relativi che ne consegue favorisce alcuni fattori produttivi e comporta diminuzione di reddito e di potere di acquisto per altri. Ad esempio, ipotizzando che, aprendo le frontiere, un paese riesca ad acquistare magliette a un prezzo relativamente inferiore e a vendere i microchip prodotti dalle imprese nazionali a un prezzo relativamente maggiore di quello possibile in autarchia, si avranno effetti sulle remunerazioni di lavoratori specializzati e non specializzati. Se i primi sono utilizzati maggiormente nella produzione di microchip, l’aumento del prezzo nel settore hi-tech spingerà le imprese nazionali ad aumentare la produzione e quindi a domandare più lavoratori specializzati; conseguentemente, il salario di questi ultimi aumenterà. Al contrario, l’abbassamento del prezzo delle magliette potrebbe comportare la chiusura di imprese tessili nazionali. I lavoratori non specializzati disoccupati dovranno allora accettare un salario più basso per poter essere re-impiegati altrove.

Differenze tra Nord e Sud del mondo. I problemi distributivi si manifestano anche tra aree geografiche diverse. Come afferma Krugman (“Leave Zombies Be”, 2016), tra gli anni ‘40 e gli anni ‘80 dello scorso secolo la liberalizzazione del commercio è stata non solo graduale, ma anche parziale. In maniera prevalente il commercio mondiale avveniva tra i paesi del Nord del mondo ed era di tipo intra-settoriale. La globalizzazione, intesa come abbattimento massiccio dei costi di trasporto (ad esempio, attraverso l’introduzione dei container) ha, invece, portato a due conseguenze collegate. Da una parte, ha facilitato la frammentazione della produzione per le imprese del Nord con lo spostamento di fasi della produzione ad elevata intensità di lavoro non specializzato verso il Sud. Dall’altra, ha permesso alle economie emergenti di entrare nella competizione del commercio intra-settoriale dei beni per i quali presentano un vantaggio comparato (soprattutto grazie a un minore costo del lavoro non specializzato). Non per caso, come anche sostenuto da Obstfeld (“Get on Track with Trade”, 2016) e come si vede dalla Figura 2, in tutti i paesi industrializzati la quota di occupazione nel settore manifatturiero si è ridotta, mentre è aumentata in Cina

Figura 2: Percentuale di occupazione nel settore manifatturiero di vari paesi

Fonte: M. Obstfeld (2016) “Get on Track with Trade”, Finance & Development, dicembre 2016

 

Questo ha portato ad una riduzione significativa della disuguaglianza economica tra i paesi, nonostante essa rimanga molto ampia. L’economista turco Dani Rodrik, il quale ha largamente trattato degli effetti redistributivi del libero scambio nel suo libro “The Globalization Paradox” (WW Norton & Company, 2011), si chiede se sia preferibile essere un perdente della globalizzazione in un paese ricco o un vincente in un paese povero. La maggior parte delle persone cui ha rivolto la domanda ha mostrato una preferenza per la seconda condizione, sebbene stare nel 5% più alto della distribuzione di reddito in Nigeria corrisponda ad avere un potere d’acquisto di circa 3000$, mentre stare nel 5% più basso della distribuzione in Norvegia significa avere un potere d’acquisto pari a più di 13000$.

A meno che non si ipotizzi che le persone diano peso soprattutto alla dimensione relativa della povertà, questi numeri chiariscono un altro fatto, ossia che si tende a sovrastimare le perdite e sottostimare i guadagni. Tuttavia, è importante sottolineare l’aumento della disuguaglianza all’interno di alcuni paesi, in particolare i paesi più avanzati, che ha accompagnato l’apertura commerciale tra la fine degli anni ’80 e i primi anni 2000.

La Figura 3, nota come la curva a elefante, mostra che le classi di reddito mediane, corrispondenti alle classi medie dei paesi emergenti, siano quelle che hanno conosciuto il maggior incremento di reddito. Nella proboscide, al di sotto della crescita media indicata dalla linea tratteggiata, si trovano invece gli individui che a livello mondiale percepiscono redditi elevati, corrispondenti a redditi medio-bassi nei paesi sviluppati. Nella parte finale della curva, invece, si evidenzia un notevole incremento per le classi di reddito più elevate.

 

Figura 3: Grafico ad elefante 

Fonte: Milanovic, B. (2015), “Global inequality of opportunity: How much of our income is determined by where we live?”, Review of Economics and Statistics

 

Quali prospettive? E’ interessante osservare che anche le nuove tecnologie – ad esempio, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’applicazione dell’intelligenza artificiale o l’introduzione dei robot –provocano, come l’apertura commerciale, effetti distributivi. Ma il progresso tecnologico non è osteggiato dagli esponenti politici mentre l’apertura commerciale genera resistenze diffuse e, con esse, tendenze protezionistiche di chiusura dei mercati.

Has globalization gone too far? è il titolo di un libro di Dani Rodrik nel 1997. Lo stesso Rodrik, in un lavoro successivo, sottolinea come il processo di globalizzazione degli ultimi due decenni sia andato oltre la semplice cancellazione o riduzione degli strumenti tariffari, come dazi e contingentamenti. I nuovi accordi ormai incidono direttamente nelle sfere della sovranità nazionale, comportando una minor libertà d’azione per i governi. Questo, insieme ai cambiamenti nella distribuzione del reddito spiegati in precedenza, potrebbe essere il motivo delle posizioni di chiusura e di ritorno al protezionismo assunte da diversi politici in molti paesi sviluppati. Occorre sottolineare che queste azioni, se messe in atto, provocheranno nuovi vincitori e vinti e, come in passato, potrebbero portare a conseguenze più gravi di quelle economiche.

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