Politiche attive del lavoro per vite e territori ai margini: alcune proposte a partire dal Reddito di Cittadinanza

Maristella Cacciapaglia partendo dalla considerazione che il Reddito di Cittadinanza è stato deludente come politica attiva del lavoro, sostiene che soprattutto nei territori ai margini quella politica, anche considerando la centralità della transizione ecologica, può avere ricadute importanti per il benessere individuale e collettivo. Occorre, però, riconsiderarla in un quadro di connessioni locali plurime e contestare gli “stereotipi che ingombrano le politiche” coinvolgendo i beneficiari liberamente e non solamente attraverso il mercato.

È ormai noto, non proprio con stupore, come il Reddito di Cittadinanza si stia rivelando alquanto complesso, se non fallimentare, come politica attiva del lavoro. Questo è tanto più vero nei territori ai margini, dove i Patti per il Lavoro difficilmente sfociano in offerte di lavoro dignitoso per i propri beneficiari e dove, anzi, molti beneficiari sono stati al massimo convocati una volta sola presso il Centro per l’Impiego.

Per esempio, a Taranto, il Centro per l’Impiego è situato all’interno di un condominio che non è lontano da un vivaio, abbandonato anche all’uso di droghe. Le condizioni igienico-sanitarie dell’immobile non sono per niente ottimali, l’intonaco si deteriora sempre di più e gli infissi non sono più in grado di isolare dal freddo le stanze che accolgono funzionari pubblici e cittadini.

La pandemia lo ha cambiato solo in parte: non ci sono più le file chilometriche per entrare, da prendervi il posto nel cuore della notte e a pagamento secondo un esercizio abusivo, né ci sono più le convocazioni di tre o quattro nuclei famigliari alla volta in una medesima stanza. In questi uffici, il Reddito di Cittadinanza si è rivelato poco più di una firma sul Patto per il Lavoro, senza alcun altro servizio offerto, nonostante i bisogni complessi dei beneficiari.

Le criticità della policy a vari livelli non sono state certamente di aiuto, tra decreti attuativi mancanti, servizi pubblici del territorio poco integrati o relazioni conflittuali tra diverse istituzioni. C’è da chiedersi, però, a quali condizioni una politica attiva del lavoro, pur implementata al meglio, possa avere esiti emancipatori in un mercato del lavoro locale che è tanto ostile quanto povero di buone occasioni. Queste problematiche, più strutturali che individuali, riguardano persino chi non vive in una condizione di marginalità.

Sempre a Taranto, in effetti, i protagonisti delle storie riuscite del Reddito di Cittadinanza come politica attiva del lavoro sono quei beneficiari che hanno potuto contare su risorse proprie (umane, sociali, culturali, etc.) e non solamente su quelle direttamente o indirettamente mobilitate dalla policy. Inoltre, sono coloro che hanno potuto mettere in atto strategie adattive in relazione a vincoli ed opportunità o che hanno incontrato sul proprio percorso delle casualità fortunate, come ad esempio navigator empatici e preparati, riportando in auge il concetto di serendipità. Tra queste storie, ci sono anche quelle di beneficiari che, grazie al Reddito di Cittadinanza, hanno potuto rifiutare offerte di lavoro poco dignitoso, come quelle stagionali e poco remunerate della ristorazione.

Considerando la centralità della transizione ecologica, nonché i processi di cambiamento necessari per città in crisi e ai margini proprio come Taranto o altre città industriali del Mezzogiorno d’Italia, questo è indubbiamente uno spreco di opportunità: se riconsiderate in un quadro di connessioni locali plurime, le politiche attive del lavoro possono avere ricadute importanti per il benessere tanto individuale quanto collettivo, dialogando in particolare con i piani territoriali per uno sviluppo integrato e sostenibile. Del resto, le politiche attive del lavoro non sono mai di per sé sufficienti a garantire migliori traiettorie di vita ai propri beneficiari. Resta sempre necessario riflettere sulla loro integrazione strategica con altre politiche del lavoro, come quelle regolative dinanzi a processi sempre più rilevanti di dualizzazione del mercato del lavoro. Contestualmente, le politiche attive del lavoro necessitano di essere sinergiche con altre politiche pubbliche, ad esempio con quelle economiche, educative, abitative o di genere.

Per cogliere allora le opportunità, e non per sprecarle, in queste righe si propone innanzitutto di riqualificare la spesa sociale attraverso politiche pubbliche integrate, che sono anche in grado di portare al centro di un percorso di crescita condivisa quegli individui e quei territori ai margini. Si potrebbe, cioè, richiedere ai beneficiari di politiche pubbliche che vivono in una condizione di doppia marginalità – personale e spaziale – di individuare i bisogni sociali del territorio in cui vivono quotidianamente, ossia i “vuoti a rendere” per cui poter co-progettare nuove attività economiche e sociali con imprese, istituzioni e Terzo Settore. Così facendo, tra le altre cose, si valorizzerebbe l’expertise d’usage di quanti si trovano ai margini, si svilupperebbero forme di conoscenza e intelligenza collettiva e si formerebbero condizioni favorevoli per nuovi green o white jobs. Tutto questo potrebbe avvenire, ad esempio, nelle cooperative energetiche e di comunità, nei servizi di cura ed eco-sistemici o nei processi partecipati e inclusivi per la politica urbana oltre la retorica.

È importante, tuttavia, soffermarsi subito su due questioni. La prima è che si fa riferimento a lavori remunerati e non a quelli gratuiti previsti dai Patti di Utilità Collettiva che si riferiscono sempre al Reddito di Cittadinanza – i “lavori veri” e non “a gratis” come li hanno definiti numerosi beneficiari tarantini. La seconda è che i rapporti di lavoro nel settore della cura e altrove non dovrebbero più essere riferiti ad un mosaico altamente frammentato, caratterizzato dalla compresenza ancora di dualismi e di condizioni di lavoro poco dignitose.

Per di più, le politiche attive del lavoro per vite e territori ai margini potrebbero riferirsi ad un diverso paradigma dell’attivazione, non più orientata al lavoro inteso solamente in senso economico. Per contro, si potrebbero superare i confini del mercato del lavoro. Alcune proposte, pur riguardando i redditi di base, si muovono già in questa direzione, come il participation income di Atkinson o il revenu du transition écologique di Swaton: ai beneficiari viene richiesto di “attivarsi” in attività di cura, volontariato, studio o cura dell’ambiente, per garantirsi il diritto al reddito minimo. Al contempo, l’attivazione potrebbe, e anzi dovrebbe, cessare di essere obbligatoria, altrimenti si ricade nella trappola dei lavori gratuiti o nella cittadinanza economica. Seguendo tali direzioni, anzi, i diritti sociali non sarebbero più “condizionati” al lavoro che è paradossalmente svuotato di diritti. Di conseguenza, si potrebbero pure sostituire i meccanismi punitivi e coercitivi con quelli “premiali” e di incentivazione al lavoro, fuori e dentro il mercato. Questi tipi di meccanismi sono al momento previsti solamente per i datori di lavoro.

Gli stessi beneficiari potrebbero, poi, essere coinvolti nel disegno e nella valutazione delle politiche attive del lavoro, come di altre politiche pubbliche. L’importante è non pensare alla loro partecipazione come qualcosa di semplicemente funzionale alla formulazione di politiche pubbliche più efficaci ed efficienti. Piuttosto, si potrebbe ragionare in un’ottica di capability of voice, che è un’opzione praticabile solamente dai membri al centro e non ai margini della società. La questione rimane, quindi, quella di “rappresentare i non rappresentati”. Le rivendicazioni dei soggetti come quelli qui considerati, tra l’altro, sarebbero in parte condivisibili da quelle di altri lavoratori che sono particolarmente interessati da fenomeni di mercificazione occupazionale da un alto e dall’indebolimento delle tutele del welfare dall’altro. Tornando emblematicamente a Taranto, dove per molto tempo si è stati costretti a scambiare il buon lavoro con la buona salute, molti beneficiari del Reddito di Cittadinanza sono in effetti lavoratori poveri o disoccupati, ormai incapaci di rientrare in un mercato del lavoro (formale).

Infine, la voce dei beneficiari potrebbe diventare l’oggetto di ricerca per molti più studiosi, grazie all’applicazione di metodi qualitativi come l’osservazione partecipante all’interno di etnografie che potrebbero, per giunta, essere critiche. Dopo decenni di analisi pubbliche poco riflessive e dominate da approcci quantitativi e mainstream, talvolta persino manageriali, gli studi etnografici e critici potrebbero anzi essere utili per intervenire strategicamente nel dibattito sulle politiche sociali più in generale, decostruendo, complicando o contestando tanti discorsi che non sono privi di ideologia.

In tutte queste direzioni non ci si può muovere, però, senza prima abbandonare gli stereotipi che “ingombrano” le politiche, per cui i beneficiari del Reddito di Cittadinanza sono gli “sdraiati sul divano” o i “poveri in vacanza”. Queste immagini stereotipate offrono ai policy makers una ragione in meno per trattare le problematiche strutturali associate al mercato del lavoro o alla povertà, rafforzando così l’approccio “individualizzato” tipico del neoliberalismo, per cui l’individuo viene visto come la principale causa dei problemi sociali che lo riguardano. Simili concezioni e rappresentazioni portano di fatto alla legittimazione del controllo sociale. Eppure, la povertà non è una colpa da espiare.

Le possibilità per l’agire, dunque, non mancano, ma richiedono di essere inquadrate in un quadro più ampio e consapevole da parte di tutti. Anche perché molti beneficiari delle politiche attive del lavoro possono nutrire delle aspirazioni neo-fordiste, non solamente per lo skyline dettato dalla fabbrica come è ancora il caso di Taranto. Vogliono lavorare, o meglio vogliono un lavoro che sia ancora sinonimo di sicurezza, identità o riconoscimento sociale. Il Reddito di Cittadinanza, “quello vero”, in questo senso forse non basta. Ne sono, anzi, sicuri i sostenitori della proposta britannica per i servizi pubblici di base o i volti del collettivo francese “La nuit du service public”, per fare qualche esempio. Per esserne certi, bisognerebbe chiederlo a quelli che, sempre più numerosi, rischiano di essere gli “inutili al mondo”. Soprattutto, bisognerebbe coinvolgerli, portarli in una traiettoria di generatività e non di inutilità, né tantomeno di mera produttività e di consumo, liberamente.

Schede e storico autori