Povertà e criminalità: un progetto di ricerca

1. Il Laboratorio di Etica e Economia in “Verso Itaca”

L’associazione Etica e Economia partecipa alla rete di associazioni di recente costituzione “Verso Itaca” che è attiva sui temi della legalità e della lotta alla criminalità ed ha una proiezione internazionale con specifiche attività di formazione-intervento in America Latina. Le competenze che Etica e Economia mette a disposizione della rete per interventi formativi riguardano le tematiche relative alla crisi economica: cause, conseguenze, con particolare attenzione al tema della legalità (in collaborazione con l’associazione “Libera”). Anche nel quadro di questo impegno Etica e Economia ha avviato un programma di ricerca su “Povertà e criminalità” secondo le linee indicate nelle pagine seguenti. A questo scopo si è costituito un Laboratorio con un Comitato di Indirizzo composto da Luciano Barca, Fabrizio Barca, Maurizio Franzini, Giampiero Marchesi, Gilberto Seravalli, e da un gruppo di lavoro composto da Mattia Ciampicacigli, Luca Murrau, Davide Nardelli, Sergio Scicchitano, Gilberto Seravalli. Il Laboratorio è aperto, e sono invitati a partecipare ricercatori e studenti che fossero interessati a seguirne le attività.

2. Primo rapporto del progetto di ricerca “Povertà e criminalità”

Premessa

Povertà ed esclusione sociale alimentano l’illegalità diffusa e la criminalità organizzata che a loro volta rendono difficile combattere la povertà e sostenere i processi di sviluppo e inclusione sociale. La criminalità, tuttavia, non prospera solo in condizioni di sottosviluppo dove recluta persone che non riescono ad ottenere reddito e lavoro nelle attività legali. Essa cerca, anzi, ambiti territoriali e settori economici ricchi, che spesso riesce a penetrare e stravolgere, dove trova basi materiali e sete di guadagno che vogliono vincere in fretta e senza scrupoli la competizione con le attività che rispettano le norme. Se da una parte, quindi, esiste indubbiamente un nesso circolare tra criminalità e povertà che opera nelle “trappole di arretratezza”, dall’altra la criminalità può costituire anche un fattore autonomo di riflusso e di ostacolo allo sviluppo economico e sociale dove esso sia già avviato e perfino dove sia consolidato.

Il nesso causale tra povertà e criminalità è dunque complesso e merita una particolare attenzione per quanto l’analisi non sia facile. Non è facile la decifrazione dei suoi meccanismi come non è facile l’analisi empirica. Questa è ostacolata da dati che, a parte altre considerazioni sulle fonti e sulla qualità delle informazioni statistiche disponibili, sono da utilizzare con attenzione critica in quanto soffrono sempre di distorsioni specifiche. Le denunce di atti di criminalità, per esempio, sono soggette all’influenza del timore di ritorsioni e al dubbio che siano inutili. Potrebbe accadere che poche denunce e quindi relativamente bassi indici di attività criminali si riscontrino in aree e settori in cui la criminalità sia al contrario talmente diffusa da costituire un deterrente per la sua stessa rilevazione.

D’altra parte lo studio di queste complesse relazioni tra povertà e criminalità non ha solo un interesse speculativo. Da esso dipende sia l’efficacia delle politiche volte a combattere fenomeni sociali degenerativi che minacciano la nostra convivenza civile e il progresso e sia l’idea stessa che abbiamo del nostro vivere collettivo e, in definitiva, dei valori, delle identità e degli interessi del mondo in cui viviamo.

Se tali nessi sono complessi questo implica che l’assunzione secondo cui un aspetto sia riducibile sistematicamente all’altro appare in linea di principio non corretta e può essere fuorviante. Può essere gravemente sbagliato pensare che lo studio della criminalità sia superfluo dal momento che la sua diffusione si tradurrebbe sistematicamente e rapidamente in povertà, la quale dovrebbe quindi costituire il vero, privilegiato e unico fenomeno da indagare. Così come potrebbe essere sbagliato considerare superfluo lo studio della povertà assumendo che la criminalità sia la sua causa principale e come tale da esplorare in modo prioritario o esclusivo.

Il tema povertà e criminalità si presenta in sostanza come uno dei terreni, se non il principale, in cui si percepisce immediatamente la pertinenza della critica ad un approccio “aggregato” al grado di bene-essere della società. La convinzione ormai abbastanza diffusa è che le nostre condizioni di vita e quelle del nostro prossimo non siano bene rappresentate dal livello del Pil pro capite, e neppure da qualche altro indicatore sintetico di “sviluppo umano”. E non solo perché una media non rappresenta in modo adeguato la collocazione individuale o di gruppi nella distribuzione del reddito o dello sviluppo umano. Ma anche perché le condizioni di vita effettive possono essere gravemente manchevoli in qualche aspetto, anche se non in altri, ma non esiste una possibile compensazione tra di essi. Non ci potrebbe per nulla consolare, per esempio, né da un punto di vista individuale né da un punto di vista collettivo, se il nostro reddito monetario fosse sufficiente a pagare vitto e alloggio dignitosi (o perfino lussuosi) per noi e la nostra famiglia se poi la sanità e la scuola non funzionassero, e se vivessimo una condizione di continua insicurezza dato che fosse la criminalità organizzata a controllare il territorio. Anche un reddito molto alto sarebbe inadeguato se dovessimo pagare noi privatamente il costo della costituzione e mantenimento di una sanità e di una scuola di qualità e se soprattutto dovessimo pagare per la libertà e sicurezza. Un alto reddito monetario potrebbe consentirci solo di andare da qualche altra parte dove sanità e scuola funzionassero e dove lo stato di diritto fosse effettivo.

D’altra parte la multidimensionalità e la conseguente pluralità di indicatori si scontrano con un’esigenza importante di sintesi e di chiarezza comunicativa. La multidimensionalità nasce e si giustifica soprattutto dal lato operativo, perché appare indispensabile come premessa e guida a buone politiche, che siano efficaci in ordine al migliore bene-essere[1] individuando e agendo su specifici terreni, come per esempio la scuola, la sanità, la criminalità, i diversi e multiformi aspetti della povertà. Dal lato operativo però è essenziale che l’analisi circa lo stato di una società comunichi in modo efficace con la politica e con la cittadinanza. Se lo scopo di tale analisi è informare per mobilitare azioni conseguenti e congrue, allora i suoi messaggi non devono essere troppo complicati, devono essere chiari e se possibile facilmente comprensibili. Si profila dunque un dilemma tipico. L’approccio unidimensionale (come quello del Pil) è gravemente manchevole perché trascura la non sostituibilità tra i diversi lati del bene-essere, ma nello stesso tempo ha il vantaggio di fornire un’indicazione chiara e semplice come misura o proxy del bene-essere stesso. L’approccio multidimensionale è molto superiore in quanto ad analisi del bene-essere effettivo, ma potrebbe condurre a molti indicatori che possono – tra l’altro – essere tra loro variamente correlati in modo differente in diversi luoghi così che la loro interpretazione potrebbe risultare difficile agli stessi esperti, e tanto più ai cittadini e ai politici. Per questa ragione sono stati proposti diversi metodi di “aggregazione” degli indicatori multidimensionali. Un indice aggregato perde, ovviamente, i vantaggi informativi della multidimensionalità come tale, cioè prima dell’aggregazione. Non perde invece la superiorità rispetto all’unidimensionalità (il Pil) che prima aggrega e poi identifica i poveri come le persone sotto un certa soglia dell’indice aggregato. Un’aggregazione a partire da indicatori multidimensionali conserva sempre il fatto che prima si contano i poveri secondo le diverse dimensioni e poi si sommano (o si aggregano secondo algoritmi adeguati). Non è comunque una perdita di poco conto. Un discreto lavoro è stato fatto, perciò, per giungere a metodi di calcolo aggregativo che riducano al minimo tali svantaggi senza rinunciare a risultati semplici pur conservando lo spirito dell’approccio multidimensionale. Nelle proposte più recenti (Alkire, Foster 2009), l’indice aggregato è in grado di utilizzare dati multidimensionali anche ordinali e non solo cardinali, combina l’approccio dell’intersezione (secondo cui si considera povero chi è deprivato in tutte le dimensioni considerate) e dell’unione (secondo cui si considera povero chi è deprivato in almeno una di queste dimensioni), ed è decomponibile, non viene distorto, cioè, se è applicato a un sottogruppo della popolazione (proprietà importante che permette di considerare gruppi specifici cui indirizzare specifiche politiche). In definitiva, per quanto non esista o non esista ancora un metodo standard consolidato che contemperi in modo ottimale multidimensionalità e semplicità comunicativa, questo ostacolo non appare insormontabile e comunque non costituisce un’obiezione decisiva contro l’approccio multidimensionale, al quale – perciò – deve ora essere rivolta la nostra attenzione.

Gli indicatori multidimensionali e la “idea di giustizia” di Amartya Sen

Il tema povertà e criminalità si colloca in modo centrale nell’ambito della riflessione moderna sull’inevitabile multidimensionalità delle valutazioni del bene-essere, nell’ambito perciò dei non banali problemi di fondazione, costruzione ed impiego di adeguati indicatori, nell’ambito – in definitiva – di quella cultura della multidimensionalità che si sta gradualmente affermando ma deve essere responsabilmente alimentata.

In tale contesto analitico la questione accennata in premessa dei nessi tra povertà e criminalità assume importanza cruciale. Se infatti si potesse ritenere la povertà riconducibile alla criminalità nel senso che l’una dipende sistematicamente dall’altra, allora avremmo una semplificazione degli indicatori e una loro declinazione in senso sociale o collettivo. Per cogliere lo stato del bene-essere dei membri di una società sarebbe sufficiente e necessario valutare con adeguati indicatori lo stato della legalità di quella società nel suo insieme. Sarebbero probabilmente ancora indicatori multidimensionali ma l’unità d’analisi (ossia il riferimento per la rilevazione degli indicatori) sarebbe la collettività nel suo complesso, la sua organizzazione economica, sociale e politica, non i singoli individui membri di quella società. Se fosse il contrario, se la criminalità dipendesse sistematicamente dalla povertà, avremmo ancora una semplificazione che ci sarebbe fornita dai metodi – cui si è accennato – di opportuna aggregazione di indicatori multidimensionali di povertà. Se invece dovessimo concludere che non è vera né l’una né l’altra delle due ipotesi semplificative, allora tutta la complessità conseguente dovrebbe essere affrontata come tale. Per descrivere ed interpretare in vista dell’azione una data società sarebbe inevitabile una doppia multidimensionalità, quella dal lato individuale e quella dal lato collettivo, con connessi problemi di rilievo, e allo stato poco affrontati, che si pongono volendo giungere a misure e visioni semplici di immediata comprensione.

Questa problematica ha – naturalmente – una pronunciata dimensione empirica, ed è per questo che il nostro percorso di ricerca dedicherà molto spazio al reperimento, critica, ed elaborazione di dati. Si può immaginare, infatti, che sia largamente una questione empirica accertare se in specifiche circostanze di tempo e di luogo valga l’una o l’altra o la terza delle ipotesi appena indicate. Non è trascurabile, tuttavia, anche una questione di ordine teorico e metodologico. Anzi, dal momento che come si è detto il lavoro empirico in questo campo incontra non piccole difficoltà pratiche (la disponibilità e qualità dei dati, le loro possibili sistematiche distorsioni), occorre discutere esplicitamente gli orientamenti teorici e metodologici della ricerca che inevitabilmente influiranno sui risultati. Come spesso accade, ma come accadrà specialmente in questo nostro caso, i dati in quanto tali non saranno in grado di rispondere in modo completo ed esauriente alle nostre domande, e le risposte dovranno essere valutate anche alla luce delle posizioni teoriche e metodologiche che faremo nostre, la quali dunque saranno adeguatamente esplicitate.

Conviene, quindi, chiarire il problema centrale posto dal nesso povertà-criminalità nei termini di approccio individuale e/o collettivo alla valutazione del bene-essere di una società. Anche se il tema dovrà essere ripreso ed approfondito nell’ambito del percorso di ricerca, una posizione a questo riguardo deve essere assunta subito, magari in modo provvisorio. Essa infatti influirà sulle stesse letture da fare e sulla percezione circa i risultati delle ricerche già disponibili.

Si può partire dal recente libro di Amartya Sen, “Un’idea di giustizia”, che appare il più moderno e pertinente testo in ordine alla giustizia sociale e che richiede esplicitamente un approccio multidimensionale alla povertà (o al contrario alle “capacità”).

Contro l’individualismo metodologico

Che sia corretto considerare una società meno inclusiva più “povera” di una più inclusiva a parità di diffusione delle povertà individuali emerge in diversi luoghi del libro di Sen (2009), tutte le volte – e sono molte – che egli insiste sulla dimensione non solo individuale ma anche sociale delle capacità. Si potrebbe dire, sinteticamente, che il “dibattito pubblico aperto e documentato” al centro della sua idea procedurale di giustizia è da lui visto tanto più realizzabile quanto minore è la segregazione nella società (esclusione sociale), e quindi quanto minore è la concentrazione della deprivazione di capacità individuali. Per tale via la struttura sociale, apparentemente esclusa dalla prospettiva individuale delle capacità, può essere tenuta in conto praticamente. Vale la pena in proposito citare il passo in cui Sen difende esplicitamente l’approccio delle capacità dall’accusa di individualismo metodologico.

“Le capacità sono intese innanzitutto come attributi individuali, e non collettivi (relativi, per esempio, a una comunità). […] Nel concentrarsi sulle capacità dei singoli, qualche critico dell’approccio delle capacità ha scorto l’influsso maligno di quello che è stato definito – a non in termini di elogio – individualismo metodologico. Voglio perciò chiarire in via preliminare perché identificare l’approccio delle capacità con l’individualismo metodologico sarebbe un grave errore. Anche se quanto va sotto il nome di individualismo metodologico è stato definito in molti modi, Frances Steward e Séverine Deneulin pongono l’accento sulla convinzione che per ‘spiegare tutti i fenomeni sociali si debba fare riferimento a ciò che gli individui pensano, scelgono e fanno’. E non sono mancate scuole di pensiero concentrate sulle idee, le scelte e l’azione dei singoli, astratti dalla società di riferimento. L’approccio delle capacità non solo non fa sue queste astrazioni, ma la sua attenzione alla facoltà degli individui di vivere secondo lo stile di vita cui riconoscono valore chiama in causa l’influenza della società sia in riferimento ai valori (tra i quali può esservi, per esempio, quello di partecipare alla vita della comunità), sia in riferimento alle influenze che possono intervenire su tali valori (per esempio l’importanza delle riflessione pubblica nelle valutazioni dell’individuo).” (p. 253-254).

Questa considerazione sull’importanza della concentrazione della povertà (che potrebbe configurare gruppi esclusi, con proprie identità e valori, diversi da quelli del resto della società) potrebbe condurre a una maniera semplice di indagare e rappresentare il nesso tra povertà e criminalità ed in generale tra dimensione individuale e collettiva del bene-essere. Si potrebbe accertare se la criminalità abbia soprattutto effetti sulla povertà non in generale o per tutti i membri della società, ma specialmente a carico di alcuni gruppi. Se fosse così, gli indicatori multidimensionali aggregati tenendo conto della intera distribuzione dei vari aspetti di deprivazione (Bossert, Chakravarty, D’Ambrosio 2009), potrebbero ritenersi rappresentativi anche dell’effetto della criminalità. Una società più segregata sarebbe anche una società in cui è più forte la presenza delle attività illegali, e quindi più “povera” di un’altra anche a parità di indici multidimensionali somma.

Democrazia e dittatura

Questa via semplice però non appare del tutto coerente con i suggerimenti fondativi di Amartya Sen. Ci si potrebbe chiedere, infatti, quale dovrebbe essere il corretto indice di povertà di due società in cui sia uguale la deprivazione somma semplice e anche la sua concentrazione, ma sia invece diversa l’organizzazione pubblica. Intuitivamente andrebbe assegnato un indice di povertà più alto ad una società non democratica perché è molto difficile per i poveri far sentire la propria voce in un regime dittatoriale. Da questo punto di vista il libro di Sen contiene importanti e dettagliate giustificazioni che possono essere portate a sostegno di tale intuizione. Ad esse è dedicata anzi tutta la quarta parte, che conta quasi cento pagine, sotto il titolo “Riflessione pubblica e democrazia”, la quale inizia chiarendo, tra l’altro, come il concetto e la pratica di democrazia in quanto “governo attraverso il dibattito” non siano affatto peculiarità occidentali.

Contro “l’istituzionalismo trascendentale”

In quelle pagine si sottolinea tuttavia come sia fuorviante considerare democrazia e dittatura come assetti (strutture) facilmente individuabili sulla base della rilevazione di pochi elementi regolativi (essenzialmente un’offerta politica plurale ed elezioni). L’argomento di Sen, sul quale molto insiste, è che per il governo attraverso il dibattito conta sia la democrazia formale che quella sostanziale, e che quest’ultima può rilevarsi solo considerando una lunga serie di indicatori che riguardano le cose come sono, e non solo quei pochi che potrebbero servire a indicare le cose come dovrebbero essere.

“[…] l’idea che la democrazia debba essere concepita come governo per mezzo del dibattito, pure ampiamente accettata […] si scontra con quella parte del dibattito contemporaneo che concepisce la democrazia e il suo ruolo in una forma più datata, più rigidamente concentrata sull’organizzazione. La comprensione istituzionale della democrazia, quella che […] pone l’accento su urne ed elezioni, non è riscontrabile soltanto in un approccio tradizionale, ma è sostenuta anche da molti commentatori politici contemporanei […]. Spesso la storia della democrazia viene ancora oggi presentata in termini angustamente organizzativi e si concentra prevalentemente sui risvolti procedurali di votazioni ed elezioni. […] ma questo aspetto non è l’unico che conti e può essere ritenuto soltanto una parte – ancorché fondamentale – del modo in cui la ragione pubblica agisce all’interno di una società democratica. […] La difficoltà non risiede soltanto nella pressione politica esercitata quando si minaccia l’elettorato al momento del voto, ma anche negli ostacoli posti dalla censura all’espressione dell’opinione pubblica, nell’oscuramento dell’informazione e nel clima di paura, oltre che nella repressione degli oppositori politici e dei media indipendenti, nonché nell’assenza dei diritti civili fondamentali e delle libertà politiche.” (p. 332-333)

Ciò che deve essere soprattutto notato qui è che Sen applica alla questione della democrazia il rifiuto di un approccio puramente istituzionale almeno nel senso in cui le regole sono tutto e la prassi e i risultati non contano. E’ lo stesso rifiuto che connota l’intero libro fin dalle prime pagine, quando Sen indica “l’istituzionalismo trascendentale” come obiettivo polemico principale della sua opera osservando che:

“[…] il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi nella prospettiva più ampia e comprensiva […] necessariamente legata al mondo così come è fatto realmente, anziché solo alle istituzioni e alle regole date. […] Il fatto è che la teoria della giustizia come formulata dall’istituzionalismo trascendentale, oggi dominante, riduce molte delle più importanti questioni relative alla giustizia a vuota (anche se, s’intende, bene intenzionata) retorica.” (p. 35, 41).

Dal punto di vista pratico, degli indicatori, questo approccio comprensivo implica dunque una notevole difficoltà. Il fatto è che la distinzione, se anche potesse essere netta guardando alle leggi, non sarebbe affatto tale guardando al grado di democrazia (o di dittatura) che inevitabilmente emerge considerando le cose come sono. Per avere indicazioni corrette del grado di democrazia sarebbe necessario un intero insieme di indicatori capaci di rilevare

“gli ostacoli posti dalla censura all’espressione dell’opinione pubblica, l’oscuramento dell’informazione e il clima di paura, oltre che la repressione degli oppositori politici e dei media indipendenti, nonché l’assenza dei diritti civili fondamentali e delle libertà politiche.”

Il tale ambito, gli indicatori della criminalità dovrebbero dunque essere inseriti accanto ad altri.

La dimensione della criminalità, tuttavia, sembra avere uno statuto speciale, per così dire, nell’ambito di tali articolati indicatori del grado di democrazia.

Contro il “contrattualismo”

Per giungere a una considerazione di questo genere i suggerimenti vengono indirettamente ancora dal libro di Sen e si trovano specialmente ragionando a partire dalle considerazioni ampie e più volte riprese contro il “contrattualismo”. Il ragionamento non è immediato e percorre diverse tappe: contro il contrattualismo e quindi scoperta di un ambito almeno parzialmente autonomo del potere, autonomia che configura un’organizzazione del potere oligarchico anche in democrazia, da cui discende una tensione tra inclusività della democrazia ed esclusività del potere, da cui nascono possibili derive anarchica e dittatoriale, ed in questo quadro la criminalità come leva determinante di degenerazione della democrazia in entrambe le due direzioni.

Cominciamo dunque considerando le affermazioni di Sen contro il contrattualismo.

“Non ci sono dubbi che, per comprendere le società ed i loro successi e fallimenti, sia di notevole aiuto l’idea di una cooperazione sociale – e, per il suo tramite, di una moralità sociale e di una vita politica – improntata al calcolo e basata, in ultima istanza, sul mutuo beneficio. La tradizione contrattualista ha fatto molto per spiegare e sviluppare la visione della cooperazione sociale fondata non tanto su presupposti etici, ma piuttosto su accordi di natura istituzionale. […] Nelle mani di Rawls, e prima ancora in quelle di Kant, questa prospettiva si è peraltro notevolmente arricchita rispetto alla più semplice – ma altamente esplicativa – analisi della cooperazione proposta per la prima volta da Thomas Hobbes in termini di mero calcolo prudenziale. […] E tuttavia, anche nella teoria rawlsiana resta centrale (sebbene prospettato in forma sofisticata) l’accento sul vantaggio individuale, e in particolare su quello reciproco, in linea con l’intera scuola di pensiero contrattualista. […] rimane [però] aperta la questione se la ricerca del tornaconto – sia essa condotta in forma diretta o indiretta – rappresenti l’unica base solida di una condotta sociale ragionevole. […] Come esempio contrario mi si consenta di prendere in considerazione una strategia concettuale alternativa, secondo la quale se qualcuno ha il potere di attuare una modifica in grado di ridurre l’ingiustizia presente nel mondo, ci sono forti ragioni sociali per procedere senz’altro in tal senso (senza che sia tenuto a legittimare la sua iniziativa con i benefici connessi con un’eventuale cooperazione). Sul piano elementare delle giustificazioni motivazionali, gli obblighi di potere effettivo sono indipendenti dal reciproco obbligo alla cooperazione.” (p. 214, 216).

Quest’ultima affermazione (gli obblighi di potere effettivo sono indipendenti dal reciproco obbligo alla cooperazione) è cruciale. Essa indica, nel modo più chiaro anche se sintetico, che per Sen il “contratto sociale” non basta a dar conto del funzionamento di una società. Ad esso si affianca inevitabilmente l’esercizio del potere, e non come semplice delega che discende dal contratto sociale stesso, ma come genuinamente autonoma sfera di volontà ed attività.

Se ora si torna alla questione della democrazia tenendo presente questo doppio principio di regolazione sociale (contratto e potere), si arriva agevolmente a comprendere perché si possa solo parlare di grado di democrazia (e non di democrazia si o no). Anche nel regime democratico valgono contratto e potere insieme e quindi è normalmente possibile (anzi inevitabile) che accada quello che Gustavo Zagrebelsky (2010) ha recentemente sottolineato, ovvero che in democrazia funzionano normalmente di fatto sistemi organizzativi del potere oligarchici, con l’importante aggiunta che essi sono (più o meno) contendibili. Ed essi si configurano come tali, cioè oligarchici, proprio perché il potere è in parte autonomo dal contratto sociale. Perché, in sostanza, le esigenze organizzative dell’ordine sociale comportano che l’esercizio responsabile del potere non possa essere condiviso da tutti “orizzontalmente” richiedendo per forza una qualche dimensione “verticale” e ristretta.

Il potere e la criminalità

Si può ora compiere un ulteriore passo avanti in questo ragionamento concatenato. Se il contratto non basta e occorre inevitabilmente considerare anche l’esercizio (autonomo) del potere, se esso si configura come potere oligarchico anche in democrazia, e questo non per un difetto o per un’aberrazione, ma al contrario proprio perché possa esercitarsi responsabilmente, allora occorre calare, per così dire, il dibattito aperto e documentato di Sen in questo contesto. Si deve così concludere che si stabilirà una continua sistematica tensione tra l’inclusività di tale processo (dibattito aperto e documentato) e l’esclusività tendenziale del potere, peraltro funzionale a mantenere (organizzare) tale processo inclusivo. Si vede allora che nei fatti questa tensione potrà dare luogo anche a due patologie, o verso il dibattito inconcludente o verso un potere prevaricante.

A questo punto l’osservazione interessante è che la criminalità agisce in entrambe queste due direzioni, anarchica e dittatoriale. Anarchica perché disarticola l’ordine sociale, ma anche dittatoriale attraverso lo stesso potere pubblico asservito o infiltrato. In sostanza, si potrebbe ritenere che la criminalità sia l’ostacolo centrale alla democrazia deliberativa e all’idea procedurale di giustizia[2].

Si potrebbe inoltre aggiungere che la criminalità costituisce questo ostacolo principale perché essa sequestra con la forza a proprio privato esclusivo vantaggio l’energia centrale del sistema democratico che, secondo quanto sottolineano per esempio Zagrebelsky (2007) e Crouch (2009), sta proprio in quella continua tensione che è in sé positiva. In fondo la democrazia vive non come partecipazione universale ideale e pacifica, ma come contestazione del potere stabilito (lato anarchico) soprattutto ad opera di minoranze e movimenti, ma anche come organizzazione del potere legittimata dalla maggioranza e dai “poteri forti” (lato dittatoriale).

3. Fasi successive della ricerca

Nei prossimi mesi la ricerca procederà secondo il seguente programma di massima

  1. Pubblicazione di questo primo rapporto di ricerca sul “Menabò” di Etica e Economia e sua trasmissione alla sede organizzativa di “Verso Itaca”.
  2. Approfondimento sulla letteratura nazionale ed internazionale di interesse.
  3. Prima analisi empirica utilizzando la base dati EU_SILC con lo scopo di esplorare la significatività statistica di coefficienti di regressione per la variabile “grado di criminalità dell’area” in equazioni cross-sezionali con variabile dipendente reddito individuale e numerose altre variabili indipendenti e di controllo.
  4. Prossima riunione del Laboratorio il 4 febbraio 2011 ore 9.30 Via Panaro 14 Roma, e redazione di un secondo rapporto di ricerca da pubblicare sul “Menabò” di Etica e Economia e trasmettere alla sede organizzativa di “Verso Itaca”.
  5. Riunioni in seguito periodiche del Laboratorio (circa ogni mese e mezzo).

Considerazioni finali 

Queste successive fasi della ricerca saranno impostate tenendo conto di quanto si è detto in questo primo rapporto da cui sembra emergere che le due prospettive, delle capacità individuali (o della povertà) e delle capacità collettive o esplicitamente della criminalità, andrebbero considerate entrambe perfino quando vi siano segni concreti che l’una potrebbe comprendere l’altra. Tornando in conclusione agli indicatori, l’obiettivo potrebbe essere quello di chiarire in primo luogo la questione dei nessi tra povertà e criminalità e poi di giungere all’esplorazione di tipologie di realtà sociali (paesi, regioni) secondo modelli più o meno articolati ma nello spirito del seguente schema molto semplificato che presuppone la costruzione di indici sia in relazione alla povertà che alla criminalità/legalità.

 

  Criminalità Elevata Ridotta
Povertà      
Ampia e concentrata      
Ridotta e distribuita      

 

RIFERIMENTI 

Alkire, S., J. Foster (2009). Counting and Multidimensional Poverty Measurement. OPHI Working Paper NO. 32.

Bossert, W., S.R. Chakravarty, C. D’Ambrosio (2009). Measuring Multidimensional Poverty: the Generalized Counting Approach. Centre interuniversitaire de recherche en économie quantitative, CIREQ, Cahiers de recherche, 12-2009.

Crouch, C. (2009). Postdemocrazia. Laterza, Bari.

Ingroia A. (2010). Nel labirinto degli dei – Storie di mafia e di antimafia. Il Saggiatore, Milano.

Sen, A. (2009). L’idea di giustizia. Mondadori, Milano.

Zagrebelsky G. (2007). Imparare la democrazia. Einaudi, Torino.

Zagrebelsky G. (2010). La difficile democrazia. Lezioni e letture della Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, Firenze University Press.


[1] Usiamo questo termine, come è usato da Sen (2009), per intendere qualcosa di più comprensivo e più ampio di quanto è normalmente indicato con benessere.

[2] Si veda in proposito il recente libro di Antonio Ingroia (2010), in cui emergono con chiarezza le due linee dell’azione criminale organizzata, e anche – con grande efficacia – il racconto delle modalità di azione delle istituzioni della legalità, che non applicano semplicemente le norme, ma con la capacità (o incapacità) di uomini in carne e ossa, con il coraggio o i loro tradimenti, la loro volontà o la loro ignavia, costituiscono il vero corpo istituzionale attivo o inattivo, da cui dipende anche la definizione delle norme che, a ben vedere, seguono e non anticipano logicamente e spesso anche temporalmente tale azione.

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