Pratica, etica e politica di una riforma del fisco in chiave patrimoniale

Fabrizio Patriarca interviene nel dibattito sulla patrimoniale e cerca di chiarire alcuni aspetti di natura filosofica, politica e tecnica relativi a una possibile proposta di riforma fiscale che abbia l’obiettivo di riequilibrare le basi imponibili, sgravando i redditi e insistendo, invece, sulla ricchezza netta. Patriarca prende anche in considerazione le principali critiche mosse alla patrimoniale sotto i diversi aspetti e sostiene che vi è una risposta per ciascuna di esse.

Prima che il lettore pensi di trovarsi davanti all’ennesima proposta di tassare una tantum quei cattivoni dei ricchi, come rivalsa per gli immeritati guadagni che una prolungata fase di politiche neoliberiste ha regalato loro, è meglio chiarire subito che non si tratta di questo e anzi chi scrive le proposte di Mark Zuckeberg e Emanuel Saez, rilanciate recentemente anche da Amartya Travaglio e Jean-Paul Fratoianni, non le condivide. E non perché le premesse siano poi così sbagliate, ma perché l’aumento delle disuguaglianze è causato da meccanismi di rendita che vanno affrontati e presi di petto con opportuni cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e della società, e al sistema tributario non spetta il compito di vendicarle, se mai quello di contribuire a che non se ne continuino a creare.

Ma da simili premesse, in particolare dal fenomeno di estremo aumento della concentrazione della ricchezza, dalla perdita della quota dei redditi da lavoro, dall’aumento dei fenomeni di rendita, deriva l’attualità di una riforma del sistema fiscale che sposti progressivamente la base imponibile dai redditi alla ricchezza netta.

Per dare un’idea generale concreta del nostro caso italiano, nell’anno passato le principali entrate fiscali che hanno come presupposto il reddito (IRPEF, IRES e ISOS) ammontavano a circa 224 miliardi a fronte di circa 20 Miliardi di gettito delle principali imposte basate sulla ricchezza immobiliare (IMU/TASI) e mobiliare (Imposta di bollo), un rapporto di oltre undici a uno.

Ad esempio, considerando che la ricchezza netta delle famiglie italiane è stimata a circa 9.750 miliardi di euro, un cambiamento della base imponibile (tax shift) che generi un gettito dell’8 per mille della ricchezza netta consentirebbe di diminuire di un terzo le imposte complessive pagate sui redditi. Vincitori e sconfitti di un tale cambiamento dipendono poi dai dettagli di una tale riforma, ma in ogni caso le dimensioni complessive contano ed è evidente che lo spazio per un tale cambiamento esiste anche senza prefigurare aliquote complessive etichettabili come “da rapina”.

In ciò che segue si cercheranno di chiarire gli aspetti politici di un tale cambiamento ed alcuni aspetti tecnici rilevanti per la sua fattibilità. Cominciamo però dagli aspetti politici. Una riforma fiscale, infatti, non è una questione tecnica, dettata da esigenze di semplificazione e razionalizzazione e non è un vezzo di “parrucconi” tributaristi e scienziati delle finanze. Il sistema fiscale è infatti uno dei cardini del “contratto sociale”, quel sistema di regole su cui si fonda la convivenza in una società tra individui diversi, e che giustifica l’esercizio coercitivo da parte dello Stato.

Oltre che permettere il necessario finanziamento delle spese dello Stato, le imposte sui redditi, di qualsiasi fonte, hanno anche il compito di realizzare obiettivi di equità, secondo il principio che chi ha di più debba pagare di più e in una misura relativamente crescente (progressività). Si tratta di un compito derivante dal dettato della Costituzione, che si riferisce, in realtà, al sistema tributario nel suo complesso. Da un punto di vista di filosofia politica, il fatto che nella pratica la capacità contributiva sia misurata sul reddito prodotto è perfettamente coerente con un principio di equità riferito agli esiti.

Si tratta di un principio maggioritario nella tradizione liberale in cui, come ricordava Gerry Cohen (Rescuing Justice and Equality), l’uomo politico corregge ex-post le storture create da se stesso nella veste di uomo economico. Una tradizione, quella liberale, che è stata la guida nella storia della progressività fiscale delle economie capitaliste, influenzandone teoria e pratica. Diversamente, almeno a parere di chi scrive, un principio di capacità contributiva basato sulla ricchezza è più coerente con un approccio che si focalizza sull’uguaglianza delle opportunità, meno presente nella tradizione liberale, e invece caratteristico di quello socialista, nel senso di quello contemporaneo alla Roemer e Cohen (approccio che, come ricordava Marx in “La questione ebraica”, si propone di superare la schizofrenia dell’uomo economico, adottando quindi come riferimento utopico il superamento dello Stato, inteso come potere coercitivo).

Aldilà di questi aspetti teorici, il fatto che nel nostro sistema tributario due individui con redditi uguali ma con ricchezze nette molto diverse siano considerati uguali dal punto di vista della capacità contributiva, suscita un senso di ingiustizia anche soltanto sul piano intuitivo – senza bisogno di scomodare gli eredi del barbuto di Treviri – semplicemente pensando alla differenza, a stipendio dato, tra avere o meno una casa di proprietà o avercela al Centro o nell’estrema periferia a Roma o a Milano. Non è un caso, d’altronde, che la ricchezza netta sia recentemente entrata ad accompagnare i redditi in criteri di equità orizzontale e prove dei mezzi, anche se non per le entrate ma solo relativamente alla possibilità di beneficiare di servizi o trasferimenti dello Stato, come nei casi in cui si richiede l’ISEE e nella condizionalità per l’accesso al Reddito di Cittadinanza. Rimane singolare il fatto che questo criterio patrimoniale riguardi direttamente solo il segmento della società con redditi bassi, rispetto al quale assume un ruolo addirittura prioritario.

Le questioni politiche poste da una riforma fiscale tuttavia non si limitano alla definizione del principio di “giustizia” cui la società si informa. Nella pratica qualsiasi sistema impositivo è economicamente non neutrale, ovvero genera implicitamente incentivi e disincentivi, contribuendo alla formazione delle scelte economiche. Di conseguenza, lo si voglia o meno, ogni sistema impositivo è espressione di un modello di relazioni economiche e quindi di una specifica visione dello sviluppo – di nuovo una materia eminentemente politica.

Da questo punto di vista il tema della riforma fiscale può assumere un valore strategico di politica economica. Se si dovesse descrivere la situazione economica del paese e le sue difficoltà strutturali, già precedenti l’infausto 2020 si potrebbe riassumerla come la condizione di un paese bloccato, come un ciclista in salita piantato sulle gambe. Il problema di politica economica sarebbe come sbloccarlo, come rimuovere le incrostazioni e liberare energie costrette o sopite per rimetterlo in moto. Gli effetti distorsivi di una tale riforma fiscale andrebbero proprio in questa direzione, per via del conseguente incentivo alla produzione di reddito e della penalizzazione delle rendite. Il prelievo sulla ricchezza netta incentiverebbe l’utilizzo a fini maggiormente produttivi dei patrimoni mobiliari e immobiliari e al contempo la riduzione del prelievo sui redditi incentiverebbe gli investimenti dall’estero.

Riguardo ad altri effetti potenzialmente positivi, stupisce che alcuni di essi vengano spesso indicati come problemi da chi si oppone alla patrimoniale. Si dice ad esempio che la patrimoniale farebbe diminuire il valore degli immobili, ma questo di per sé non è un problema: avvantaggia chi vuole comprare un immobile per viverci, è neutrale per chi nell’immobile ci vive, danneggia chi specula sul mercato immobiliare. Sarebbe negativo se, per caso, si pensasse di rilanciare l’economia a suon di bolle immobiliari: non esattamente una grande idea, volgendo lo sguardo indietro di qualche anno. Si dice anche che sarebbe un disincentivo al risparmio, ed anche questo non sembrerebbe un gran problema: rilanciare i consumi in un’economia in cui i problemi di domanda sono soprattutto interni non è così male. Inoltre, l’eventuale impatto sul costo dell’indebitamento per chi investe non appare rilevante considerando che assai verosimilmente la politica monetaria manterrà i tassi di interesse bassi per un periodo tutt’altro che breve. E’ poi utile ricordare che in Italia il rapporto tra ricchezza privata e PIL è tra i più alti del mondo e in la pressione fiscale sul consumo è aumentata nel tempo. In aggiunta, dagli effetti dell’imposta di bollo sui conti correnti, introdotta dal Governo Monti, si desume che l’elasticità del risparmio all’imposizione patrimoniale non è significativa.

Si dice, infine, che l’aumento del prelievo sui patrimoni provocherebbe la fuga di capitali all’estero. Innanzitutto, la fuga dell’imponibile all’estero è possibile solo per la parte mobiliare ed è comunque molto più complessa che per i redditi e lo sarà sempre di più nel futuro. In secondo luogo esporre al rischio di condanna per il reato di evasione, quindi penale, fattispecie di operazioni che oggi rimangono nel campo del reato di elusione, quindi amministrativo, risolvendo una questione di “equità” tra infedeli fiscali: tra i ricchi, che oggi principalmente eludono, e tra i meno ricchi, che oggi principalmente evadono. In ogni caso questo fenomeno dipenderebbe dai dettagli dell’eventuale legge riguardanti l’esportazione di capitali.

Quest’ultima questione rimanda agli aspetti tecnici di una possibile riforma e alle specifiche criticità delle imposte sui patrimoni. Una discussione puntuale al riguardo si trova nel volume XXXV della rivista Politica Economica, che ospita un dibattito sulla proposta di riforma fiscale di Vincenzo Visco, che prevede – sempre in un contesto di tax-shift anche una nuova imposta patrimoniale. I principali punti critici tecnici sollevati dai diversi commentatori sono due, a parere di chi scrive, entrambi risolvibili. Il primo riguarda la natura personale dell’imposta, caratteristica della proposta sia di Visco che di Piketty (2014), che serve a realizzare una progressività per scaglioni, ma che può dare origine a comportamenti elusivi e a problemi pratici di riscossione. La progressività è, di fatto, realizzabile anche con un’imposta reale ad aliquota costante, prevedendo l’esenzione di tipologie specifiche (ad esempio la prima casa o parte di essa) o un credito di imposta su base personale o familiare che di fatto andrebbe a costituire una no tax-area. Sarebbe una progressività differente, ma probabilmente più accentuata di quella che caratterizza l’attuale sistema impositivo a scaglioni sui redditi. L’imposta reale permetterebbe poi di utilizzare il sistema bancario come sostituto di imposta per la parte mobiliare, limitando le dichiarazioni dei singoli alla parte immobiliare, più facilmente accertabile.

Il secondo problema tecnico si porrebbe per gli individui con patrimoni immobiliari ma privi di redditi sufficienti a pagare l’imposta. Se l’imposta è sulla ricchezza al netto delle passività, se è prevista una no tax-area e, infine, se vengono esentate specifiche categorie di immobili, questo fenomeno sarebbe marginale dal punto di vista del gettito, ma porrebbe comunque problemi da affrontare. A tal fine, per chi ricadesse in tali condizioni, si può pensare di sostituire il pagamento dell’imposta con la cessione di quote corrispondenti della proprietà immobiliare, che verrebbe poi liquidata in caso di vendita dell’immobile o comunque fatta valere in sede di eredità, ma che potrebbe comunque essere cartolarizzata da subito. Un meccanismo simile già esiste all’interno di regimi sanzionatori che prevedono l’ingresso in partecipazione dello Stato.

Ciò detto, passare da un sistema tributario in cui la progressività riguarda, nei fatti, soltanto i redditi da lavoro ad uno un cui si tiene conto delle capacità patrimoniali non è una questione tecnica né una questione di cassa, è una questione politica di conflitto distributivo. Come tale, è un cambiamento la cui fattibilità dipende da un lato, dalla capacità dei tanti possibili vincenti di riconoscersi come tali, e dall’altro dalla forza economica e quindi politica del gruppo, assai più consapevole, dei possibili perdenti.

Post Scriptum. Spesso, discutendo di queste cose con amici impegnati politicamente, mi capita di sentirmi dare ragione, ma poi sostenere che è una via politicamente irrealizzabile. Io penso invece che proprio oggi lo spazio per una simile battaglia politica ci sia, occorre certo un po’ di scaltrezza, anche semantica, e suggerisco di ripensare alle parole di un riformista, Tarantelli: l’utopia dei deboli è la paura dei forti.

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