Possiamo fidarci della Finanza Sociale?

Elisabetta Magnani riflette sulla Finanza Sociale che è in rapidissima crescita soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. Dopo aver ricollegato il suo sviluppo al progressivo abbandono dell’idea di un welfare state che sia effettivamente in grado di rispondere alle grandi domande sociali ed economiche dei nostri tempi, Magnani valuta criticamente il ruolo della Finanza Sociale, i suoi strumenti e le sue prospettive, anche alla luce delle origini storiche dei problemi che essa dovrebbe risolvere.

La finanza ha fatto poco per evitare alcuni dei problemi più seri del nostro tempo e, anzi, ha contribuito al loro manifestarsi; basti pensare alle crisi che ha determinato e al contributo che ha dato all’aggravarsi delle disuguaglianze. Ma ora essa sembra avere una possibilità per riscattarsi, per mostrare la propria utilità. Questa possibilità è la cosiddetta Finanza Sociale.

La Finanza Sociale è un nuovo settore della finanza internazionale venuto alla ribalta dopo la crisi finanziaria globale (GFC) (Hangl, Journal of Finance and Risk Perspectives, 2014). Concepita come un insieme complesso di iniziative volte all’utilizzo del capitale privato, incluso quello filantropico, spesso in combinazione con il capitale pubblico, la Finanza Sociale ha lo scopo di soddisfare bisogni sociali in cambio di un rendimento finanziario positivo (Fetherston, 2014)

La stima delle dimensioni della Finanza Sociale è resa difficile dal fatto che ancora c’è disaccordo su ciò che essa è nonché dalla mancanza di informazioni dettagliate e di misure standardizzate dei diversi sotto-settori che la compongono, anche perché gli strumenti di analisi non tengono il passo con la rapida evoluzione del settore. Sembra tuttavia certo che i tassi di crescita della Finanza Sociale meritino attenzione, come ha illustrato di recente la Initiative for Responsible Investment.

Gli strumenti della Finanza Sociale sono l’impact investing, i bond etici e i bond ad impatto sociale, il social venture capital, il microcredito e la microfinanza, il crowdfunding, la collaborazione con le fondazioni comunitarie e la filantropia. I meno noti sono forse i bond ad impatto sociale, gli impact investments e il social venture capital. I primi consistono in un contratto tra un ente del settore pubblico e un agente non-governativo che stabilisce una ricompensa monetaria a quest’ultimo a fronte di risultati sociali misurabili spesso in termini di risparmio del settore pubblico. Gli impact investments sono investimenti effettuati da imprese, organizzazioni o fondi di investimento con lo scopo di conseguire non soltanto un rendimento finanziario positivo ma anche un favorevole impatto sull’ambiente e sulla società; infine, per social venture capital si intende tipicamente l’investimento di fondi in una impresa che ha fini sociali in cambio di un minimo rendimento finanziario.

L’operatore tipico della Finanza Sociale svolge, in realtà, numerose attività. Le principali sono: motivare, disegnare, sviluppare modalità di partecipazione e collaborazione; raccogliere dati, monitorare e comparare lo sviluppo dei vari settori di mercato; incoraggiare e incentivare stakeholders; ampliare l’intervento di attori istituzionali, assicurare la presenza di investitori tradizionali, sviluppare complementarietà tra mercati.

Come ha brillantemente affermato Fetherston, la Finanza Sociale offre l’opportunità di “fare bene facendo del bene”. Tuttavia, non si può dimenticare che coloro che operano nella Finanza Sociale raramente hanno come primo obiettivo di fare del bene. Infatti, secondo un’attendibile valutazione, il 75% di essi mira fondamentalmente alla riduzione del rischio del proprio portafoglio finanziario (Starr, 2012). Il perseguimento della minimizzazione del rischio spesso coinvolge alcuni strumenti della Finanza Sociale, per esempio i bond ad impatto sociale perché questi strumenti finanziari sono immuni dal rischio di mercato; su di essi grava il rischio di rischio di bancarotta o di inflazione non quello derivante dalle fluttuazioni del mercato.

Si sottolinea spesso come la Finanza Sociale risponda ad esigenze profonde sia del settore pubblico sia di quello privato. In presenza di governi con vincoli di bilancio stringenti e con entrate tributarie ancora limitate dagli effetti della crisi finanziaria recente, la Finanza Sociale offre forme alternative di sostegno ai bisogni primari delle famiglie: dalla casa, all’istruzione, all’assistenza e cura degli anziani. E può essere di aiuto anche di fronte all’immigrazione.

Tuttavia ciò non deve far dimenticare in quale contesto siano sorti i bisogni a cui la Finanza Sociale offrirà risposta soltanto alcuni decenni dopo. Per rintracciare quel contesto bisogna tonare agli anni Ottanta quando, in molti paesi industrializzati, la struttura salariale ha iniziato a modificarsi a svantaggio di intere fasce di lavoratori, in particolare quelli con abilità e competenze limitate, i cosiddetti unskilled.

Mentre complessi fenomeni di de-industrializzazione interessavano intere regioni degli Stati Uniti e dell’Europa, i salari dei decili più bassi della distribuzione salariale perdevano quota, fino al punto di non poter più garantire alle famiglie dei loro percettori l’accesso a beni e servizi essenziali (appunto la casa, la salute, l’istruzione dei figli ecc…). Per effetto di queste dinamiche, in alcuni paesi i salari dei lavoratori più “deboli” sono talvolta scesi al di sotto dei sussidi e delle altre forma di assistenza sociale che, in quegli anni, ancora raggiungevano livelli elevati in diversi paesi dell’occidente (Magdoff e Foster, Monthly Review, 2014). Ad esempio, negli Stati Uniti al crollo dei salari reali ha fatto seguito il declino dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro da parte di molti lavoratori unskilled, e i problemi sociali inerenti la casa, l’istruzione dei figli, la cura degli anziani per queste classi sociali si sono fatti gravissimi. Non è dunque un caso che la domanda pubblica di assistenza e previdenza sociale negli anni ’80 – e nei successivi – abbia continuato a crescere.

Dunque, l’emergere della Finanza Sociale si spiega più che con la Global Financial Crisis con eventi di alcuni decenni precedenti e che, in fondo, si ricollegano al trasferimento di reddito dai salari ai profitti. Tenendo presente questo sfondo possiamo porci alcune domande di grande importanza: si può equiparare la fornitura di essenziali servizi pubblici, quale l’assistenza agli immigrati, da parte della Finanza Sociale a quella dei mercati? L’operato della Finanza Sociale può essere assimilato a quello del settore pubblico o, almeno, può integrarsi con esso?

Per rispondere alla prima domanda, mi rifaccio a Steven Lydenberg, il fondatore e direttore della Initiative for Responsible Development presso la Harvard University. Secondo Lydenberg la Finanza Sociale nasce dalla constatazione che il laissez faire di tipo liberista non assicura il raggiungimento del bene comune. Così, se è indiscutibile che la Finanza Sociale opera in modo simile a quello della Finanza tout court –per esempio non fa che applicare algoritmi massimizzanti a bisogni primari – è anche vero che essa emerge dopo i chiari e riconosciti fallimenti dei mercati nel corso degli anni Settanta.

Riguardo alla questione dei rapporti tra Finanza Sociale ed offerta di beni e servizi pubblici essenziali attraverso il sistema di welfare, è bene sottolineare che per i sostenitori della Finanza Sociale il tempo del welfare è finito: il capitale pubblico può e deve contribuire ai progetti finanziati attraverso la Finanza Sociale, ma non si tratta di realizzare un sistema nel quale lo stato individua i bisogni a cui i progetti della Finanza Sociale dovranno rispondere. Dopotutto la Finanza Sociale deriva da modelli neo-liberisti nei quali c’è poco spazio per tradizionali politiche di assistenza e previdenza sociale.

Per alcuni (ad esempio, Ansart e Monvoisin in Research in International Business and Finance, 2016) la Finanza Sociale rappresenta la vittoria di un approccio dal “basso” che è in grado di porre rimedio alle conseguenze nefaste di un sistema finanziario fallimentare e destabilizzante attraverso il coinvolgimento di intere comunità invece che delle sole istituzioni governative. Per costoro, la finanziarizzazione dell’assistenza e previdenza sociale, che la Finanza Sociale rende possibile, non è che un modo attraverso cui la Finanza è finalmente in grado di porsi al servizio del lavoro.

A me pare che con la Finanza Sociale si cerchi di dare risposta a problemi di tipo sociale e politico che, in realtà, poco hanno a che fare con la finanza. Per illustrare questo punto è sufficiente soffermarsi sull’apparente circolo vizioso delle affermazioni che sorreggono simili tentativi. Sono esattamente i ceti sociali (i poveri, gli unskilled, i migranti) marginalizzati dal sistema produttivo in un contesto di finanziarizzazione delle nostre economie, che, attraverso la Finanza Sociale, assumono un ruolo centrale nel mobilitare quelle ricchezze spropositate che i profitti finanziari hanno prodotto dagli anni Settanta in poi. Coinvolgendo gli elementi al margine del sistema capitalistico la Finanza Sociale, in fondo, non fa che riprodurre in un mondo finanziarizzato ciò che altri agenti/strumenti hanno fatto in altri contesti; in altre parole, il fatto che un sistema capitalistico utilizzi elementi ai suoi margini (che siano i poveri, gli anziani, i migranti, come nel caso della Finanza Sociale, o le terre marginali come nel caso dei modelli di sviluppo illustrati da Harvey in The New Imperialism, Oxford University Press, 2005), per sostenere una nuova fase d’accumulazione, getta qualche dubbio sul carattere di “novità” della Finanza Sociale.

Se la Finanza Sociale non è in nuce che un ramo della finanza tradizionale adattata ai bisogni che il sistema capitalistico è endogenamente incapace di soddisfare, è lecito porsi altre domande. Perché, come di recente si è chiesto Martin (2013) la Finanza Sociale nasce proprio dopo la GFC e la crisi di fiducia nel capitalismo che ne è derivata? In modo indiretto ma estremamente puntuale, questa domanda fa eco a quella che il filosofo e sociologo tedesco Niklas Luhmann pose nel 1982 nel suo “Trust and power”: in che modo si può rifondare la fiducia in un sistema che non dipende se non in minima parte dall’iniziativa individuale? Può una fetta di finanza, quella definita Sociale, rifondare questa fiducia nei mercati?

Di fatto, secondo Fetherston (2014) la Finanza Sociale ha operato con successo in questa zona indistinta di fiducia e sfiducia nel sistema, dove il bisogno di ri-legittimazione dell’alta Finanza si interseca con i bisogni dei ceti, sempre più numerosi, ai margini del sistema. Secondo Seabrook (in New Political Economy, 2007) la Finanza Sociale vuole restituire credibilità a quegli agenti, a quelle forze e istituzioni che inseriscono i principi della finanza sociale ai margini dei loro algoritmi massimizzanti.

Se la logica del tasso di rendimento, della differenziazione del rischio e del massimo profitto dominano anche la Finanza Sociale, è lecito porsi tutta una serie di domande che hanno comunque una radice comune: può davvero la Finanza Sociale contribuire a ricollocare i problemi del lavoro e delle famiglie al centro della finanza e dell’azione pubblica? O, piuttosto, quello a cui assisteremo con lo sviluppo della Finanza Sociale è l’assoggettamento di questi bisogni al potere finanziario?

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