Presente e futuro delle politiche sanitarie

Chiara Giorgi mostra come la pandemia abbia messo in evidenza le fragilità del Servizio Sanitario Nazionale penalizzato da anni di sotto-finanziamento, da tagli alle strutture e al personale, dallo spazio lasciato alla sanità privata e dall’indebolimento della medicina territoriale. Giorgi sottolinea anche che alcuni recenti e allarmanti segnali indicano che la strada intrapresa non è quella dell’auspicato rilancio e della riqualificazione del Servizio Sanitario Pubblico ma del suo depotenziamento.

La pandemia poteva e doveva rappresentare un’occasione fondamentale per porre al centro dell’agenda politica il rilancio, il potenziamento e la riqualificazione del servizio sanitario pubblico; viceversa più segnali indicano come la strada intrapresa sia quella di un suo indebolimento, accompagnato dal rafforzamento delle logiche e dei meccanismi di mercato in direzione di un disegno di privatizzazione della sanità italiana.

D’altronde, proprio la diffusione del Covid-19 ha mostrato come un servizio sanitario pubblico in grado di garantire una copertura universale, finanziato attraverso la fiscalità generale e con una capacità di intervento tanto preventivo, quanto diagnostico-terapeutico, a livello territoriale e a livello ospedaliero, sia l’unica organizzazione capace di affrontare con efficacia un evento come l’attuale
infezione da coronavirus (C. Giorgi, F. Taroni)

Tuttavia, proprio la vicenda della pandemia ha mostrato le fragilità del Servizio Sanitario nazionale (SSN), penalizzato da anni di sotto-finanziamento, da tagli alle strutture e al personale, da politiche che hanno pesato in modo negativo sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione.

I limiti che si sono mostrati nel servizio sanitario pubblico a fronte dell’impatto dell’emergenza sono derivati soprattutto dal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata e dall’indebolimento della medicina territoriale, che aveva informato la fisionomia dell’istituzione del SSN negli anni Settanta (legge n. 833/1978).

I dati relativi alla spesa sanitaria pubblica degli ultimi anni, confrontanti con quelli di altri paesi europei (Francia e Germania), mostrano l’entità della riduzione delle risorse pubbliche particolarmente grave in un paese ad alto invecchiamento della popolazione e un decisivo disinvestimento dalla sanità pubblica ­– soprattutto in termini di riduzione dei servizi e del personale – con l’effetto di uno spostamento della domanda verso il mercato privato (OCSE, Osservatorio Europeo delle politiche e dei sistemi sanitari. Italia. Profilo della sanità 2019; Ufficio parlamentare di bilancio, Lo stato della sanità in Italia, Focus tematico, n. 6, 2019; C. Giorgi, La traiettoria delle politiche sanitarie italiane, in F.R. Pizzuti, M. Raitano, M. Tancioni, a cura di, Rapporto sullo Stato sociale 2021, Sapienza University Press, in stampa).

Più contraddizioni caratterizzano la sanità italiana: da un lato, l’ottima posizione di cui ancora gode il paese in termini di mortalità (tra le più basse in Europa) e speranza di vita alla nascita e a 65 anni; dall’altro lato, un livello di spesa sanitaria, sia pro capite, sia in percentuale sul PIL, nettamente inferiore rispetto ai maggiori paesi europei con simile speranza di vita (Istat, Rapporto annuale, capitolo 2, Sanità e salute di fronte all’emergenza Covid-19, 2020). Accanto a una dimensione modesta della spesa pubblica (sempre rispetto ad altri paesi europei), altre criticità connotano la sanità italiana degli ultimi anni. In particolare, una crescente spesa diretta delle famiglie sia per le cure – cresciuta tra il 2012 e il 2018 –, sia per i farmaci; il prevalere del ruolo degli ospedali; le scarse risorse destinate all’assistenza territoriale; la crescita delle disuguaglianze nell’accesso ai servizi, sia in termini territoriali, sia sociali; un’alta quota di risorse economiche assorbite dalla sanità privata; un fortissimo carico di lavoro gravante sulle spalle degli operatori sanitari.

Più nello specifico, i dati relativi alle diseguaglianze nell’accesso ai servizi – in termini di accesso fisico ed economico – fotografano il divario tra Nord e Sud del paese, riemerso tra la fine del XX secolo e gli inizi del nuovo millennio, ad esempio, nella speranza di vita in buona salute alla nascita (per alcuni dati recenti sulle difficoltà di accesso fisico, in specie nelle liste di attesa, cfr. Ministero della Salute, Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero, 2019). Altre criticità emergono nell’iniquità di accesso ai servizi, con un sensibile aumento della percentuale di quanti dichiarano di aver rinunciato a visite mediche per motivi economici, specie tra i cittadini a basso reddito. I numeri e le condizioni di lavoro degli addetti alla sanità registrano a loro volta più problematicità: una presenza di personale medico con un’età media più alta che altrove (quale conseguenza dello scarso turnover) e una grave lacuna del personale infermieristico. In termini assoluti, tra il 2012 e il 2018 si è avuta una riduzione del personale complessivo del comparto sanità del 3,8%; i medici e gli infermieri hanno riportato riduzioni rispettivamente del 2,3% e dell’1,6%. In conseguenza, si è registrata una riduzione degli oneri per il personale dipendente del SSN in percentuale della spesa sanitaria totale dal 31,4% al 30% tra il 2014 e il 2017, per effetto anche del blocco dei rinnovi contrattuali e delle retribuzioni.

Di fatto il turnover è rimasto costantemente al di sotto del livello di sostituzione. Va ricordato che nelle vicende storiche della parabola sanitaria italiana, i blocchi del turnover, così come l’estensione dei ticket e la compartecipazione degli utenti ai costi delle prestazioni hanno contraddistinto le politiche sanitarie non solo negli ultimi anni. Elementi questi che riflettono le ripetute spinte volte a risparmi della spesa pubblica e all’adozione di modelli privatistici, in un quadro segnato dal progressivo passaggio da un impianto universalistico proprio alla riforma del 1978 a uno selettivo/condizionale.

Infine, un ulteriore aspetto resosi palese durante la pandemia concerne la mancata transizione organizzativa del SSN: la chiusura di alcuni reparti ospedalieri non è stata affiancata da un potenziamento degli interventi territoriali e residenziali, della medicina territoriale, di servizi socio-sanitari, che pure erano in agenda da decenni.

Agli stessi grandi accorpamenti delle strutture sanitarie operati dagli inizi del nuovo secolo – in specie la riduzione delle Aziende Sanitarie Locali passate dalle 180 del 2005 alle 101 del 2018 – non ha corrisposto il potenziamento della rete territoriale dei servizi socio-sanitari e della prevenzione primaria (N. Dirindin, È tutta salute. In difesa della sanità pubblica, Ezioni GruppoAbele, 2018). Non sono state attenuate le preesistenti carenze dei servizi assistenziali territoriali e dell’organizzazione domiciliare, accentuando la pressione sugli ospedali, la cui capacità di cura, peraltro, è stata progressivamente indebolita (E. Pavolini Criticità latenti e nuove sfide. La sanità italiana alla prova del COVID-19, «Quaderni della coesione sociale», 2020). La riduzione dei posti letto (diminuiti in media dell’1,8% l’anno tra il 2010 e il 2018) e del personale sanitario (in specie in alcune Regioni), la contrazione delle prestazioni e il riordino della rete ospedaliera sono stati i mezzi utilizzati negli ultimi anni per il controllo della spesa, rimasta sostanzialmente stabile, a fronte dell’aumento della domanda di cure legate soprattutto all’invecchiamento della popolazione.

Come è evidente, si tratta di criticità e fragilità di più lungo periodo, accentuatesi in questi ultimi tragici mesi e soprattutto non affrontate adeguatamente dalle più recenti politiche. È significativo, ad esempio, che il personale assunto per far fronte all’emergenza sanitaria è per lo più a tempo determinato a causa della mancata rimozione dei vincoli limitanti la conferma stabile.

Tutti questi elementi dovrebbero rappresentare il banco di prova per un’agenda di rinnovamento della sanità pubblica. E invece indizi allarmanti provengono in questo periodo da più fronti, segnali che rischiano di indebolire ulteriormente il SSN. Su essi si concentra il recente documento proposto dall’Associazione Salute Diritto fondamentale, che esprime fondate preoccupazioni rispetto alle attuali politiche sanitarie, impegnandosi al contempo a elaborare soluzioni che possano consentire di rafforzare il servizio sanitario pubblico (cfr. https://salutedirittofondamentale.it/) Il rischio è infatti che in tanto parlare di Green pass venga meno l’attenzione nei confronti della questione fondamentale che dovrebbe occupare il mondo della politica: il rafforzamento del SSN, la responsabilità pubblica della gestione della sanità, la centralità del diritto alla salute nella una sua visione unitaria, fisica e psichica, individuale e collettiva.

I segnali pericolosi individuati dall’Associazione sono numerosi, a partire dalle previsioni di spesa sanitaria pubblica contenute nei documenti del governo, le quali mostrano una riduzione continua dal 2022 al 2024 (6,7% nel 2022, 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024). Un «pessimo segnale» – si precisa nel documento dell’Associazioneche indica come la cosiddetta lezione della pandemia non sia servita a potenziare il SSN e come anzi la direzione intrapresa sia quella di una sua ulteriore penalizzazione, di contro all’espansione dell’offerta privata, «trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative e aziendali».

Sul fronte del personale, non si registrano inversioni di tendenza rispetto alla drastica riduzione di medici e infermieri, mentre continua la fuga all’estero del personale sanitario italiano ed è carente la programmazione della formazione universitaria.

La lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria aumenta poi il rischio che i cittadini si rivolgano sempre più al privato – che avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali non richiede riorganizzazione e ristrutturazione –, evitando le strutture pubbliche in affanno. Qui si nasconde uno dei pericoli più gravi, altrettanto presente rispetto alla destinazione delle risorse del PNRR. I 500 milioni stanziati per smaltire le liste di attesa e i fondi del Piano per l’assistenza domiciliare integrata rischiano infatti di essere destinati ad erogatori privati, anziché «rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici». Con il risultato che mentre va indebolendosi l’offerta pubblica, aumenta il potere di mercato di molti soggetti privati.

Due ulteriori indizi allarmanti provengono dalle sollecitazioni al Governo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in direzione di un aumento dell’offerta di prestazioni sanitarie da parte di strutture private non convenzionate con il SSN e, soprattutto, dal consenso che continua a incontrare il modello sanitario lombardo. Un modello che da anni ha cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici «affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private» e instaurando in ambito ospedaliero una concorrenza tra pubblico e privato sleale, fortemente squilibrata e a favore di quest’ultimo.

In questo quadro, alla vigilia della legge di bilancio 2022 e delle annunciate misure sulla concorrenza, diventa cruciale rivolgere l’attenzione al ruolo imprescindibile della sanità pubblica. La posta in gioco è infatti non solo il futuro del SSN – ossia dello strumento che garantisce a tutti la tutela della salute, volto a perseguire gli obiettivi di uguaglianza, universalismo, omogeneità territoriale, globalità delle cure – ma anche quello del welfare. Un welfare universale e democratico, che metta al centro il benessere delle persone, i loro bisogni in termini di salute, previdenza, assistenza, istruzione, abitazione, tutela del reddito.

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