PNRR/Recovery Fund: la specializzazione produttiva e l’Italia di domani

Giorgio Ricchiuti e Luigi Scorca, analizzando i dati relativi al periodo 1995-2018 mostrano come l’Italia sia rimasta specializzata nella produzione di beni e servizi a basso contenuto tecnologico mentre Francia e Germania si sono ritagliate un ruolo nei settori ad alto contenuto di conoscenza e di tecnologia. Di conseguenza i due autori sostengono che si dovrebbe cogliere l’opportunità del PNRR per orientare la struttura produttiva del nostro Paese verso i settori ad alto valore aggiunto, quelli con le migliori prospettive di crescita nel lungo periodo.

A fine aprile l’Italia ha presentato il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che prevede investimenti pari a 221 miliardi di euro (191,5 attraverso il piano NGEU e 30,6 attraverso un fondo complementare). Data l’importanza del Piano, un’analisi delle condizioni economiche attuali del Paese è particolarmente necessaria per elaborare una strategia efficace per il futuro; tale analisi non può prescindere da una lettura degli eventi dell’ultimo quarto di secolo e, soprattutto, da un confronto con i principali paesi dell’Unione europea. In questo scritto ci concentriamo sulla specializzazione industriale (nel manifatturiero e nei servizi) dell’Italia negli ultimi decenni, confrontandola con quella di Francia, Germania e Spagna. Il periodo considerato, 1995-2018, consente di mettere in luce andamenti di lungo periodo che, peraltro, si sono aggravati nel tempo.

La figura 1 mostra l’andamento del Pil reale: in Italia la crescita media per l’intero periodo è stata soltanto dello 0,62%, risultando poco superiore all’1% (precisamente 1,3%) prima della crisi finanziaria del 2008 e, invece, mediamente negativa fra il 2009 e il 2018. In Germania la crescita, che prima della crisi era simile alla nostra (1,5%), negli anni 2010 e 2011 si avvicina al 4%. La Francia ha un andamento in linea con la media dell’Unione, mentre la vera sorpresa del periodo è la Spagna, con un tasso medio del 2,2%.

Figura 1

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Cosa c’è dietro questi numeri? Per capirlo, occorre analizzare la specializzazione produttiva dei Paesi considerati (Italia, Francia, Germania, Spagna). A questo scopo abbiamo utilizzato i dati in serie storica (1995-2018) del valore aggiunto per settore merceologico (NACE Rev 2), distinti sulla base della classificazione Eurostat per contenuto tecnologico. Tale classificazione comprende sia i settori manifatturieri, distinti in quattro classi tecnologiche (high tech o HT, medium-high tech o MHT, medium-low tech o MLT e low tech o LT), sia il settore dei servizi, a loro volta distinti in: high tech knowledge intensive (HKIS), knowledge market intensive (KIMS), other knowledge intensive (OKIS) e less knowledge intensive (LKIS). Le attività che rientrano nel settore finanziario e nei settori non inclusi nella classificazione di cui sopra (come il settore estrattivo, la produzione di elettricità e le costruzioni) sono in una categoria a parte. L’indice di specializzazione produttiva è stato costruito come Indice di Balassa, che presenta al denominatore il dato riferito all’Unione europea: se superiore a 1, il Paese considerato è specializzato nei settori che appartengono a quella classe tecnologica; se inferiore ad 1, invece, il Paese non è specializzato.

Nel segmento manifatturiero low tech (LT), che comprende il settore tessile, l’alimentare, l’industria cartaria e dei mobili, sono specializzati solo l’Italia e la Spagna: la specializzazione italiana, però, è più intensa e costante negli anni. Qui, in definitiva, sono rappresentati tutti i settori che fanno parte del cosiddetto Made in Italy.

Salendo di contenuto tecnologico, nel segmento MLT, che include i prodotti in gomma, il materiale plastico, i prodotti petroliferi raffinati, la metallurgia e la siderurgia, risultano specializzati l’Italia e la Germania. L’Italia non risulta specializzata, invece, né nei settori a contenuto tecnologico medio-alto (MHT), che comprende la meccanica, l’elettromeccanica, la chimica ed il settore auto, né in quelli a contenuto tecnologico più elevato (HT), come la farmaceutica, l’elettronica, l’aerospazio e la produzione di apparecchi medicali (figure 2 e 3). C’è da sottolineare che la dinamica del segmento MHT è il risultato di due tendenze contrapposte: da un lato, il calo della chimica e, più accentuato, del settore dell’automobile; dall’altro, la crescita dell’elettromeccanica ed il rafforzamento della specializzazione nella meccanica. Le aziende presenti nei settori citati – alcune anche partecipate dallo Stato – non sembrano svolgere un ruolo centrale nel sistema produttivo nazionale. Nei settori a medio-alto e ad alto contenuto tecnologico spicca invece la specializzazione produttiva della Germania, che oltremodo si accentua – in entrambi i segmenti – durante il periodo analizzato.

Considerando, pertanto, il settore manifatturiero, sembra essersi verificata una polarizzazione produttiva. Da una parte Spagna e Italia, concentrate su produzioni a contenuto tecnologico basso, ma importanti per l’occupazione complessiva; dall’altra, la Germania, che ha focalizzato la propria base produttiva soprattutto nei settori a medio e alto contenuto tecnologico.

Figura 2 e 3

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Nei servizi, l’Italia (insieme alla Spagna) risulta avere un indice di specializzazione superiore ad 1 solo nel segmento a bassa intensità di conoscenza (LKIS): in questo ambito, che racchiude i servizi di autotrasporto, il settore postale, il turismo (alloggio e ristorazione) ed i servizi immobiliari, l’indice italiano passa da 1,08 del 1995 a 1,14 del 2018. Nel settore KIMS, che include i servizi di mercato ad alto contenuto di conoscenza, come le attività legali e di consulenza, i servizi pubblicitari, il trasporto aereo e marittimo, negli anni l’Italia perde la propria specializzazione produttiva. La Francia risulta, invece, essere specializzata in tutte le categorie di servizi ad alto contenuto di conoscenza (HKIS, KIMS e OKIS).

Anche nel settore dei servizi, pertanto, l’Italia si concentra nelle produzioni a basso contenuto di conoscenza, prioritariamente servizi alla persona con significative ricadute occupazionali ma con poche esternalità verso il manifatturiero. È preoccupante la perdita di specializzazione produttiva nei servizi di mercato ad alto contenuto di conoscenza (KIMS), che in passato erano un punto di forza per il nostro Paese.

Inoltre, è da sottolineare come sia gli LT che gli LKIS sono non solo a basso valore aggiunto ma, essendo guidati perlopiù dall’interazione fra lavoratori e da attività non necessariamente di routine, presentano, come già ipotizzato da Baumol negli anni ‘60, una minore crescita della produttività (con effetti anche sulla crescita economica nel lungo periodo). Ciò è confermato dall’andamento della produttività per ora lavorata (Figura 4): mentre Francia e Germania, specializzati rispettivamente in servizi ad alto contenuto di conoscenza (per la Francia, HKIS, KIMS e OKIS) e produzione di beni ad alto contenuto tecnologico (per la Germania, MLT, MHT e HT), hanno una produttività del lavoro che cresce nel tempo, l’Italia (specializzata nei settori LT ed LKIS) ha una dinamica molto più contenuta.

Figura 4

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

C’è da sottolineare, inoltre, che esiste coevoluzione fra la localizzazione delle imprese e quella dei lavoratori: le imprese a più alto livello tecnologico necessitano di lavoratori con elevati livelli di conoscenza, che si spostano dove queste produzioni vengono effettuate. Tutto ciò è rafforzato dal fatto che per sfruttare la ricchezza (qualità e quantità) dell’offerta di lavoro specializzato e la maggiore possibilità di trasferimento tecnologico, le imprese si spostano dove ci sono lavoratori più specializzati. Questo processo spinge ulteriormente le innovazioni e la produttività.

Come già sostenuto da Moretti (La nuova geografia del lavoro, Mondadori, 2014) riprendendo in parte l’analisi di Krugman della fine del secolo scorso, le regioni interessate presentano forze centrifughe che richiamano lavoratori da altri Paesi (o regioni), determinando in questo modo la geografia della produzione e del lavoro. La dinamica del fenomeno è inesorabile: nelle aree più produttive/innovative la popolazione e la crescita economica aumentano, mentre le altre aree si svuotano oppure si concentrano su settori che portano ad aumenti di produttività e crescita limitata. Insomma, mentre le prime vedono ampliarsi le opportunità di innovazione, le seconde si inaridiscono e perdono di rilevanza strategica sia dal punto di vista economico che politico.

Cosa fare? Innanzitutto, è necessario avere chiari i termini della questione: specializzarsi in settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza comporta, come risultato, un tessuto produttivo a bassa produttività, e quindi con bassi salari. Si è già discusso su questa rivista della dicotomia tra turismo e manifattura e sul fatto che investire su settori come quello del turismo se nel breve periodo consente di sostenere l’occupazione, nel lungo periodo rischia di frenare la crescita del PIL, della produttività e dei salari. Il secondo passaggio è capire quali settori privilegiare in termini di investimento, tenendo in considerazione la base produttiva già presente sul territorio, le catene del valore internazionali in cui il Paese è inserito e gli effetti di rete con i centri di ricerca e le Università. Terzo ed ultimo passaggio: individuata la problematica e definiti i settori su cui il Paese decide di focalizzarsi, è necessario definire le modalità di tale intervento.

Data la già nota grande presenza di piccole e medie imprese nel tessuto produttivo italiano, e la limitata capacità di investimento in ricerca e sviluppo (R&D) di questo tipo di imprese, sembrerebbe necessario un intervento pubblico, anche per mezzo delle aziende controllate dallo Stato, che da un lato favorisca lo sviluppo e il trasferimento tecnologico alle imprese così da permettere loro l’evoluzione verso settori a più alto contenuto tecnologico e caratterizzati da una maggiore produttività del lavoro e dall’impiego di lavoro qualificato e, dall’altro, ponga le condizioni per la crescita dimensionale delle aziende. Come evidenziato dalla recente analisi di Viesti (Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, 2021), è necessario mettere al centro il ruolo delle Università, con la loro capacità di facilitare il trasferimento tecnologico.

I dati che abbiamo presentato mostrano che, negli anni, l’Italia è rimasta specializzata nella produzione di beni e servizi a basso contenuto tecnologico, mentre Francia e Germania si sono ritagliate un ruolo nei settori avanzati a maggiore contenuto di conoscenza/tecnologia. Nel contesto di un massiccio piano di investimenti come quello presentato attraverso il PNRR, l’Italia rischia perdere l’opportunità di creare una base produttiva che punti sui settori con le migliori prospettive di crescita nel lungo periodo. Questo andamento deve essere corretto: per avere una crescita quantitativamente e qualitativamente superiore, l’Italia deve muoversi nella stessa direzione di Germania e Francia, e cioè verso la produzione di beni e servizi con maggiore contenuto tecnologico e di conoscenza. Per fare ciò serve un piano, di lungo periodo, che organizzi il tessuto produttivo, e che coinvolga tutti gli attori sociali: Stato, imprese, parti sociali, enti di ricerca e Università. Il PNRR è una ottima occasione per cambiare (in meglio) il Paese.

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