Povertà in attesa: risposte adeguate a una realtà in cambiamento

Nunzia De Capite richiama i principali contenuti del Rapporto Caritas 2018 e mostra, in particolare, l’utilità di integrare le informazioni sulla povertà fornite dall’ISTAT e l’analisi delle caratteristiche delle politiche contro la povertà, con la conoscenza diretta del fenomeno che deriva dal rapporto con i poveri nei diversi territori. Al riguardo, si dimostra molto utile l’analisi delle condizioni di vita delle persone che si recano nei centri d’ascolto Caritas. De Capite presenta anche una valutazione del Rei nella fase di prima attuazione.

Che cosa vuol dire essere poveri in Italia oggi. Dopo la crisi del 2007-2008 lo scenario della povertà nel nostro paese è mutato. I dati sulla povertà assoluta ci restituiscono un quadro del fenomeno diverso in termini sia di estensione sia di profili.

Le persone in povertà assoluta sono passate da 1.789.000 nel 2007 a 5.058.000 nel 2017. Un aumento del 182%, cui si aggiungono modifiche nei tratti del fenomeno stesso, che possiamo osservare analizzando i dati diacronicamente.

Nell’arco di un decennio, dal 2005 al 2015, la povertà è diventata sempre più trasversale: non interessa più solo le regioni del Sud, ma è aumentata al Nord (una variazione dell’incidenza pari al 200%), non riguarda più solo le famiglie numerose ma anche quelle con due figli, non colpisce più solo gli anziani, bensì anche la popolazione fino a 34 anni e nelle fasce centrali di età (35-64 anni) ed è aumentata tra chi ha un lavoro (l’incidenza è aumentata del 268%) (C. Gori, Verso un nuovo modello italiano di povertà? La rivista delle politiche sociali, n.4/2017, 192).

Il modello tradizionale di povertà (regioni meridionali, famiglie con oltre due figli, ritirati da lavoro, famiglie numerose con almeno cinque componenti, over 64 anni, livelli di istruzione bassi), pur essendo ancora il più diffuso, risulta meno rappresentativo. Sta cioè emergendo un profilo (Centro-Nord, occupati, fino a due figli, fino a quattro membri in famiglia, livello di istruzione medio-alto) la cui incidenza complessiva sul totale è ancora bassa rispetto al profilo tradizionale ma il cui incremento nel decennio 2005-2015 è superiore al 60% (ibidem, 197).

Se questo è lo scenario che emerge dalle serie storiche sulla povertà assoluta dell’Istat, il quadro che si ricava dal Rapporto Caritas appena uscito, e sul quale concentra l’attenzione questo articolo, permette di fare luce su altri importanti aspetti della povertà italiana.

Il Rapporto Caritas 2018 si caratterizza per avere unito due rapporti che negli scorsi anni erano presentati separatamente: quello sulla povertà, pubblicato da Caritas Italiana a partire già dalla fine degli anni Novanta, e quello sulla valutazione delle politiche di contrasto alla povertà, prodotto da cinque anni a questa parte. Il rapporto Caritas 2018 restituisce la situazione delle persone che si sono rivolte nell’anno alle strutture Caritas che svolgono la funzione di primo ascolto e orientamento sul territorio. Non basandosi su un campione rappresentativo, i dati raccolti non consentono di effettuare confronti sistematici da un anno all’altro ma fanno comunque luce sulla povertà accolta nel circuito delle Caritas che ha una diffusione capillare su tutto il territorio nazionale (le Caritas diocesane sono organismi di stretta emanazione delle Chiese locali e realizzano, di concerto con le comunità ecclesiali e in collaborazione con le istituzioni pubbliche preposte, interventi in favore di coloro che vivono sui territori situazioni di disagio di vario tipo; oggi in Italia vi sono 218 Caritas diocesane – www.caritas.it).

Nel 2017 hanno partecipato alla rilevazione 1.982 centri di ascolto Caritas, pari al 59% del totale. 197.000 sono state le persone in cerca di aiuto coinvolte. Nel 57% dei casi si è trattato di stranieri, prevalentemente uomini (è il primo anno in cui gli uomini risultano più numerosi delle donne) con un’età media di 44 anni (classe modale 18-34 anni). La presenza degli stranieri è maggiore nelle Caritas del Nord e del Centro (rispettivamente 64% e 63%), mentre nei centri di ascolto del Sud hanno prevalso soggetti di nazionalità italiana. I beneficiari sono per lo più coniugati (46%) e il 64% delle persone incontrate aveva figli (26.000 persone avevano figli minori su un totale di 89.000 con figli). Rispetto al profilo culturale, due terzi delle persone aveva un titolo di studio pari o inferiore alla licenza media, il 77% dei quali di cittadinanza italiana. Preoccupante la situazione delle persone italiane nella fascia di età 18-34: nel 60% dei casi esse possedevano solo la licenza media. Nel 2017, inoltre, risultavano ancora prevalenti fra i beneficiari le persone disoccupate (63%).

In aggiunta al profilo delineato dobbiamo considerare alcuni elementi di carattere generale.

Primo: nel 2017, è stata preponderante, e pari al 57%, la quota di beneficiari già in carico alle Caritas da più di un anno (il transito medio è stato 3 anni, con punte fino a 5 anni). La permanenza nel circuito delle Caritas è un indicatore della difficoltà a uscire dalla condizione di bisogno, e ciò è imputabile alla pluralità di fattori che hanno causato lo stato di povertà e/o alla cronicità della condizione in cui esse si trovano.

Secondo: sempre nel 2017, il 39% delle persone che si sono rivolte alle Caritas presentava tre o più problemi contestualmente, in genere di tipo economico e lavorativo, mentre un residuale 8% ha dichiarato di avere un solo problema, l’assenza di lavoro. Questo conferma, anche all’interno della platea dei beneficiari Caritas, la natura multidimensionale della povertà.

Terzo: il numero medio di colloqui è stato pari a 6. Negli anni il numero è progressivamente aumentato: nel 2016, ad esempio, la media era di 3. Gli interventi realizzati sono stati circa 2 milioni e seicentomila: 13 interventi in media a beneficiario. Essi includono erogazioni di beni e sussidi (erogazione di beni e servizi materiali nel 62% dei casi e sussidi economici nel 21%) attività di consulenza, orientamento, sostegno specialistico socio-assistenziale, accompagnamento a servizi, semplice ascolto. La particolarità della condizione in cui si trovano i beneficiari (basso livello d’istruzione, competenze professionali di basso profilo, problemi economici, fragilità psicologiche, isolamento sociale, ecc.) richiede, infatti, intensità e continuità nel supporto fornito, che non può risolversi, se non in pochi casi, in interventi sporadici e una tantum.

Quali risposte per il futuro…a partire da quello che c’è già. Dal 1 dicembre 2017 l’Italia ha una misura unica nazionale di contrasto alla povertà, il Reddito di Inclusione.

Pur in continuità con la precedente misura sperimentale del SIA, il REI ha rappresentato una novità nel panorama delle politiche di intervento contro la povertà nel nostro paese per diverse ragioni:

  • è riconosciuto, in entrambe le sue componenti – contributo economico per la parte passiva e progetto personalizzato per la parte attiva – come livello essenziale delle prestazioni; il che implica il diritto di esigibilità da parte di chi ha i requisiti per beneficiarne e, al contempo, il dovere da parte dei soggetti preposti alla attuazione della misura (Inps, Ministero del Lavoro e Comuni) di garantirne un omogeneo accesso e fruizione su tutto il territorio nazionale;
  • il decreto n. 147/2017 che istituisce il REI definisce nel suo complesso l’architettura organizzativa e funzionale che presiede alla sua realizzazione (si tratta della istituzione di una serie di organi con diverse funzioni: il Comitato per la lotta alla povertà, l’Osservatorio sulle povertà, la Rete della protezione e della inclusione sociale), come non era mai stato fatto prima. Questo rende ancor più chiaro che il REI si inserisce in un quadro di rinnovamento generale del sistema di intervento pubblico sulla povertà, tra l’altro in raccordo con gli altri attori istituzionali e sociali impegnati sul fronte della lotta alla povertà. Alcuni riferendosi al REI parlano di “riforma”, proprio per dare il senso di un processo ampio e stratificato che travalica la sola dimensione della applicazione di una procedura normativa;
  • le caratteristiche della misura e la sua natura strutturale – che prevede una dotazione di risorse definita all’interno di un Piano nazionale di durata triennale – richiedono un adeguamento infrastrutturale (rafforzamento dei servizi e funzionamento degli organi istituiti) che avrà bisogno di tempo e risorse per compiersi in maniera soddisfacente.

All’intero di questo complessivo riassetto in corso, il Rapporto mette in luce le fatiche e le criticità che sul versante attuativo realtà come le Caritas hanno incontrato, collaborando con i servizi sociali all’applicazione locale della misura:

  • le fatiche sono visibili essenzialmente dal fatto che il REI sta dando risultati nei contesti territoriali in cui era già attiva una collaborazione tra servizi sociali e enti del territorio impegnati nel contrasto alla povertà. Non ha svolto, invece, finora una funzione di attivatore di nuove collaborazioni. Inoltre, occorre attendere il rafforzamento dei servizi sociali al fine di un avvio il più possibile congiunto della parte passiva e di quella attiva (ovvero contributo economico e inserimento socio-lavorativo), pena il rischio di un riduzionismo assistenziale della misura, rischio che al momento è molto alto;
  • le criticità riguardano l’attivazione dei beneficiari nei termini di inserimento lavorativo. Più precisamente, prevale all’interno delle Caritas diocesane una visione molto realistica che tiene conto delle caratteristiche economiche di ciascun territorio: laddove venga a configurarsi una idonea domanda di lavoro, si può dare seguito all’inserimento lavorativo per le persone beneficiarie del REI che presentano problemi legati alla sola dimensione lavorativa. Tuttavia, “neanche il REI potrà risolvere i problemi di chi non ha lavoro”. Torna, dunque, il tema della multidimensionalità della povertà.

Rispetto al futuro, indipendentemente da come si definirà lo scenario del contrasto alla povertà nel nostro paese, alla luce di quello che è accaduto negli ultimi anni, col SIA, prima, e col REI, poi, bisognerebbe quanto meno tenere presenti i seguenti punti:

  • Non si possono confondere le misure di contrasto alla povertà con le misure di inserimento lavorativo. Per valutare l’efficacia delle prime non si può, dunque, utilizzare l’indicatore del tasso di inserimento lavorativo dei beneficiari, pena il rischio di favorirne, nel tempo, la delegittimazione (C. Gori, Il reddito di cittadinanza è più importante dei calcoli elettorali, lavoce.info, 16 ottobre 2018).
  • Non si può disperdere il patrimonio di competenze e saperi che si sta sedimentando sui territori con l’attuazione del REI. I processi di adattamento e trasformazione che le realtà coinvolte nella attuazione della misura stanno mettendo in atto sono un prezioso punto di partenza da sviluppare ulteriormente. Inoltre, modificare le regole del gioco mentre la partita è in corso rischia di produrre disorientamento e sfiducia sia fra gli operatori dei servizi che fra i beneficiari.

In conclusione, l’auspicio principale del Rapporto Caritas è quello di muoversi nelle tre direzioni seguenti:

  • Valorizzare il lavoro che gli operatori stanno a vario titolo svolgendo sul territorio con la misura del REI e che, pur con tutte le fatiche e le difficoltà incontrate, sta sviluppando un capitale di competenze da utilizzare in futuro.
  • Continuare un processo avviato, migliorando e arrivando dove finora non si è riusciti (ampliamento della platea dei poveri – oggi il REI può potenzialmente coprire 2,5 milioni di persone in povertà assoluta sui 5 totali – e incremento degli importi – passando dall’attuale media di 308 euro al mese a 398).
  • Fornire finalmente una giusta risposta a ogni persona e famiglia che vive in povertà assoluta.

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