Post-verità o post-politica? Dalla parola dell’anno all’uomo dell’anno

Antonio Nicita dedica il Contrappunto alla post-verità. Dopo aver definito il termine, Nicita sostiene che, come dimostrano le elezioni americane, la post-verità è fortemente legata alle emozioni suscitate attraverso offending speech e discorsi denigratori se non proprio d’odio (hatespeech). L’implicazione, secondo Nicita, è che il contesto regolatorio di riferimento potrebbe essere quello dell’hatespeech già tracciato nel protocollo sul Cybercrime Treaty, e non quello più rischioso della regolazione delle false notizie.

Da tempo la prestigiosa Oxford Dictionaries proclama la “parola dell’anno”. Quest’anno la scelta, resa nota a dicembre, è caduta su post-truth (post-verità). Questa parola, secondo la definizione che ne è stata data, indica “ circostanze nelle quali i fatti obiettivi sono meno rilevanti, nel formare l’opinione pubblica, rispetto al richiamo di emozioni e convinzioni personali”.

La parola dell’anno viene scelta da un comitato di esperti tra 150 milioni di parole e non è tanto un neologismo, quanto la parola più utilizzata da giornali quotidiani, libri, blog e trascrizioni di conversazioni e interventi pubblici. Negli ultimi anni, lo sviluppo dell’economia digitale e dell’espressione in Rete ha influenzato in via crescente la selezione della parola dell’anno: recenti vincitrici sono state selfie e persino una non-parola, l’emoticon.

Ma, oltre all’influenza della Rete, c’è un altro fenomeno sociale che sembra aver acquisito rilevanza nel 2016. Se, infatti, guardiamo alle nove parole finaliste, troviamo accanto a chatbot, (un programma per il computer che simula una conversazione con utenti umani, specialmente in Internet) anche woke e alt-right., entrambi difficili da tradurre, con un solo termine, in italiano. Il primo vocabolo, legato al verbo wake – svegliarsi ma anche allarmarsi – rimanda all’allarme per una situazione emergente di ingiustizia sociale, spesso dai connotati razzisti. Il secondo, alt-right, descrive gruppi con ideologia di estrema destra e reazionaria, che rigettano la cosiddetta mainstream politics e utilizzano Internet come deliberata strategia di diffusione di contenuti controversi, estremisti e divisivi.

Queste parole finaliste hanno, dunque, stretti legami con post-verità, e ci aiutano a comprendere la sua diffusione. Infatti, essi forniscono una fotografia più larga di ciò di cui si è più parlato nell’agorà digitale lo scorso anno: centralità della Rete, dialogo degli utenti con utenti artificiali, allarme per ingiustizie dai connotati razzisti, diffusione di gruppi estremisti della destra reazionaria, attraverso precise strategie di comunicazione in Rete.

Nella pagina web dell’Oxford Dictionaries viene riportato un grafico che mostra a partire dalla seconda metà di maggio del 2016 un’impennata dell’uso del termine post-verità. Il 25 maggio accade che Donald Trump supera la soglia dei 1.237 delegati (sul totale dei 2.472 che prenderanno poi parte alla formale incoronazione alla convention di Cleveland). Le primarie non sono ancora finite, ma quel giorno di fine maggio, diviene certo che il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti sarà lui e la sua campagna può rivolgersi, selettivamente, ad un solo ‘nemico’, Hillary Clinton.Sappiamo com’è andata. Trump diventa Presidente e, per il Time, è lui l’uomo dell’anno.

C’è un destino comune che lega l’uomo dell’anno alla parola dell’anno. Alison Flood, del Guardian, nel commentare la parola dell’anno, afferma esplicitamente che “la diffusione del termine post-verità è da attribuire in parte alla nomina presidenziale di Trump”. Amy Wang, sul Washington Post, scrive “è ufficiale, la verità è morta e i fatti sono fuori moda”. E nel lungo articolo, parla diffusamente dei “Pinocchio ratings” assegnati a Trump dalla fact checker Michelle Ye Hee Lee. Secondo Alexandra Gibb della CNBC, “’Post-truth’ è la parola dell’anno grazie alla Brexit e alla campagna di Trump”.

Welcome to the post-truth Presidency”, scrive a dicembre del 2016 Ruth Marcus, sempre sul Washington Post. Ma già a settembre, l’Economist legava Trump al concetto di post-verità, descrivendo Trump “come uno dei prominenti professionisti della post-truth politics” ed evidenziando come all’allora candidato sembrasse “non interessare se le sue parole avessero una qualche relazione con la realtà, almeno fintanto che esse riuscissero a infiammare i suoi elettori”.

William Davis, del New York Times, ha ricordato che secondo “PolitiFact circa il 70% delle affermazioni fattuali di Donald Trump ricadono nelle categorie ‘mostly false’ e ‘false’.

Secondo una survey del Pew Center, nelle ultime elezioni presidenziali americane, il 62% degli adulti si è informato on-line, ma quasi esclusivamente attraverso i social network. In una recente analisi su BuzzFeedNews, Craig Silverman mostra che le notizie false più popolari sono state condivise su un social network (Facebook), che gran parte di coloro che hanno letto notizie false, nelle ultime elezioni americane, hanno dichiarato di averle ritenute vere e che la maggior parte delle notizie false erano pro-Trump.

In un paper NBER di qualche settimana fa, Allcott e Gentzkow, riportano i risultati di una survey secondo cui coloro che hanno creduto alle fake news nella campagna elettorale sono circa il 50%. Tuttavia, Allcott e Gentzkow ritengono che l’influenza delle fake news sia stata importante ma non dominante; a loro parere, per considerare determinanti le fake news occorrerebbe attribuire a ciascuna di esse il potere persuasivo di 36 spot elettorali in tv.

L’Economist dopo avere ricordato che i politici mentono sempre, si è chiesto: “cosa accadrà della verità se i politici finiranno per sbarazzarsene del tutto”?

E’ una buona domanda che, però, guarda solo a una metà del problema. Nelle bugie, persino in quelle dei politici, non c’è nulla di nuovo; la novità sta nel fatto che il rischio di sbarazzarsi della verità non riguarda solo i politici, ma coloro che li ascoltano e che esprimono loro consenso.

La diffusione del termine post-verità, in associazione alle elezioni americane, appare fortemente legata alle emozioni suscitate attraverso offending speech. I discorsi qualificati come espressione di post-verità sono assai spesso denigratori se non veri e propri discorsi d’odio (hatespeech).

Non a caso, nel raccontare la campagna di Trump come epifenomeno della post-verità, molti osservatori hanno insistito sui messaggi di discriminazione e di odio veicolati agli elettori.

Ad esempio, a novembre del 2016, Steven Rosenbaum, su Forbes, a proposito delle elezioni presidenziali americane commentava: “Il free speech ha cambiato forma in hateful speech. Parole vili, rabbiose, minacciose, razziste, misogine sono state usate come armi da fuoco da far esplodere contro gli avversari politici. E grazie al notevole potere di Internet, gran parte di queste parole-arma sono state esplose da sicari anonimi”.

Su Time, Akash Goel e Andrew Goldstein scrivevano che “la retorica che ha caratterizzato la campagna elettorale di Trump, è stata letteralmente piena di odio, misoginia, xenofobia e razzismo”. L’epidemiologia dell’odio di Trump, l’hanno definita.

Dunque non soltanto le bugie, le bufale, le solite-vecchie-menzogne-dei-politici. Ma discorsi d’odio, divisivi, laceranti, offensivi, denigratori.

Ralph Keyes, nel suo libro del 2004 The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life, scriveva che nell’era della post-verità non abbiamo più verità e bugie ma una terza categoria di affermazioni ambigue che non sono la verità, ma nemmeno del tutto bugie.

La definizione di Keyes della post-verità va tuttavia ulteriormente indagata rispetto alla natura dell’emozione di chi parla o scrive e di ascolta o legge. Come diceva Michel de Montaigne, “la parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che l’ascolta”. Dunque, perché la post-verità diventi un paradigma, la parola dell’anno, occorre che essa sia associata ad un fenomeno sociale e non soltanto ad un attributo di chi parla o alla mera attitudine alla menzogna di un politico, per quanto influente e per quanto candidato ad essere uno degli uomini più importanti del pianeta.

Se dal lato dell’offerta – dal lato di chi parla – si nasconde spesso una precisa strategia di ingannevolezza (deception), dal lato della domanda la post-verità non cade nel vuoto ma deve trovare un terreno già fertile di condivisione, di attesa o di disponibilità alla credulità. Alla post-verità, in altre parole, deve essere sottesa una relazione di complicità, di emozione e di reciprocità, tra chi, di volta in volta, parla o ascolta.

Per questo la Rete, regno del peer to peer, sembra esser diventata anche l’ambiente privilegiato della manifestazione della post-verità. Non sarebbe la parola dell’anno se non l’avesse scelta il web. La Rete non seleziona contenuti, non si cura di controllo redazionale, non offre fact-checking. E’ l’utente che deve attivarsi per valutare e controllare l’attendibilità di ciò che legge. Ma allora il destino della verità in Rete dipende dall’ascolto. Infatti, come ha scritto Sunstein nel libro Republic.com 2.0, la Rete riduce i costi di transazione nella ricerca di ciò che ci interessa, ma proprio per questo finisce per far incontrare i simili e per trasformarsi in uno specchio che alimenta e rafforza le polarizzazioni: s’incontra in Rete la verità che già si conosce, e si riducono le occasioni di confronto con ciò che non si conosce o che non ci somiglia. La Rete, infatti, favorisce scambi tra gruppi – specie sui social network – e i discorsi tra gruppi, come dimostra un’ampia letteratura citata da Sunstein, tendono a polarizzare le opinioni e gli estremismi.

Il punto è, dunque, chiedersi se il successo della post-verità altro non sia che la conseguenza di una strategia di polarizzazione politica e di hate speech. La risposta a questa domanda è rilevante anche per il governo del mercato delle idee. Perché se nessun paese ha finora introdotto normative contro la post-verità o le bufale (a meno che esse non ricadano nei casi tipici di diffamazione o calunnia), molti passi avanti sono stati fatti – con l’eccezione degli Stati Uniti – nel disciplinare l’hatespeech.

Se, quindi, l’aspetto emozionale dell’hatespeech rappresentasse l’elemento costitutivo della post-verità anche il dibattito sulle regole di protezione e sui limiti della libertà di espressione ne sarebbe interessato. Non si tratterebbe quindi di disciplinare o sanzionare le notizie false ma di fare passi avanti nella disciplina sull’hatespeech. Lo strumento giuridico a livello internazionale è la Convenzione di Budapest sul Cybercrime del Consiglio d’Europa, entrata in vigore nel 2004 e ratificata dall’Italia nel 2008. Il Protocollo aggiuntivo che il Consiglio d’Europa ha adottato nel 2003 definisce l’hatespeech come “ qualsivoglia testo scritto, immagine o altra rappresentazione di idee o teorie che sostiene, promuove o incita all’odio, alla discriminazione o alla violenza contro qualsivoglia individuo o gruppo di individui sulla base della razza, del colore e delle origini etniche, nazionali o familiari, così come della religione se usata come pretesto per uno di questi fattori”. L’Italia ha firmato il Protocollo nel 2011 e il 17 marzo 2015 ha approvato un ddl per la sua ratifica. Quella è la sede per affrontare il tema di false notizie la cui finalità è quella di propagandare discorsi d’odio.

Il legame tra parola dell’anno e (la campagna dell’) uomo dell’anno forse ci dice qualcosa di più sulla post-truth della definizione proposta dagli Oxford Dictionaries. Non solo che i fatti obiettivi sono meno rilevanti nel formare l’opinione pubblica rispetto al richiamo a emozioni e convinzioni personali. Ma che il richiamo ha natura offensiva e discriminatoria ed è al contempo espressamente diretto a emozioni e convinzioni personali divisive, polarizzate, estreme.

Forse, allora, se post-verità è diventata parola dell’anno è anche perché il superamento della verità è il miglior alleato per coltivare liberamente fighting words e discorsi d’odio.

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