Presente e futuro delle seconde generazioni fra integrazione e riconoscimento giuridico

Roberta Ricucci osserva che il recente dibattito sulla revisione della legge sulla cittadinanza n. 91/92 ha richiamato l’attenzione sui figli dell’immigrazione e sul loro rapporto con l’Italia, di cui spesso si sentono parte, ma di fatto sono stranieri. Dopo aver avanzato alcune riflessioni sulle seconde generazioni e sul significato di essere “cittadini senza cittadinanza” Ricucci sostiene che mentre l’accento è posto sempre su (presunte) inconciliabili differenze, di fatto, le similitudini fra cittadini italiani e non sono molteplici.

Secondo gli ultimi dati disponibili, a fine 2016 risiedevano in Italia oltre cinque milioni di cittadini stranieri, pari all’8,3% della popolazione residente. Nel 1992, l’anno del varo dell’attuale legge sulla cittadinanza, erano 356.000 e la loro incidenza dello 0,6% (Idos-Unar , Idos-Unar, Dossier Statistico Immigrazione. 2016, Ed. Idos, 2017)

In vent’anni non sono cambiati solo i numeri, ma anche i volti di uomini e donne, adulti e minori, cittadini comunitari (più di un milione e mezzo) e non. Nel nuovo millennio, la popolazione non italiana rappresenta una componente strutturale e strutturante del tessuto sociale nazionale. Parte di questo contesto sono i figli dell’immigrazione, la cui significatività nello scenario attuale è evidente citando due soli dati: a fine 2016 erano 1.085.091 i cittadini nella fascia di età 0-18 (10,3% sul totale complessivo di italiani e stranieri), e 14,6 la loro incidenza sul totale delle nascite (dati Istat).

Valori assoluti e percentuali importanti sul versante demografico, scolastico, lavorativo e, più in generale, socio-culturale. Una premessa prima di procedere è però doverosa: dietro a questi numeri si celano percorsi di vita, biografie, fatiche e successi che rendono sfaccettato l’insieme dei minori ricongiunti o delle vere e proprie seconde generazioni. Infatti, come per gli adulti, presenti in maniera eterogenea nelle singole realtà locali, anche per i figli vi sono importanti differenze territoriali, che riflettono i diversi ritmi dei flussi, nonché gli effetti delle catene migratorie: nelle aree caratterizzate da percorsi di arrivo di vecchia data, riequilibrati dal punto di vista del genere e con alti tassi di ricongiungimento, sono più numerosi i minori nati in Italia. Viceversa in arrivi più recenti e/o con progetti di inserimento ancora non completamente orientati alla definitiva stabilizzazione, prevalgono i minori nati all’estero e ricongiunti in età adolescenziale.

Se, dunque, la presenza immigrata non è più una novità né una temporanea eccezione, la discussione sui criteri per entrare a pieno titolo nella comunità dei cittadini diviene centrale nel dibattito fra addetti ai lavori, soggetti della società civile che si fa portavoce dei diritti dei migranti e, in maniera altalenante, nell’agenda politica.

Dall’ansia di assimilazione al riconoscimento selettivo. Chi sia interessato ad approfondire il tema dei figli dell’immigrazione si trova di fronte a una copiosa produzione scientifica dove i due elementi ricorrenti sembrano essere quelli della scuola e della cittadinanza (cfr., ad esempio, R. Ricucci, Cittadini senza cittadinanza, Edizioni Seb27, 2014; F. Lagomarsino e A. Ravecca, Il passo seguente. I giovani di origine straniera all’università, Franco Angeli, 2014; E. Caneva, Identity processes in the global era: the case of young immigrants living in Italy, in “Journal of Youth Studies” 2017).

Ci si confronta con ricerche, riflessioni, progettualità in cui si discute di seconde generazioni e del loro essere studenti: si coglie nelle parole di molti insegnanti e operatori della formazione la speranza che il rapporto con chi è nato in Italia (le seconde generazioni, appunto) sia più semplice, meno faticoso rispetto a quello con chi arriva dall’estero e viene catapultato in una classe senza “una lingua in comune”. E’ la cosiddetta “ansia di assimilazione”, che però talora circoscrive la riflessione ai temi classici del successo o del ritardo formativo, del sostegno linguistico, delle risorse sempre più scarse per affrontare le sfide di una scuola sempre più multiculturale. Più raramente l’attenzione si spinge sino all’università, dove crescono gli iscritti di cittadinanza straniera ma con un diploma di una scuola italiana: non sono quindi studenti Erasmus, ma giovani cresciuti e formati nei licei e negli istituti tecnici nazionali (P. Versino, Family background and educational ambitions of second generation children in Europe, Tesi di dottorato, Milano, 2017).

Come per i genitori, anche per i figli avviene un processo di “fermo immagine” della loro percezione sociale. Padri e madri sono allora eternamente giovani lavoratori, inseriti nelle posizioni più basse del mercato del lavoro e legati ai lavori delle “5P”: precari, pesanti, poco pagati, penalizzanti socialmente, pericolosi (M. Ambrosini, Sociologia delle migrazione, il Mulino, 2005). I figli sono cristallizzati nella posizione di studenti della scuola dell’obbligo o dei percorsi di istruzione e formazione professionale. Sembra dunque che le seconde generazioni siano destinate – nell’immaginario comune – a restare per sempre bambini o ragazzi. E stranieri. Di rado i figli dell’immigrazione sono considerati giovani, adulti, cittadini. Essi sono sempre altro: la loro identità non è data dall’età (centrale per il Ministero dell’Interno, poiché a essa sono legati i vari documenti di soggiorno), ma dal luogo di nascita (quindi prima di tutto stranieri), dalle caratteristiche dei genitori (figli di immigrati), o da quelle culturali (e allora, se ci si concentra sull’aspetto linguistico, cinesi, arabi e così via oppure, se si prende come emblematica l’appartenenza religiosa, ad esempio musulmani) (R.Ricucci, op. cit., 2014).

Eppure anche questi ragazzi e ragazze fanno parte di quella composita realtà giovanile che si avvia a diventare adulta nel nostro Paese, fra timori e opportunità. Anche loro crescono, divengono maggiorenni e si confrontano (anzi, spesso si scontrano) con l’altro tema che accompagna la riflessione sul loro stato: la cittadinanza. Un diritto? No, una concessione, replicherebbero molti dei protagonisti, come si legge su diversi siti e blog gestiti da chi in Italia vi è nato, cresciuto e sente di appartenere a un Paese di cui tuttavia non ha il passaporto.

Di fronte a questo scenario, il fatto che in Italia crescano ragazzi di origine straniera, figli dell’immigrazione che ormai da decenni accompagna la storia nazionale, amplifica i timori. Ci si chiede che tipo di adulti diventeranno, questi giovani, a quali sistema normativo, valoriale faranno riferimento. Italiani per socializzazione ma stranieri per passaporto, cresciuti fra la scuola e una famiglia che a volte difende strenuamente valori, tradizioni, norme proprie di altre dinamiche socio-culturali. E davanti a molti di loro l’interrogativo diviene quello relativo a quale religione apparterranno e in quale modo vivranno la loro credenza. Di tale peculiare gruppo di bambini, adolescenti, ma soprattutto “italiani a metà” da tempo si cerca di approfondirne le caratteristiche. Di essi si discute, talora giudicandone atteggiamenti – traendo ispirazione più da quanto accaduto in altri ambiti di immigrazione che non interpretando veri e propri dati di realtà – e descrivendo scelte professionali, affettive, di relazione con altri paesi. Si tratta spesso di congetture, di fronte a un universo delle seconde generazioni che solo di recente si è affacciato al mondo del lavoro e ancor meno ha numeri significativi nel suo ingresso nella vita adulta. Pertanto il rischio è di discutere di loro senza comprendere ancora appieno il contributo che possono portare ad un Paese che necessita di giovani per contrastare il declino demografico e le correlate conseguenze macroeconomiche.

I giovani stranieri rappresentano, se riconosciuti e accompagnati nel desiderio di molti di loro di essere protagonisti attivi nella società, un’opportunità per le diversificate realtà territoriali in cui vivono. Anche in un’ottica transnazionale, dando concretezza a una delle tante etichette che studiosi e operatori hanno cucito loro addosso, ovvero l’essere una “generazione ponte”, divenire soggetti “biculturali o multiculturali”.

Un elemento è chiaro: da soli e con la sensazione di essere “tollerati e non accettati”, “comparse e non primi attori” a fatica i figli dell’immigrazione potranno dare appieno il loro contributo nelle numerosissime realtà in cui si muovono, al pari dei coetanei italiani per discendenza. Ancora significativi, infatti, sono diversi indicatori di fragilità, nel mondo della scuola in primis, come nei dati relativi ai NEET o fra coloro che cercano un riconoscimento e un riscatto attraverso percorsi devianti.

Sentirsi italiani, essere stranieri. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le discussioni e i dibattiti sull’attuale legge sulla cittadinanza (n. 91/1992), basata sullo ius sanguinis. E allo stesso modo sono state depositate in Parlamento numerose proposte di modifica per introdurre novità che siano in sintonia con una realtà sociale profondamente mutata in venticinque anni, come accennato in apertura. Come la conclusione della legislatura nel dicembre 2017 ha mostrato, il dibattito si è impantanato in una sterile palude. Da un lato sembra che la revisione della normativa corrisponda a un attacco ad una presunta identità italiana, per cui si levano domande come: “Possono diventare italiane persone che credono in un dio diverso dal nostro o che hanno valori, storie e tradizioni culturali differenti dalle nostre?” Ma va ricordato che il 53% degli stranieri residenti è cristiano, dove gli ortodossi provengono prevalentemente dal paesi del centro-est Europa e i cattolici da Filippine, Romania e Polonia (dati a fine 2016, Idos-Unar , op. cit., 2017).

L’accento è posto sempre su (presunte) inconciliabili differenze. Di fatto, le similitudini fra cittadini italiani e non sono molteplici. Inoltre, una riflessione più approfondita sui singoli elementi di dibattito, ad esempio l’uso del velo, può portare a conclusioni diverse. Le donne del Rituale del pianto nel mondo antico, come ricorda Ciafaloni, portavano il fazzoletto in testa, dentro e fuori la chiesa, ed erano donne della campagna meridionale italiana (Concentrazione e differenziazione degli allievi stranieri nelle scuole torinesi, a cura di F. Ciafaloni, Comitato oltre il razzismo, 2004). Lo stesso fazzoletto, oggi velo, che molte ragazze indossano, talora più per rivendicare il diritto a esprimere una loro identità che per esclusivi motivi religiosi o di costrizione familiare. Come alcune ricerche hanno dimostrato, non sempre le giovani di oggi indossano il chador così per seguire quello che le madri e le nonne erano solite fare nei paesi d’origine. In sintonia come quanto scriveva Gellner riferendosi al Nord Africa “Molte donne in Marocco portano il fazzoletto non perché la nonna lo portasse, ma perché non lo portava” (R. Ricucci, op. cit., 2014, p. 12).

Atteggiamenti e percorsi biografici plurali spesso vengono annullati da un’eccessiva e pericolosa semplificazione, che rischia di leggere comportamenti e scelte di vita attraverso la lente di immaginari (e talora pregiudizi), ben lontani dalla variegata, complessa e non lineare quotidianità. Per continuare l’esempio del velo, molte ragazze che oggi in Italia lo indossano lo fanno disobbedendo a genitori che preferirebbero una strategia di mimesi sociale. I padri e le madri talora consigliano invece di annullare tutti gli elementi di differenziazione e distanza dal comune modo di essere e di fare italiano, per evitare conseguenze negative in una realtà che hanno sperimentato non essere democratica, aperta, rispettosa dei diritti, soprattutto se vittime di razzismo e discriminazione per motivi religiosi (R. Ricucci, Diversi dall’islam. Figli dell’immigrazione e altre fedi, il Mulino, 2017).

I risultati di un concorso fotografico lanciato durante il 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha presentato sogni, speranze e aspettative di fronte al futuro in Italia delle seconde generazioni. Una carrellata di foto, pensieri e auspici che ancora oggi accompagnano quanti riflettono sulle scelte formative da fare, sul dove è meglio realizzare aspirazioni professionali, sul senso da dare al coinvolgimento nell’associazionismo e nell’impegno civico. La realtà corre sempre più veloce delle norme. E della politica. Mentre si discute se e quale tipo di ius soli adottare (temperato, differito, legato alla scuola), i bambini crescono e i giovani diventano maggiorenni. Scoprendo così di essere ospiti nel paese che ritenevano essere la loro casa.

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