Pomigliano e lo sciopero generale

Ci sono delle questioni che loro malgrado segnano i percorsi di un Paese e fanno la storia. In questo senso l’accordo separato della Fiat con tutte le sigle sindacali tranne la Fiom nello stabilimento di Pomigliano assume un rilievo simbolico.

 

La marcia dei 40mila a Torino, con i colletti bianchi contro gli operai e la maggioranza silenziosa dei cittadini della città più avanzata del capitalismo italiano dietro, aveva segnato un’inversione di tendenza. Era stato fermato il crescente potere della classe operaia che aveva imposto dopo il ’68 i consigli di fabbrica e la scala mobile; e si preparava il terreno per il rilancio del mondo imprenditoriale. Ma il sindaco di Torino era un comunista, mentre dal punto strettamente contrattuale il risultato delle lotte dei lavoratori Fiat del 1980 non fu integralmente negativo e riuscì a salvaguardare molti posti di lavoro e mantenere elevati livelli salariali.

 

L’accordo di Pomigliano, una volta affermatosi nel corso degli ultimi trenta anni il dominio del pensiero aziendale sia nella politica che nel mondo della cultura, una volta resi imbelli e collaborativi la sinistra politica e il sindacato, rappresenta un salto di qualità e la chiusura di un ciclo. L’accordo di Pomigliano che prevede maggiore flessibilità negli orari di lavoro e riduzione delle pause lavorative, rinuncia a diritti costituzionalmente garantiti e delega all’azienda a decidere della legittimità di uno sciopero, significa che la globalizzazione ha fatto il suo corso e che le aziende non hanno più bisogno di fuggire lontano alla ricerca di mercati del lavoro più favorevoli. Esse possono invece direttamente smantellare i contratti nazionali e allineare al ribasso le condizioni di lavoro in tutti i Paesi, magari facendo appello a normative tecnocratiche internazionali tipo il “World Class Manufacturing”. E questo vorrà dire che si parlerà sempre di meno delle condizioni di vita materiali del lavoratore, di quanto egli si realizza nel lavoro come essere umano, delle possibilità di crescita che vi sono nell’atto lavorativo, ma solo delle differenze tra il suo costo e quello di altri lavoratori in zone le più diverse del mondo. Il ricatto di Pomigliano è quello che smaschera il lato oscuro della globalizzazione anche per chi non l’aveva capito già a Genova.

 

1980-2010: i trenta anni in cui sono stati demoliti i movimenti dei lavoratori, resi complici delle logiche aziendali, e annichilito il pensiero della sinistra nella logica della rincorsa alla competitività. Ma speriamo anche quelli in cui sta maturando un pensiero alternativo a quello della globalizzazione.

 

Se questa è la portata della sfida di Pomigliano non se ne esce solo con lo sciopero generale del 25 giugno e men che meno con dichiarazioni confuse. Continuano infatti a susseguirsi scioperi generali su questioni anche politiche che però non incidono sui rapporti di forza nei luoghi di lavoro, in costante peggioramento sia nel pubblico che nel privato. Se ne uscirà solo con un lavoro intellettuale in grado di scoprire le forme nuove che ha assunto il capitalismo e lo sfruttamento, portare alla luce gli errori del sindacato, e con un ritorno nei luoghi di lavoro che susciti nuove solidarietà e inventi nuove forme di lotta insieme a chi lavora.

 

Proprio per questo Pomigliano può diventare sia un simbolo di resa definitiva che un simbolo di riscossa, come dimostrano le percentuali incoraggianti dei no all’accordo. Proprio per questo lo sciopero generale può essere solo l’avvio di una riflessione sugli errori precedenti e non va considerato come il momento conclusivo di una lotta. Già nel 1955 la Cgil si era trovata minoritaria e isolata a Mirafiori nel centro del capitalismo italiano. Se la classe dirigente sindacale e politica di allora si fosse semplicemente abbandonata allo scoramento accettando ogni forma di arretramento delle condizioni del lavoro, invece di cogliere l’occasione per riflettere sui propri errori e rilanciare una battaglia sul lavoro, oggi la Cgil come la conosciamo forse non ci sarebbe nemmeno.

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