Place matters: note in margine al Festival dell’Economia di Trento

Stefano Filauro illustra le tesi presentate da alcuni relatori al recente Festival dell’Economia di Trento dedicato principalmente all’impatto che i “luoghi” hanno sulla crescita e altri fenomeni economici e sociali. Filauro si focalizza su tre contributi, quelli di Gianfranco Viesti, Fabrizio Barca e Raj Chetty, che appaiono interessanti non solo per i risultati presentati ma anche perché definiscono i luoghi in modo diverso e valutano il loro impatto su fenomeni differenti ma sempre molto rilevanti.

Al Festival dell’Economia di Trento, svoltosi tra il 2 e il 5 giugno, quest’anno si è parlato soprattutto di “luoghi” e del loro impatto sulla crescita oltre che su numerose altre variabili socio-economiche.

I “luoghi” possono, in realtà, essere diversamente definiti e concepiti e ampia è anche la lista dei fenomeni sui quali essi esercitano i propri effetti. In effetti, la diversità dei luoghi si può trasformare in diversità di risultati, e dunque in causa (forse non sempre ultima) di disuguaglianze in varie dimensioni.

Tra i moltissimi interventi, in questo resoconto, mi soffermerò su tre che si differenziano per la diversità sia nella delimitazione dei “luoghi” sia nei fenomeni presi in esami. I tre interventi sono quelli di Gianfranco Viesti, Fabrizio Barca e Raj Chetty.

I luoghi di Viesti sono le grandi aree geografiche dei nostro paese e il suo tema è stato l’impatto che la crisi ha avuto su di esse. Viesti ha mostrato che durante la crisi il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno si è ampliato per motivi riconducibili principalmente alle secolari diversità nella struttura economica-istituzionale e alle politiche di consolidamento fiscale.

Nell’ultimo decennio infatti ogni componente del reddito nazionale è diminuita al Sud in modo molto più sensibile che nel resto del paese (Figura 1), determinando un drastico calo del reddito pro capite e del numero totale di occupati nell’area.

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Il quadro economico-istituzionale dentro cui si producono tali disparità è quello della secolare perifericità geografica del Mezzogiorno rispetto alle grandi aree produttive del Centro-Europa, della sua minore dotazione di infrastrutture materiali e immateriali, dei suoi più bassi livelli di istruzione e della minore qualità dei servizi pubblici e dell’attività delle amministrazioni locali.

D’altro canto, il calo della domanda che si è manifestato durante la crisi, anziché essere compensato dall’intervento pubblico è stato esacerbato dalle politiche economiche di consolidamento fiscale che hanno colpito asimmetricamente i territori, con effetti particolarmente negativi nel Meridione. All’ aumento della pressione fiscale a livello locale, nel Mezzogiorno è infatti corrisposto una maggiore diminuzione di spesa pubblica sia corrente che in conto capitale al punto che gli investimenti pubblici fissi al Sud sono scesi a livelli che non permettono neanche di rimpiazzare il capitale produttivo deteriorato.

Secondo Viesti – e questo è un punto cruciale – dalla geografia dipendono gli effetti degli investimenti sulla produzione: infatti un euro investito al Nord attiva per l’80% produzione al Nord, un euro investito al Sud attiva più produzione al Nord che al Sud (49,7% vs 40,2%, dati Prometeia). La causa è la forte integrazione del sistema economico a livello nazionale, che se è positiva in generale finisce per rendere lo sviluppo al Sud più difficile; infatti, il trasferimento implicito di risorse dovuto all’import di beni settentrionali, richiederebbe investimenti ben più consistenti al Sud per contenere l’allargamento delle disparità.

Nel capitolo dell’investimento pubblico, una nota dolente è anche quella dell’investimento in istruzione, che nel Mezzogiorno è tornato ai livelli del 1990. Dal lato della spesa pubblica poi le componenti più sostanziose a livello nazionale, come quella previdenziale, beneficiano maggiormente il Centro-Nord, dove le prestazioni pensionistiche riflettono carriere lavorative più stabili e livelli di occupazione più elevati. Altre componenti di spesa famiglie che invece beneficerebbero maggiormente il Meridione come contrasto alla povertà o azione per giovani hanno invece poco peso nel bilancio pubblico.

In conclusione Viesti ha prospettato il rischio che l’onda lunga della crisi, combinata a un intervento pubblico che produce effetti territoriali sperequati e a una riduzione della spesa, possa ulteriormente approfondire le disparità territoriali tra Mezzogiorno e resto del Paese.

I luoghi di Fabrizio Barca sono stati, invece, le aree interne e i grandi centri di agglomerazione. Soffermandosi sui benefici che le prime possono assicurare e sugli svantaggi dei secondi, Barca ha invocato interventi pubblici attenti ai contesti territoriali in grado di restituire ai cittadini delle aree interne la possibilità di scegliere la propria mobilità.

Di fronte alla generale tendenza verso lo spopolamento delle aree interne e l’agglomerazione nei centri urbani – in conseguenza degli enormi vantaggi tecnologici, logistici ed economici concentrati nelle aree urbane – Barca sostiene che le aree interne, soprattutto nel caso italiano, possano ancora giocarsi un’importante chance di sviluppo e non siano necessariamente condannate al declino demografico.

Alla base di questa tesi c’è l’indicazione di alcuni malefici delle grandi agglomerazioni urbane e, di converso, di alcuni vantaggi delle aree interne, tutti documentati nel dibattito internazionale sulle politiche di sviluppo.

I malefici che si manifestano nelle grandi città, a volte rimediabili solo con alti costi per le finanze pubbliche, sono principalmente quattro:

  1. congestione abitativa con le sue ricadute ambientali;
  2. crescenti disuguaglianze economiche con conseguente riproduzione di divari economici tra le generazioni e dipendenza del reddito e dell’istruzione degli individui dall’area in cui si è nati;
  3. alto potere di controllo sul capitale immateriale, (brevetti e licenze) con annesso minor accesso alle innovazioni e infine
  4. ritmi di vita e forme di organizzazione delle grandi città, che finiscono per essere stressanti e alienanti.

A fronte di questi caratteristici svantaggi delle agglomerazioni urbane vi sono invece alcuni vantaggi delle aree rarefatte, nello specifico:

i) la maggiore adattabilità rispetto alle aree urbane a tutta una serie di cambiamenti esterni, siano essi di natura climatica o di natura migratoria – si pensi alla distribuzione territoriale più equilibrata dei flussi migratori nelle aree interne rispetto alle forti concentrazioni nelle periferie delle città;

ii) offerta di spazi di libertà per i giovani, in un contesto dove il controllo statale o privato è meno opprimente.

Inoltre, grazie ai maggiori interscambi di conoscenza permessi dalla Rete risultano di molto ridotti i secolari svantaggi delle aree interne nella comunicazione e circolazione delle idee.

Sulla base di questa disamina Barca muove una critica a quelle politiche cieche, ‘blind’ nella celebre definizione della Banca Mondiale, che non tengono conto del ruolo nei territori, siano esse orientate al mercato del lavoro, alla formazione o al ridisegno dei sistemi di welfare.

Dunque Barca conclude con l’auspicio che vengano promosse politiche di sviluppo come la “Strategia Nazionale Aree Interne”, elaborata nel recente passato dal Ministero per la Coesione Territoriale. Tali politiche, anziché muoversi con l’obiettivo di favorire la concentrazione nei grandi centri per poi temperare gli effetti di spopolamento nelle aree interne, sono volte a garantire quelle opportunità e quei buoni servizi a livello locale che permettono ai cittadini di scegliere se permanere o meno nelle aree interne, in quella che può essere considerata una competizione fra territori.

I luoghi di interesse per Raj Chetty sono le grandi città americane in cui ha esaminato la speranza di vita dei percettori di bassi redditi e ha trovato che variano notevolmente da città e città.

Il suo punto di partenza è stato l’analisi di quanto varia la speranza di vita dei quarantenni americani in funzione della loro fascia di reddito. I risultati sono sorprendenti: la speranza di vita si muove parallelamente al reddito e cresce sempre con il passaggio a una fascia di reddito più elevata, anche quando ci si sposta da redditi già alti (Figura 2).

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La differenza tra il top 1% e l’ultimo 1% della popolazione è nell’ordine dei 15 anni di vita, una differenza spaventosa che ha la seguente implicazione: un milionario americano ha una speranza di vita superiore a quella di ogni altra nazione al mondo ma un americano a bassissimo reddito ha una speranza di vita inferiore a quella media di un cittadino pakistano.

Oltre all’allarmante differenza di longevità tra fasce di reddito Chetty individua un sorprendente differenziale dipendente dalla città di residenza, che, però, si manifesta solo per gli individui a basso reddito (Figura 3).

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Infatti la speranza di vita per gli individui a basso reddito varia notevolmente da città a città; la massima differenza è dell’ordine di 4 anni (sic!) e riguarda gli individui nell’ultimo quartile della distribuzione del reddito residenti a New York (NY) e Gary (IN).

Parafrasando l’incipit di Anna Karenina, le famiglie ricche sono apparentemente tutte uguali, mentre ogni famiglia povera è povera (e meno longeva) a modo suo, a seconda della città di residenza. Sembra quindi delinearsi un quadro in cui gli individui a basso reddito delle città più ricche, costose e istruite vivono di più rispetto a quelli delle città di tradizione operaia della rust belt o del Sud-Ovest del paese.

Tra le spiegazioni più probabili di questa preoccupante novità Chetty menziona i differenti stili di vita in materia di fumo e obesità mentre sembra escludere che la segregazione urbana svolga un ruolo significativo (a NY la segregazione urbana dei cittadini poveri è molto forte).

Sulla base di ciò Chetty raccomanda politiche sanitarie che tengano conto della diversità urbana e favoriscano stili di vita in grado di ridurre il gap di longevità.

Dunque, sebbene i luoghi presi in esame in queste tre analisi sono diversi così come sono diversi i fenomeni sui quali i luoghi sembrano incidere, appare chiaro che “place matters”, ed è il caso che le scienze sociali se ne occupino sempre di più.

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