Più consegne, meno diritti: l’infausta parabola giuridica dei rider

Luca Bonacini e Valentina Camurri, analizzando i dati Google Trend, mostrano che la richiesta di servizi di food delivery è aumentata con le misure di distanziamento sociale adottate nella prima ondata di Covid-19 e non è tornata ai livelli pre-pandemici con il loro alleggerimento. Bonacini e Camurri ipotizzano, quindi, che il cambiamento forzato delle abitudini accrescerà in modo permanente il ricorso ai rider e sostengono che ciò rende quanto mai urgenti strumenti di contrasto a forme di sfruttamento che le piattaforme potrebbero porre in essere.

Il piano di contrasto seguito dal Governo italiano per limitare la diffusione della pandemia di Covid-19 è stato sin da subito l’adozione di misure di contenimento che hanno stravolto la quotidianità dell’intera popolazione, obbligando quest’ultima all’isolamento presso il proprio domicilio. Il necessario adattamento delle abitudini alle restrizioni ha verosimilmente comportato l’aumento della dimensione dell’utilizzo di servizi digitali e di e-commerce. L’obiettivo della nostra analisi è quindi quello di verificare, prima, se tali misure restrittive abbiano contribuito al diffondersi della richiesta di servizi di food delivery tramite piattaforma e, in seguito, se l’aumento si sia effettivamente esaurito con la fine delle restrizioni.

In generale, all’interno della macro-categoria del “platform work” si è soliti distinguere tra il “crowdworking” (dove tutta la prestazione avviene online e quindi sulla piattaforma) e quello “a chiamata tramite applicazione” (in cui le società si avvalgono dell’infrastruttura digitale come mezzo per organizzare e gestire i lavoratori in relazione al flusso di lavoro, ma poi, alla fine, l’attività lavorativa viene svolta in concreto nella realtà fenomenica).

Appartengono a quest’ultima categoria i rider: essi effettuano consegne – per lo più di food delivery – per il tramite della chiamata che appunto avviene a seguito della loro iscrizione su una piattaforma digitale che prende in gestione le consegne da effettuare, le assegna a diversi lavoratori e organizza a questi le modalità e i tempi in cui tali prestazioni devono essere eseguite.

L’utilizzo di una piattaforma digitale, quale strumento di organizzazione del lavoro, può comportare effetti di natura ancipite: positivi, da un lato, negativi, dall’altro. La piattaforma è senza dubbio uno strumento in grado non solo di accelerare le tempistiche naturali e tipiche dell’organizzazione del lavoro, ma anche di aumentare, in maniera esponenziale, il bacino di utenze finali che richiede una prestazione di food delivery.

Invero, nei mercati del lavoro contemporanei, le piattaforme tendono ad attirare le componenti più fragili della società (bassi redditi, disoccupati di lunga durata, migranti, etc) che, avendo poche o nulle alternative tra cui scegliere, sono disposti ad accettare condizioni, quelle offerte dalle piattaforme, che sono spesso estreme dal punto di vista dei ritmi di lavoro, del grado di sfruttamento, dell’incertezza e dell’assenza di tutele. Il caso paradigmatico di tale utilizzo distorsivo è proprio quello che è avvenuto nei confronti dei rider, categoria debole per eccellenza, composta per la maggior parte da richiedenti asilo e altri soggetti particolarmente vulnerabili che spesso versano in un conclamato stato di bisogno.

Il fatto che la piattaforma sia in grado di porre in essere vere e proprie forme di sfruttamento lavorativo è stato recentemente confermato dalla giurisprudenza interna che, in alcune recenti pronunce (tra cui, da ultimo, il Decreto del Tribunale di Milano, sez. Misure di prevenzione, del 28 maggio 2019, n. 9), ha ritenuto configurabile (quantomeno in astratto) il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro disciplinato dall’art. 603 bis c.p. Questo delitto – punito nella sua forma base con la pena della detenzione da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato – è stato inserito dal legislatore per contrastare le forme tipiche del c.d. caporalato che tradizionalmente vengono poste in essere, principalmente, nel settore agricolo e in quello edilizio. Oggi la fattispecie si ritiene applicabile anche a queste nuove forme di sfruttamento che vengono appunto definite come “caporalato digitale” proprio per il fatto che sono perpetrate attraverso lo strumento della piattaforma.

Come sopra evidenziato, a causa della diffusione della pandemia di Covid-19 e delle misure di distanziamento adottate dal Governo, tra le quali in particolare il lockdown generalizzato e la chiusura degli esercizi commerciali al dettaglio, è possibile aspettarsi che la dimensione dell’utilizzo di tali piattaforme sia aumentata repentinamente. Il principale problema di questo tipo di analisi è quello di trovare una misura che permetta di quantificare l’evoluzione delle richieste di food delivery nel tempo. Per verificare questa ipotesi, ci siamo basati sui dati Google Trend. Come diversi studiosi affermano (N. Askitas e K.F. Zimmermann, in Applied Economics Quarterly 2009; N. Askitas e K.F. Zimmermann, in International Journal of Manpower, 2015) questi dati sono estremamente utili per misurare i comportamenti economici, seppur a livello aggregato, e sono particolarmente idonei, nel nostro caso, in quanto le ordinazioni su queste piattaforme devono essere eseguite necessariamente su internet.

I grafici 1a e 1b mostrano l’andamento dei dati giornalieri Google Trend nella ricerca “Rider + Deliveroo + Glovo + Just Eat + Uber Eats” nella sezione “alimenti e bevande” in Italia prima e durante la chiusura forzata degli esercizi commerciali al dettaglio (figura 1a) e durante e al termine di questa (figura 1b). Considerando questi dati come proxy dell’evoluzione della domanda di servizi food delivery, appare evidente che a seguito della misura adottata vi sia stato un aumento, il quale diminuisce con il ritorno alla “quasi normalità” nel mese di maggio. Numerosi fattori possono incidere sugli andamenti mostrati. In particolare, la riduzione della domanda di consegne a domicilio potrebbe essere dovuta in tutto o in parte a un effetto-periodo, per cui nei mesi estivi le richieste di consegna a domicilio sono strutturalmente inferiori alla stagione precedente.

Figura 1 – Google Trend per “Coronavirus Italia” in Italia

Per effettuare la nostra analisi econometrica, abbiamo quindi estratto i dati della medesima ricerca, ma a livello regionale, sino al 17 maggio 2020, vale a dire l’ultimo giorno di chiusura degli esercizi commerciali al dettaglio, partendo dai novanta giorni precedenti, ossia la soglia oltre a cui Google Trend non fornisce i dati giornalieri. Sia il metodo con cui i dati sono resi equiparabili, sia quello di analisi, si basano sul recente articolo di Brodeur et al. (“COVID-19, lockdowns and well-being: Evidence from Google Trends”, Journal of Public Economics, 2021), seguendo il quale adottiamo un modello difference in differences in cui compariamo i dati dei giorni precedenti al lockdown generalizzato dell’undici marzo 2020 con quelli successivi (variabile Pre-post) e ripuliamo il risultato dall’effetto-periodo confrontando la differenza pre-post con quella tra gli stessi giorni dell’anno precedente (variabile Year). La principale variabile d’interesse è quindi l’interazione tra queste due variabili. I risultati dell’analisi, in cui controlliamo per i differenti trend, per gli effetti fissi di regione, mese e giorno della settimana, sono riportati nella figura 2. Qui notiamo che con l’inizio del lockdown si è effettivamente verificato un aumento delle richieste di consegne da parte dei rider le quali, come osserviamo dalla variabile Conteggio_giorni e dalla sua interazione con la variabile Year e con le variabili Pre-post e Year, non sono andate a ridursi nel corso del tempo.

Figura 2 – L’effetto del lockdown sulla richiesta di piattaforme food delivery

Note: Le variabili base sono: domenica, per i giorni della settimana; Campania, per le Regioni. Nel grafico non è mostrata la variabile mese. La scelta ottimale dei controlli da mantenere nel modello è realizzata attraverso lo studio dell’Akaike Information Criterion. Gli intervalli di confidenza sono al 10%.

Abbiamo poi effettuato la medesima analisi per capire se nel periodo del “quasi ritorno alla normalità” (che consideriamo quello tra il 18 maggio e il 25 ottobre 2020) si sia verificato un calo della richiesta di servizi da parte dei rider rispetto al periodo in cui sono state in vigore le misure di distanziamento sociale (figura 3). È interessante notare, non solo che non si è verificato uno shock negativo al termine del lockdown (l’interazione tra Pre-post e Year non è significativamente diversa da zero), ma anche che, nei giorni successivi, la domanda sembra crescere più che nel periodo precedente.

Figura 3 – L’effetto del post-lockdown sulla richiesta di piattaforme food delivery

Note: Le variabili base sono: domenica, per i giorni della settimana; Campania, per le Regioni. Nel grafico non è mostrata la variabile mese. La scelta ottimale dei controlli da mantenere nel modello è realizzata attraverso lo studio dell’Akaike Information Criterion. Gli intervalli di confidenza sono al 10%.

La nostra analisi evidenzia, dunque, che l’aumento dell’utilizzo di queste piattaforme non è effettivamente tornato ai livelli pre-pandemici. In altre parole, sembra che il cambiamento forzato delle abitudini dovuto alle misure di contrasto al Covid-19 abbia repentinamente e strutturalmente allargato l’utenza dei rider. È evidente che la pandemia non si è completamente esaurita nel periodo che ha seguito la prima ondata e i comportamenti di consumo sono, di conseguenza, rimasti condizionati dal perdurare della stessa. Un’analisi di nowcasting più precisa sarà quindi possibile solo al termine della diffusione del Covid-19.

Nondimeno, questo contributo evidenzia che è più che mai urgente e indispensabile operare scelte di opportunità politico-legislativa che abbiano effetti duraturi e che garantiscano ai rider di svolgere la propria attività lavorativa in condizioni quantomeno adeguate.

In primo luogo, sarebbe opportuno un intervento del legislatore penale, finalizzato a modificare il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p. La norma in oggetto è infatti attualmente sottoposta al vaglio critico della più attenta dottrina penalistica che ne auspica una pronta ed effettiva riforma in grado di ricomprendere all’interno del suo perimetro applicativo tutte le forme di sfruttamento lavorativo, ivi comprese quelle che avvengono tramite piattaforma. Come sopra riferito, la giurisprudenza ha invero già iniziato ad interpretare il reato nella sua accezione più estensiva proprio al fine di stigmatizzare anche le nuove forme di caporalato digitale. Tuttavia, proprio la mancanza della certezza della “tenuta” della fattispecie davanti a fenomeni di questo tipo potrebbe comportare il serio rischio di lasciare impunite condotte gravi di sfruttamento a causa della ritenuta inapplicabilità del reato di cui all’art. 603 bis c.p.

In secondo luogo, si ritiene auspicabile un intervento anche con riferimento agli strumenti di contrasto che operino in un’ottica di prevenzione rispetto alla formazione del fenomeno stesso. Ci si riferisce, in particolare, alla formulazione di piani, linee guida e protocolli-quadro sperimentali per la legalità contro il caporalato, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento lavorativo nel settore del food delivery. Se, infatti, alcuni Comuni (come quello di Modena) hanno già elaborato protocolli d’intesa finalizzati alla “promozione della buona occupazione nel settore delivery” (prot. 57400/2021, firmato il 23/2/2021), a livello nazionale tali utili strumenti preventivi non sono ancora stati adottati. L’intervento, tanto del legislatore, quanto del sistema politico, è invece oggi quanto mai necessario al fine di adottare efficaci strumenti di prevenzione (ex ante), di contrasto e di punizione (ex post) che mirino, in un’ottica condivisa e coesa, alla repressione del fenomeno. Infatti quest’ultimo, come risulta dall’analisi sopra svolta, potrebbe oggi diffondersi in maniera esponenziale in forza dell’incremento strutturale che l’utilizzo delle piattaforme ha subito a seguito della pandemia.

D’altronde, come ricorda Fitoussi “la formidabile crescita delle disuguaglianze significa per prima cosa che non c’è modo di negoziare un equilibrio tra quanti hanno il futuro assicurato e coloro che sono ossessionati dalla paura del domani” (J.-P. Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, 2013, p. 216). Si tratta dunque di superare l’idea di trovare un equilibrio tra vinti e vincitori e aggredire le disuguaglianze magari partendo dal ripristino di una – seppur flebile – fiamma di legalità in rapporti non solo asimmetrici ma anche lesivi della dignità del lavoratore. Ecco, cerchiamo di voltare pagina.

 

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